Di recente, l’Italia si è impegnata a “uscire dal carbone entro il 2025”. Sarà che quando uno sta a Pechino pensa di vivere un’esperienza unica anche da questo punto di vista, ma ignoravo che in un paese europeo si facesse ancora uso di quel combustibile, grigliate a parte. Nella Cina settentrionale sta invece arrivando il freddo e, come ogni anno, si presenta il problema dell’inquinamento da riscaldamento che si aggiunge a quello già strutturale: il carbone appunto, che oltre a donarti tepore d’inverno, tiene anche in piedi la “fabbrica del mondo” per tutto l’anno.

In Cina, il carbone è responsabile di circa il 50-60 per cento dell’inquinamento e dei tre quarti delle emissioni di anidride carbonica.

Quando senti l’acqua che con un rumore comincia a ruscellare nei termosifoni, sei contento, sì, ma anche un po’ inquieto perché sai che è l’inizio di mesi pesanti, quelli della gola irritata e della perenne pressione sul petto.

Visto che c’è appena stato il summit della Cop23 a Bonn e che la Cina sembra ormai l’unica superpotenza (su due) ad avere ancora a cuore il destino dell’ambiente, è dunque interessante capire che progressi stia facendo su due fronti: la lotta contro il riscaldamento climatico e quella contro l’inquinamento. Che poi da queste parti sono la stessa cosa.

Dalla capacità di tenere insieme benessere fisico, economico e qualità della vita, dipende il consenso al Partito comunista

Abbiamo già accennato al rinnovamento degli impianti di riscaldamento nei quartieri periferici di Pechino, a costo praticamente zero per la popolazione locale. A Dayanfang, lunghi tubi d’argento sopraelevati percorrono i vicoli del quartiere e poi entrano nelle case, dove si allacciano a termosifoni nuovi di zecca.

Il signor Ling Bo ha la casa completamente sottosopra per via dei lavori, ma è comunque soddisfatto. “Nel 2004, il governo municipale aveva chiuso la centrale termica a carbone e da allora ognuno si era arrangiato a modo suo”, mi ha spiegato. Qualcuno magari si è costruito impianti casalinghi altrettanto inquinanti se non di più. “Il fatto è che la gente non aveva molta voglia di passare a nuovi impianti elettrici, perché costavano troppo. Per adottare sistemi più puliti, voleva degli incentivi del governo”. Adesso che li hanno ottenuti tutti sono soddisfatti ed è stato dato un impulso più vigoroso alla riconversione verde degli impianti.

Nelle parole del signor Ling ci sono già tutti i termini della questione. Nella sua lotta al riscaldamento climatico e all’inquinamento, il governo cinese deve sempre tenere presenti tre fattori – ambiente, salute, economia – sintetizzabili in uno: la politica. Dalla capacità di tenere insieme benessere fisico, economico e qualità della vita, dipende infatti il consenso al Partito comunista.

Per esempio, la politica degli incentivi per cambiare il riscaldamento domestico rivela come l’eliminazione del carbone sia diventata una questione di priorità; ma forse è anche una misura di eguaglianza, perché consente anche alle zone più povere di riconvertire gli impianti in modo che i loro abitanti non respirino polvere di carbone semplicemente perché possono permettersi solo quello.

Cintura inquinante
Pechino combatte l’inquinamento fin dalle Olimpiadi del 2008. Le piccole centrali a carbone all’interno della città sono state da tempo spedite fuori e la maggior parte della città adesso è coal free.

Ma l’inquinamento arriva dai distretti industriali che stanno anche a parecchie centinaia di chilometri di distanza: in Shanxi, Hebei, Shandong. Pechino è circondata dalla più grande cintura industriale e inquinante al mondo, un semicerchio di 500 chilometri. In quell’area si brucia più carbone che in tutti gli Stati Uniti. Così a Pechino le giornate sono buone quando c’è quel bel vento gelido che tira da nordovest, dalla Mongolia; e giorni pessimi quando tira in senso contrario.

Lauri Myllyvirta, da buon finlandese, ama quel vento gelido. Lui è il responsabile della campagna di Greenpeace China contro il carbone.

Mi ha spiegato che negli ultimi anni il modo di consumare energia dei cinesi è completamente cambiato proprio per politiche che tengono conto di quel mix di fattori: misure per affrontare l’inquinamento e ridurre quindi i costi umani e sanitari; la promozione dell’industria domestica delle energie rinnovabili; e, infine, le politiche per modernizzare il settore dei trasporti, come l’alta velocità. “Aggiungiamoci che la crescita si è stabilizzata dopo trent’anni di boom a doppia cifra”, quindi c’è bisogno di meno benzina (carbone) nel motore.

È dal 2013 che il consumo di carbone ha cominciato a calare in Cina

In pratica, la Cina appare la neoavanguardia delle politiche ambientali sia perché dall’altra parte del Pacifico c’è un presidente “del tutto inutile nella lotta contro il cambiamento climatico” – parole di Lauri – sia perché la riconversione della sua economia arriva da lontano.

È dal 2013 che il consumo di carbone ha cominciato a calare in Cina. In quell’anno, è stato lanciato un piano quinquennale che ha prodotto una riduzione dell’inquinamento del 20-30 per cento in un’area – quella del nordest – dove vivono circa 500 milioni di persone. Tuttavia, si continuano a costruire centrali elettriche che funzionano a carbone.

All’origine del paradosso, c’è il fatto che sono in ultimazione progetti di impianti ereditati dall’epoca fossile, quando il consumo energetico cresceva velocemente. Oggi si assiste dunque all’assurdità per cui le nuove centrali sono utilizzate a potenza ridotta. Nel 2015, per la prima volta, in Cina c’erano più impianti a carbone inattivi che funzionanti, ma nell’ultimo anno e mezzo i governi locali hanno fatto ricorso alla vecchia ricetta del cemento e del mattone per aumentare il pil. Cercano di drogare la crescita a breve termine con le costruzioni non solo di centrali a carbone, ma di case che poi restano vuote, stadi nel nulla, aeroporti da un decollo e un atterraggio al giorno.

Ma le centrali a carbone offrono un vantaggio ulteriore – continua Myllyvirta – perché consentono a un governo locale di procacciarsi fette di mercato energetico interno. “La Cina non ha un mercato dell’energia competitivo. Tutti gli impianti operano più o meno per lo stesso numero di ore e alla stessa potenza. Per cui, se costruisci più centrali, produci più energia anche se l’impianto non lavora al massimo della capacità”.

In questo tira e molla tra governo centrale e governi locali, in cui ragioni ambientali, economiche e di salute pubblica si mescolano, gioca un suo ruolo anche la campagna anticorruzione in corso ormai da anni.

Il governo manda team di ispettori ambientali negli impianti industriali e nelle centrali energetiche. Il primo giro di ispezioni, qualche anno fa, rivelò violazioni delle norme ambientali in circa l’80 per cento dei casi. Di che stupirsi, dato che gli uffici locali di prevenzione ambientale dipendevano dai governi provinciali. Quest’anno è stato lanciato un nuovo giro di ispezioni ed è stato chiarito che i funzionari locali sono ritenuti direttamente responsabili dell’applicazione delle norme. Si attendono i risultati.

Il problema è che le industrie più inquinanti sono proprio le grandi imprese statali: acciaio, cemento, petrolchimica. È pensabile che in futuro saranno sempre più subordinate alle leggi di mercato, per cui dovranno fare i conti con i costi e rinunciare al proprio sovradimensionamento strutturale.

Ma per ora si tratta di conglomerati protetti, quindi non molto sensibili agli incentivi economici. Almeno nel breve periodo, le politiche più incisive sul piano ambientale sembrano perciò le misure amministrative calate dall’alto, che dettano obiettivi ben definiti al livello locale. E usano il bastone più della carota.

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