Quando era bambino il leader dei Mogwai Stuart Braithwaite invitava gli amici per guardare le stelle nel giardino di casa sua, nella campagna nel sud della Scozia. Aveva ereditato quella passione da suo padre, che di lavoro costruiva telescopi e aveva lo sguardo costantemente rivolto verso il cielo. Poi è arrivato l’amore per i dischi volanti e la fantascienza, e infine la musica. Un giorno per caso ha ascoltato Starman di David Bowie. “C’era qualcosa in quella canzone che mi entusiasmava. La maestosità della musica era superiore a qualsiasi cosa avessi sentito prima, la voce era seducente, la melodia così perfetta”, ha ricordato nella sua autobiografia intitolata Spaceships over Glasgow.
Anche in età adulta Braithwaite ha continuato a essere affascinato dal cielo. Il primo disco dei Mogwai, intitolato Mogwai young team, si apriva con una voce femminile che diceva: “Se qualcuno mi avesse detto che i Mogwai sono le stelle, non avrei avuto niente da ridire. Se le stelle avessero un suono, sarebbe questo”.
Nel frattempo sono passati trent’anni. I Mogwai, da band alternativa del rock di fine anni novanta, sono diventati un’istituzione del rock, capaci nel 2021 di portare il disco As the love continues in testa alla classifica britannica. I loro brani, però, suonano ancora come navi spaziali in collisione, come succede in God gets you back, il pezzo che apre il nuovo album The bad fire con una melodia circolare di sintetizzatore che apre la strada al crescendo di batteria, chitarre e basso, mentre la voce sussurrata di Braithwaite canta: “Count the roads / Dallas eyes / don’t breathe rare air”, conta le strade / gli occhi di Dallas / non respirare aria rarefatta.
Quando gli chiedo il significato del testo, Braithwaite, in collegamento su Zoom dalla sua casa di Glasgow con un cappello di lana rosso in testa, risponde: “Se vuoi saperne di più devi parlarne con una bambina di dieci anni, la figlia di Barry Burns, il nostro chitarrista e polistrumentista. Un giorno, mentre lui le faceva ascoltare il giro di accordi del brano, lei se n’è uscita dal nulla con il verso ‘Dallas eyes’. Per scrivere il testo siamo partiti da lì. Sfruttiamo il lavoro minorile”, scherza il musicista, che come al solito non si prende troppo sul serio. “In generale sono molto contento di questo brano. Ma anche se l’ho scritto, non so dirti molto altro sul suo significato, ci piace farci guidare il più possibile dall’istinto quando componiamo e registriamo. Se esce fuori qualche suono sbagliato da un punto di vista tecnico, spesso preferiamo tenerlo che rifarlo giusto, perché magari può colpire di più l’ascoltatore”.
The bad fire è stato registrato nel Lanarkshire con il produttore John Congleton, che si è unito alla band in studio. L’espressione “bad fire” nello slang scozzese indica l’inferno, e il titolo del disco prende ispirazione da una serie di momenti personali difficili in cui la band si è trovata negli ultimi anni. Il gruppo ha perso alcuni amici e la figlia di Barry Burns ha avuto una grave malattia, dalla quale per fortuna è guarita. Qual è per Braithwaite il rapporto tra musica e lutto? Le canzoni possono aiutare le persone a superare questi momenti difficili?
“In Scozia le persone non parlano molto delle loro emozioni. Forse per noi la musica è un modo per esprimerle. Il lutto è una cosa molto difficile, e le canzoni aiutano a elaborarlo. In passato alcuni artisti mi hanno aiutato a superare momenti difficili: Leonard Cohen, Grouper, gli album ambient di Brian Eno e altri. Molti dei nostri dischi fanno la stessa cosa per chi ci ascolta, o perlomeno lo spero”, dice il musicista aggiustandosi il cappello.
I Mogwai spesso danno titoli ironici, per non dire cinici, ai loro pezzi: in The hawk is howling del 2008 c’era una canzone intitolata I’m Jim Morrison, I’m dead. In The bad fire invece ce n’è uno chiamato Pale vegan hip pain, dolore all’anca vegana pallida. Perché? “Semplice. Mia moglie ha un dolore all’anca ed è andata dal dottore. E su un foglio lui ha scritto solo dolore all’anca vegana pallida, che mi è sembrata una descrizione divertente di mia moglie. A proposito di lutto e cinismo, uno dei brani migliori, una cavalcata satura di wah wah che ricorda gli esordi del gruppo, s’intitola If you find this world bad, you should see some of the others, se questo mondo ti sembra brutto, dovresti vederne qualcun altro. Visto il momento storico in cui siamo, è un dubbio che sarà venuto a molti. Tra gli altri pezzi degni di nota c’è quello di chiusura, Fact boy, dove alle chitarre si aggiunge un violino e aleggia lo spirito di Jason Pierce, leader degli Spiritualized. “Jason è uno dei miei autori di canzoni preferiti, sono cresciuto con la musica degli Spacemen 3 e degli Spiritualized, quindi per me questo è un complimento”, commenta Braithwaite.
I Mogwai, come detto, hanno trent’anni di carriera alle spalle. E oltre agli album in studio, in questi anni si sono cimentati con diverse colonne sonore: dal documentario sportivo sperimentale Zidane: a 21st century portrait a quella della serie tv francese Les revenants (forse il loro lavoro migliore per lo schermo). Eppure, nonostante questo, la band non sembra aver cambiato attitudine né metodo di lavoro. “Ci piace fare colonne sonore. Ne stiamo completando una per una serie drammatica ambientata negli anni ottanta, ma non posso dire di cosa si tratta. Comunque per noi fare le musiche per un regista o fare un nostro album non è diverso, l’approccio è lo stesso. Sono passati trent’anni ma per noi non è cambiato niente, a parte il fatto che siamo più vecchi. Ci divertiamo ancora a stare insieme e a suonare, a fare rumore. L’unica cosa che è cambiata è che abbiamo più soldi e in studio abbiamo un’attrezzatura più grande. Ma non è neanche detto che questo sia un vantaggio. Per fare il disco ho portato con me dodici chitarre, ma alla fine ne ho usate solo due”.
Va bene l’attitudine da eterni ragazzi, ma possibile che il successo di As the love continues non abbia fatto sentire il gruppo un po’ sotto pressione quando ha registrato The bad fire? “Assolutamente no, il fatto che il disco precedente sia andato bene non mi fa sentire teso, anzi è un sollievo. È bello che tante persone si appassionino a quello che fai. Noi non facciamo dischi per vincere dei trofei, non è uno sport. Quello è stato solo un caso fortunato, se non si ripeterà non c’è problema”.
Nella sua autobiografia Braithwaite racconta con molti dettagli i suoi primi amori musicali, e ricorda i suoi primi concerti, in particolare quello dei Cure a Glasgow nel 1989, che per lui è stata un’epifania. È ancora così per lui? “Certo, e ora ho la fortuna di avere tanti biglietti gratis. Nell’ultimo tour dei Cure, quello del 2022, ho visto quindici concerti. Ormai mi sorprende che non abbiano emesso un ordine restrittivo nei miei confronti. Di recente sono andato in Irlanda a vedere i Codeine. Un paio d’anni fa sono stato in California con mia moglie a vedere Lana Del Rey. Insomma, sono ancora un fan della musica degli altri”, ribatte.
In Spaceships over Glasgow viene fuori anche che l’artista scozzese è sempre stato un attento lettore delle riviste musicali, quelle che un tempo nel Regno Unito erano Nme e Melody Maker, che oggi hanno chiuso (a Nme è rimasto solo il sito). Com’è cambiato secondo lui il panorama del giornalismo musicale? “Si è modificato in peggio, sicuramente. Meno critica c’è, meno pressione per fare buona musica c’è, meno i gruppi pubblicano cose interessanti. Le persone in realtà hanno ancora voglia di leggere recensioni e interviste, ma le leggono sui social network. La monetizzazione di questi contenuti è tutta nelle mani di queste aziende, non ai giornali, perché ormai viviamo in un mondo sempre più piegato al capitalismo. E questo è un peccato. Non voglio fare il vecchio brontolone, perché oggi ci sono molte cose positive nel mondo della musica, ma negli anni novanta la ricerca di un disco nei negozi e nei mercatini era parte stessa dell’ascolto, dava un sapore romantico all’intera esperienza. Oggi è una playlist creata da un robot a dare agli artisti l’esposizione che un tempo arrivava da una recensione su un giornale specializzato”.
I Mogwai suoneranno al Locus Festival il 12 agosto. Sono previste altre date in Italia? “In estate no, ma dovremmo tornare per una serie di concerti in autunno, stiamo aspettando la conferma”, mi dice Braithwaite prima che scada la mezz’ora a disposizione per l’intervista. Sono le undici del mattino, ci salutiamo. Più tardi, quando scende la sera, mentre riascolto The bad fire, mi viene la tentazione di alzare gli occhi verso il cielo.
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