Il visiting professor all’università Tsinghua di Pechino mi mostra la chat che ha in corso con la dottoranda. Lei deve fare una ricerca su “innovazione e problemi sociali”, indagare cioè quali idee nuove, applicazioni, metodi, si possono utilizzare per affrontare la complessità crescente della società cinese. La dottoranda scrive: “Professore, può aiutarmi? Non riesco a trovare problemi sociali in Cina”.
“È una ragazza in gamba, molto studiosa, ma non è la prima volta che mi fa questa domanda”, dice il docente. La sua risposta, che scorre sullo schermo del telefonino, è ironica quanto gentile: “Cara, esci dalla biblioteca e fatti un giro attorno all’università. Di fronte a uno degli ingressi vedrai un contadino che vende dei cuccioli di coniglio. Dato che siamo 3 gradi sotto zero, i coniglietti tremano dal freddo e rischiano di morire. Lui dice che non c’è problema perché hanno il pelo, ma il fatto è che i conigli sono animali deboli di polmoni, che in inverno scavano una buca e se ne stanno sotto terra, solo che lui non lo sa o non ci pensa. Ecco, questo è un minuscolo problema di maltrattamento degli animali, ma è un problema sociale. Poniti la domanda: il governo come potrebbe suscitare in maniera innovativa una sensibilità diffusa sui diritti degli animali?”.
A Davos, di fronte al gotha dell’economia globale, il presidente cinese Xi Jinping ha espresso un concetto molto chiaro: indietro non si torna, si va avanti sulla strada della globalizzazione, ma per ammorbidirne gli effetti nefasti sul lavoro bisogna fare leva sull’innovazione.
Ora, premesso che l’innovazione molto spesso riduce il lavoro necessario invece di crearne di nuovo – si pensi agli effetti della sinergia tra informatizzazione e automazione – è forse il caso di chiedersi che cosa sia la chuangxin, così come la intendono i cinesi.
Fino a poco tempo fa, si parlava di zizhu chuangxin, tradotto di solito come “innovazione domestica”, ma dal significato più simile a “innovazione indipendente”. Peccato che non lo fosse affatto: consisteva di solito nell’acquisizione di tecnologie straniere e nel loro adattamento al contesto cinese, attraverso un processo di reverse engineering. Solo che, come quando si smonta una motocicletta per vedere come è fatta e poi la si rimonta, restando di solito con qualche pezzo in mano senza capire dove vada, anche ai cinesi non sempre la ciambella riusciva con il buco.
L’esempio più tragico fu l’incidente ferroviario del 2011 a Wenzhou, quando due treni veloci si scontrarono perché la tecnologia giapponese dell’alta velocità era stata “riadattata”, con alcuni difetti, nei sistemi di sicurezza.
L’ennesima prevaricazione
Ma al di là degli errori tecnici, è spesso l’adattabilità stessa della tecnologia d’importazione a essere in dubbio. Un esempio è la norma del codice stradale che consente alle auto di girare a destra anche quando il semaforo è rosso. È l’acquisizione del modello statunitense, nato però nelle semideserte città dell’ovest, dove la possibilità che un pedone attraversi la strada è piuttosto rara (anche perché raramente la gente va a piedi). Applicata alla densità umana delle città cinesi, la libera svolta a destra crea il caos e l’affermazione di una “gerarchia stradale” per cui l’automobile passa indipendentemente dal fatto che qualche pedone, bicicletta o triciclo stia attraversando la strada con il verde. L’ennesima prevaricazione.
Si dice che la Cina non sia l’ambiente giusto per creare innovazione radicale – quella che cambia paradigma e dà vantaggi competitivi, come furono l’invenzione della stampa a caratteri mobili, del motore a scoppio e del personal computer – perché il sistema scolastico produce dottorandi che stanno sepolti nelle biblioteche e non conoscono la vita, come la ragazza di cui sopra. Oppure perché il mondo delle imprese è dominato dal guanxi – la relazione spesso clientelare – e non dall’efficienza.
La sua natura non democratica permette al governo cinese di programmare su tempi lunghi, da dinastia imperiale
La nuova Cina di Xi Jinping sta quindi cercando di aggirare questi limiti quasi antropologici a modo suo, investendo massicciamente in “piattaforme” dove possa sorgere il nuovo. Cioè, si cerca di usare capitali sia statali sia privati per creare il “luogo” dell’innovazione: centri di ricerca, parchi tecnologici, InnoWay come quella del quartiere di Zhongguancun, a Pechino, dove nel medesimo luogo sono concentrati “caffè dell’innovazione” dove si incontrano imprenditori e makers, agenzie di consulenza, investitori. Il rischio – dicono in molti – è che la creazione del luogo si trasformi nell’ennesima corsa alla speculazione immobiliare. E infatti, la InnoWay di Pechino nasce su iniziativa dello Haidian property group, guarda caso una immobiliare.
Alla fine, la maggiore risorsa del governo cinese che punta all’innovazione sembra essere la sua natura non democratica – svincolata dai tempi brevi delle scadenze elettorali – che gli permette di programmare su tempi lunghi, da dinastia imperiale. Horizon 2020 è il principale progetto sull’innovazione dell’Unione europea. Mira, appunto, al 2020. Le analoghe linee guida diffuse dal governo di Pechino lo scorso maggio stabiliscono invece che entro quell’anno la Cina dovrà diventare “una nazione innovativa”; poi un “leader internazionale” dell’innovazione entro il 2030; e quindi “il fulcro mondiale” della ricerca scientifica e dell’innovazione tecnologica entro il 2060. L’Europa guarda al 2020, la Cina quattro decenni più in là.
Entro quella data i coniglietti non creperanno più di freddo.
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