“Nel settembre del 2017 le telefonate di mia madre si sono improvvisamente interrotte. Ci sono voluti più di venti giorni di silenzio, in un crescendo d’angoscia, prima di riuscire a parlare con mio fratello maggiore. Da lui ho saputo che la polizia del villaggio era arrivata a casa e aveva portato via mia madre per metterla in una di quelle scuole o centri di rieducazione di cui si parla molto. Da allora non ho più comunicato con lei”.
La testimonianza di Gulbahar (il nome è fittizio), una donna uigura che ho incontrato in Italia, è storia comune in Xinjiang, dove si presume che circa un milione di musulmani siano stati rinchiusi in centri di rieducazione, “scuole di formazione professionale” secondo la versione delle autorità cinesi. Seguire il suo percorso di giovane uigura istruita, che prima cavalca la tigre cinese e poi ne rimane disarcionata, ci mostra nel concreto come sia cambiato nel tempo l’atteggiamento della Cina verso la sua regione più occidentale e turbolenta.
Gulbahar nasce in una famiglia contadina dello Xinjiang. Suo padre, che ha studiato in una scuola cinese, ha più amici han – l’etnia maggioritaria cinese – che uiguri. Da bambina gioca con i figli degli amici di suo padre e cresce insieme a loro. “In occasione delle festività musulmane, gli amici di mio padre venivano a trovarci e festeggiavamo insieme”, racconta oggi. “Quando c’era il capodanno cinese, mia madre preparava tanti piatti e ricambiavamo la visita per festeggiare con loro”.
Quando Gulbahar ha 13 anni, a suo padre viene diagnosticata una forma di diabete che lo rende invalido, quindi lei e la madre si danno da fare per sostenere la famiglia. Si sveglia ogni giorno alle tre di mattina e va a fare le pulizie in un garage, poi torna a casa, prepara da mangiare e quindi va a scuola. Va avanti così per tutto il periodo delle medie e delle superiori, puntando a un obiettivo: andare all’università.
All’università Gulbahar conosce dei coetanei stranieri e comincia a pensare di andare a studiare all’estero
Quando si avvicina il gaokao, l’esame di ammissione all’università, il padre di Gulbahar perde conoscenza per due giorni e lei pensa di lasciar perdere, ma lui si riprende giusto in tempo. “Devi andare all’università. Non abbiamo abbastanza soldi ma piuttosto mi metto a donare il sangue”, le dice. E la figlia stringe i denti: “Quando ho ricevuto la lettera d’ammissione da una delle migliori università cinesi, la gente del villaggio è rimasta sorpresa”, racconta. “Mi hanno aiutata, qualcuno anche solo con cinque renminbi, venivano a casa nostra e ci davano i soldi. Un amico di mio padre, che lavorava come autista, mi ha dato mille renminbi. Ero l’unica persona del villaggio che fosse riuscita ad andare all’università fuori dallo Xinjiang”.
Poi, grazie agli incentivi allo studio riservati ai giovani delle minoranze, ottiene una borsa di studio da cinquemila renminbi (un po’ meno di 700 euro) dal governo locale.
All’università Gulbahar conosce dei coetanei stranieri e comincia a pensare di andare a studiare all’estero: poco importa dove, l’importante è conoscere un po’ il mondo fuori dalla Cina. Dopo la laurea triennale viene accettata in un’università italiana, ma lei non ha più un soldo. “Ho saputo che c’era la possibilità di ottenere una borsa di studio italiana sulla base del reddito, ma avevo bisogno di un certificato timbrato dal governo cinese”. È a quel punto che si scontra per la prima volta con la burocrazia cinese, e con la discriminazione. La donna racconta che la funzionaria a cui porta i documenti si rifiuta di timbrarglieli: “Perché vuoi andare all’estero se non hai soldi?”.
È il 2013 e il 28 ottobre di quell’anno un’auto con a bordo una famiglia uigura va a schiantarsi sotto il ritratto di Mao in piazza Tiananmen, a Pechino, il primo di una serie di attentati che trasformano lo Xinjiang in un’emergenza securitaria. A quell’epoca, il padre di Gulbahar è già morto. Ma sua madre, che adesso vive da sola, è sempre in contatto con gli amici han del marito e uno di questi ha i contatti giusti, il famoso guanxi che apre molte porte in Cina. Alla fine la ragazza ottiene i documenti necessari a ottenere la borsa di studio. E va in Italia.
In Cina tutti hanno Weixin – da noi conosciuto come WeChat – la app di messaggistica che non solo ha ormai sostituito sia l’sms sia il tradizionale biglietto da visita, ma che è diventata una piattaforma multiservizi che spazia dall’intrattenimento all’ecommerce. È proprio attraverso WeChat che madre e figlia comunicano. Fino al settembre 2017.
Voci da lontano
A questo punto introduciamo un altro personaggio. È Rishat (nome fittizio), un altro studente uiguro. È già in Italia da qualche anno, anche lui proviene da una famiglia di contadini poveri dello Xinjiang, ma grazie a una volontà ferrea è riuscito a farsi strada nel percorso scolastico, a colpi di borse di studio, e infine a espatriare. L’ha fatto qualche anno prima di Gulbahar, quando ottenere il passaporto era un po’ più facile. I due giovani si conoscono in Italia. Oggi sono marito e moglie.
Anche i rapporti tra Rishat e la sua famiglia si sono rarefatti; anche lui usa WeChat, non tanto per comunicare con i fratelli, ma per controllare i loro account sulla app: “Se vedo che ogni tanto cambiano l’immagine del profilo o aggiungono foto, allora sto tranquillo perché significa che stanno bene”, spiega.
Riflette spesso sulle “scuole professionali” di cui parla il governo cinese e in cui è finita la suocera. “Avevo letto un articolo su WeChat che diceva: ‘Abbiamo scuole gratuite, se qualcuno ha problemi può andare lì, avere cibo e alloggio gratis, tornare a casa come una persona normale’. Mi sembrava non ci fosse nulla di male finché non ci sono finiti mio cugino e mia suocera. Lo scorso ottobre i mezzi d’informazione cinesi hanno trasmesso alcuni video in cui si parlava del grande successo dei centri di rieducazione: ‘Non abbiamo attacchi terroristici da più di venti mesi grazie a queste scuole professionali’, e mostravano studenti felici. Ma ho pensato che mia suocera ha 55 anni, d’accordo che non si smette mai di imparare, però che ‘formazione’ le possono dare? So che tempo fa ha potuto comunicare con sua madre, le ha detto di aver finito il primo anno di lingua cinese e che stava per cominciare un corso per imparare a fare il pane”.
Un recente articolo del South China Morning Post mette l’accento su un aspetto poco indagato dei campi in Xinjiang, perché in genere quando se ne parla si mette l’accento sul “genocidio culturale” ai danni della minoranza uigura, sulla repressione religiosa, sui diritti umani violati. Ma questi centri servono anche a creare forza lavoro a basso costo, riprodurre cioè il vantaggio competitivo su cui si è costruito il boom cinese.
Certo, nel caso della cosiddetta “riqualificazione professionale” in Xinjiang, i numeri di questi lavoratori low cost “formati” nei campi sono troppo limitati per soddisfare la richiesta di molte imprese, però il confine tra integrazione attraverso il lavoro – l’obiettivo dichiarato dalle autorità – e sfruttamento è molto labile.
“Ricordo mia madre con i capelli neri, ma ho saputo che adesso li ha tutti bianchi”, dice Gulbahar. “Mi chiedo sempre perché sia successo, è solo una contadina, sono sicura che non abbia la più pallida idea di cosa sia il terrorismo. Non so perché sia in quel centro. Ci penso giorno e notte, ma non trovo spiegazioni”.
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