Questo articolo è stato pubblicato il 12 gennaio 2018 nel numero 1238 di Internazionale.
Se consideriamo la parola “saggio” nel senso di “prova” – di qualcosa di azzardato, non definitivo, non autorevole, un tentativo fatto sulla base dell’esperienza personale e della soggettività dell’autore – si potrebbe dire che viviamo nell’età d’oro della saggistica. A quale festa sei andato venerdì sera, come ti ha trattato l’assistente di volo, qual è la tua opinione sullo scandalo politico del giorno: l’assunto su cui si basano i social network è che anche la più piccola micronarrazione soggettiva merita non solo un’annotazione privata, diaristica, ma una condivisione con altre persone. L’attuale presidente degli Stati Uniti agisce sulla base di questo assunto. Sui mezzi d’informazione come il New York Times il resoconto rigoroso dei fatti di attualità si è ammorbidito per permettere all’io, con la sua voce, le sue opinioni e le sue impressioni di mettersi sotto i riflettori della prima pagina, e i recensori si sentono sempre meno obbligati a discutere di libri con un minimo di obiettività. Una volta non importava se Raskol-nikov fosse un personaggio piacevole, ma oggi la questione della “piacevolezza”, che privilegia implicitamente i sentimenti personali del revisore, è diventata un elemento chiave del giudizio critico. Anche la narrativa letteraria somiglia sempre più alla saggistica.
Alcuni dei romanzi più influenti degli ultimi anni, come quelli di Rachel Cusk e Karl Ove Knausgård, portano a un nuovo livello il metodo della testimonianza autoreferenziale in prima persona. I loro ammiratori più accaniti vi diranno che immaginazione e invenzione sono espedienti superati; che abitare la soggettività di un personaggio diverso dall’autore è un atto di appropriazione, addirittura di colonialismo; che l’unica modalità di narrazione autentica e politicamente difendibile è l’autobiografia.
Nel frattempo il saggio personale – l’apparato formale di sincera introspezione e intenso confronto con le idee sviluppato da Montaigne e perfezionato da Ralph Waldo Emerson, Virginia Woolf e James Bald-win – si sta eclissando. La maggior parte delle riviste statunitensi a grande circolazione ha quasi completamente smesso di pubblicare saggistica pura. La forma persiste soprattutto in pubblicazioni minori, che anche considerate tutte insieme hanno meno lettori dei follower di Margaret Atwood su Twitter. Dobbiamo piangere l’estinzione del saggio? O dobbiamo festeggiare il fatto che ha conquistato la cultura di massa?
Le lezioni di un editor
Una micronarrazione personale e soggettiva: le poche lezioni che ho imparato sulla scrittura di saggi sono venute dal mio editor al New Yorker, Henry Finder. Andai da Henry per la prima volta nel 1994, come aspirante giornalista con urgente bisogno di soldi. Più che altro per un colpo di fortuna, scrissi un articolo pubblicabile sul servizio postale degli Stati Uniti, e poi, per naturale incompetenza, ne scrissi uno impubblicabile sul Sierra Club. A quel punto Henry suggerì che potessi avere una certa predisposizione alla saggistica. Sentii che in realtà stava dicendo: “Evidentemente come giornalista fai schifo”, e negai di avere quella predisposizione.
La mia educazione del Mid-west m’impediva di dilungarmi troppo su me stesso, e avevo un ulteriore pregiudizio, derivato da certe idee sbagliate sulla scrittura di romanzi, contro l’enunciazione di cose che sarebbe stato più proficuo descrivere. Però avevo ancora bisogno di soldi, così continuai a telefonare a Henry per farmi assegnare recensioni di libri. Durante una di quelle telefonate mi chiese se mi interessava l’industria del tabacco, su cui Richard Kluger aveva appena scritto un importante saggio storico. Dissi in fretta: “Le sigarette sono l’ultima cosa al mondo a cui voglio pensare”. E Henry replicò, ancora più in fretta: “Pertanto devi scrivere un pezzo sulle sigarette”.
Quella fu la prima lezione che ricevetti da Henry, e rimane la più importante. Dopo aver fumato per tutti i miei vent’anni, intorno ai trenta ero riuscito a smettere per due anni. Ma quando mi era stato assegnato il pezzo sull’ufficio postale, terrorizzato all’idea di alzare la cornetta e presentarmi come un giornalista del New Yorker, ero ricaduto nel vizio. Negli anni successivi ero riuscito a considerarmi un non fumatore, o almeno una persona così fermamente decisa a smettere di nuovo che avrei potuto già essere un non fumatore anche se continuavo a fumare. Il mio stato mentale era come una funzione d’onda quantistica in cui potevo essere un vero fumatore ma anche un vero non fumatore, a patto che non mi confrontassi mai con me stesso. E subito mi fu chiaro che scrivere un saggio sulle sigarette mi avrebbe costretto a sostenere quel confronto. I saggi sono così.
C’era anche il problema di mia madre, che aveva perso suo padre per un cancro ai polmoni ed era fortemente contraria al tabacco. Le avevo nascosto il mio vizio per più di quindici anni. Un motivo per cui avevo bisogno di mantenere la mia indeterminatezza di fumatore/non fumatore era che non mi piaceva mentirle. Non appena fossi riuscito a smettere di nuovo, definitivamente, la funzione d’onda sarebbe collassata e io sarei stato al cento per cento il non fumatore che mi ero sempre considerato. Però solo se prima non mi fossi dichiarato, a mezzo stampa, un fumatore.
Henry era un ragazzo prodigio di una ventina d’anni quando Tina Brown lo aveva assunto al New Yorker. Aveva un caratteristico modo di parlare con il petto contratto, una specie di mormorio iperarticolato, una prosa estremamente ben curata ma a malapena leggibile. Ero intimorito dalla sua intelligenza ed erudizione, e presto ero arrivato a vivere nella paura di deluderlo. L’appassionata enfasi che aveva messo in “pertanto devi scrivere un pezzo sulle sigarette” – non conoscevo nessun altro che potesse permettersi quel veemente “pertanto” iniziale insieme all’imperativo “devi” nella stessa frase – mi consentiva di sperare che gli fossi rimasto almeno un pochino impresso.
E così mi misi al lavoro sul saggio, consumando ogni giorno mezza dozzina di sigarette a basso contenuto di nicotina davanti a un ventilatore piazzato sulla finestra del soggiorno, e consegnai a Henry l’unico pezzo, tra tutti quelli che avrei scritto per lui, che non ebbe bisogno della sua revisione. Non ricordo come mia madre riuscì a mettere le mani sul saggio né come m’informò di essersi sentita tradita, se per lettera o con una telefonata, ma ricordo che poi interruppe le comunicazioni per sei settimane, in assoluto il periodo di silenzio più lungo tra di noi. Ma quando le passò e ricominciò a scrivermi, mi sentii visto da lei, visto per quel che ero, come non mi ero mai sentito prima. Non era solo il fatto che le avevo nascosto il mio io “reale”. Era come se non ci fosse stato nessun io da vedere.
Kierkegaard, in Aut-aut, si prende gioco dell’“uomo indaffarato” per il quale darsi da fare è un modo per evitare un giudizio sincero su di sé. Magari ti svegli di notte e t’accorgi che ti senti solo nel tuo matrimonio, o che devi pensare a ciò che i tuoi consumi stanno facendo al pianeta, ma il giorno dopo hai un milione di piccole cose da fare, e il giorno dopo un altro milione. Finché sarai impegnato con le piccole cose, non dovrai fermarti ad affrontare le questioni più grandi. Scrivere o leggere un saggio non è l’unico metodo per fermarti a riflettere su chi sei davvero e sul significato della tua vita, però è un buon metodo. E se consideri quanto ridicolmente poco indaffarata fosse la Copenaghen di Kierkegaard in confronto alla nostra epoca, ti accorgerai che quei tweet soggettivi e quei frettolosi post sui blog non hanno molto di saggistico. Sembrano più che altro un mezzo per evitare ciò che un vero saggio potrebbe imporci di vedere. Passiamo le giornate a leggere su uno schermo roba che non ci degneremmo mai di leggere su un libro stampato, e a lagnarci di quanto siamo indaffarati.
Quando sono solo nei boschi vengo sommerso da moltissimi dati sensoriali. L’atto di scrivere sottrae quasi tutto
Smisi di fumare per la seconda volta nel 1997. E poi, nel 2002, per l’ultima volta. E poi, nel 2003, per l’ultimissima volta, se non si conta la nicotina senza fumo che mi scorre nel sangue mentre scrivo queste pagine. Lo sforzo di scrivere un saggio non altera la molteplicità dei miei io: rimango contemporaneamente il possessore di un cervello rettiliano incline alla dipendenza, una persona ansiosa per la propria salute, un eterno adolescente, un depresso che cerca di curarsi da sé. Ciò che cambia, se mi prendo la briga di fermarmi a valutarlo, è che la mia molteplice identità acquista sostanza.
Uno dei misteri della letteratura è che la sostanza personale viene percepita dallo scrittore e dal lettore come se fosse fuori dal loro corpo, su una pagina. Come posso sentirmi più reale in una cosa che sto scrivendo di quanto mi senta nel mio corpo? Come posso sentirmi più vicino a un’altra persona quando leggo le sue parole che quando sono seduto accanto a lei? La risposta, in parte, è che scrivere e leggere richiedono la nostra piena attenzione. Ma sicuramente c’entra anche il genere di ordine che è possibile solo sulla pagina.
A questo punto potrei citare altre due lezioni che ho imparato da Henry Finder. Una era: “Ogni saggio, anche un pezzo d’opinione, racconta una storia”. E l’altra era: “Ci sono solo due modi di organizzare il materiale: ‘il simile va con il simile’ e ‘questo è venuto dopo quello’”. Questi precetti possono sembrare ovvi, ma chiunque abbia corretto una tesina delle superiori o del college può dirvi che non lo sono. Per me non era affatto evidente che un’opinione dovesse seguire le regole della scrittura drammatica. E tuttavia un buon ragionamento non comincia forse presentando un problema difficile? E non prosegue suggerendo una via d’uscita attraverso qualche proposta coraggiosa, sollevando ostacoli sotto forma di obiezioni e controargomentazioni, e infine, dopo una serie di ribaltamenti, portandoci a una conclusione imprevista ma soddisfacente?
Se accettate la premessa di Henry che un brano di prosa riuscito consiste di materiali organizzati sotto forma di storia, e se condividete la mia convinzione che le nostre identità consistono delle storie che raccontiamo su noi stessi, ne consegue che il lavoro di scrivere e il piacere di leggere dovrebbero procurarci una forte dose di sostanza personale. Quando sono solo nei boschi o sto cenando con un amico vengo sommerso da moltissimi dati sensoriali casuali provenienti da ogni parte. L’atto di scrivere sottrae quasi tutto, lasciando solo l’alfabeto e la punteggiatura, e procede verso la non casualità. A volte, dando un ordine agli elementi di una storia nota, scopri che il suo significato non è quello che credevi. A volte, soprattutto se si parte da un assunto (“A questo segue quello”), è richiesta una narrazione completamente nuova. La disciplina della creazione di una storia coinvolgente può cristallizzare pensieri e sentimenti che sapevi solo vagamente di avere.
Se avete davanti una massa di materiale che non sembra adatta alla narrazione, Henry direbbe che la vostra unica alternativa è suddividerla in categorie, raggruppando insieme gli elementi affini: il simile va con il simile. Questo è, come minimo, un modo di scrivere ordinato. Ma anche gli schemi possono trasformarsi in storie. Per capire la vittoria di Donald Trump in un’elezione che sembrava destinato a perdere, verrebbe da costruire una storia del tipo “questo è venuto dopo quello”: Hillary Clinton è stata imprudente con le sue email, il ministero della giustizia ha deciso di non procedere nei suoi confronti, poi sono venute alla luce le email di Clinton nel computer dell’ex deputato Anthony Weiner, poi il direttore dell’Fbi James Comey ha riferito al congresso che forse Clinton era ancora nei guai, e poi Trump ha vinto le elezioni. Ma in realtà potrebbe essere più utile raggruppare il simile con il simile: la vittoria di Trump è stata simile al voto sulla Brexit e al rinascente nazionalismo xenofobo in Europa. L’imperiosa negligenza con cui Clinton ha gestito le sue email è stata simile alla pessima comunicazione della sua campagna elettorale e alla sua decisione di fare pochi comizi in Michigan e Pennsylvania.
Ossessioni
Il giorno delle elezioni ero in Ghana a fare bird-watching con mio fratello e due amici. La relazione di James Comey al congresso aveva scombussolato la campagna elettorale prima che partissi per l’Africa, ma l’autorevole sito di sondaggi di Nate Silver, Fivethirty-eight, assegnava ancora solo il 30 per cento di probabilità di vittoria a Trump. Dopo aver votato in anticipo per Clinton, ero arrivato ad Accra sentendomi solo moderatamente in ansia per le elezioni e congratulandomi con me stesso per la mia decisione di trascorrere l’ultima settimana della campagna elettorale senza controllare il sito di Nate Silver dieci volte al giorno.
In Ghana stavo assecondando un altro tipo di ossessione. Nel mondo degli appassionati di birdwatching io sono, con mia vergogna, quello che si definisce un lister, cioè un elencatore. Non è che io non ami gli uccelli in quanto tali. Faccio birdwatching per godere della loro bellezza e diversità, per imparare di più sul loro comportamento e sugli ecosistemi a cui appartengono, e per fare lunghe, vigili passeggiate in posti nuovi. Ma compilo anche troppi elenchi. Non solo conto le specie di uccelli che ho visto nel mondo, ma anche quelle che ho visto in ogni paese e in ogni stato nordamericano, oltre che in altri luoghi più piccoli, compreso il mio giardino, e in ogni anno a partire dal 2003. Posso razionalizzare i miei conteggi compulsivi come un giochino supplementare nel contesto della mia passione. Però sono davvero compulsivo. Questo mi rende moralmente inferiore a chi osserva gli uccelli esclusivamente per la gioia di farlo.
Il fatto è che andando in Ghana mi ero dato la possibilità di battere il mio precedente record annuale di 1.286 specie. Nel 2016 avevo già superato le 800 e sapevo, grazie alle mie ricerche online, che viaggi simili al nostro avevano prodotto quasi 500 specie, poche delle quali comuni anche in America. Se in Africa avessi visto 460 specie diverse, e poi avessi sfruttato le sette ore di scalo a Londra per individuare venti facili uccelli europei in un parco vicino a Heathrow, il 2016 sarebbe diventato il mio anno migliore in assoluto.
In Ghana stavamo vedendo cose fantastiche, turachi e meropidi spettacolari che si trovano solo in Africa occidentale. Ma le poche foreste rimaste nel paese sono sfruttate intensamente per la caccia e il legname, e le nostre passeggiate erano più torride che produttive. Al termine della giornata elettorale avevamo ormai mancato la nostra unica occasione di vedere alcune delle mie specie obiettivo. All’alba del mattino dopo, quando le urne erano ancora aperte sulla costa occidentale degli Stati Uniti, accesi il telefono per ottenere la conferma che Clinton stava vincendo le elezioni. Invece trovai messaggi affranti dei miei amici californiani, con le foto delle loro facce cupe davanti alla tv e della mia ragazza rannicchiata sul divano in posizione fetale. In quel momento il titolo del New York Times era: “Trump conquista il North Carolina e acquista velocità; diminui-scono le possibilità di vittoria di Clinton”.
Non mi restava che andare in cerca di uccelli. Lungo una strada nella foresta di Nsuta, mentre schivavo camion di legname la cui velocità mi faceva pensare a Trump anche se rimanevo aggrappato all’idea che Clinton avesse ancora una possibilità di vittoria, vidi buceri nani neri, un baza africano e un picchio malinconico. Fu un mattino sudato ma soddisfacente che terminò, quando riemergemmo nella zona coperta dalla rete telefonica, con la notizia che il “cafone dalle dita corte” (il memorabile epiteto che gli aveva dato il sito Spy) era il nuovo presidente del mio paese. In quel momento mi resi conto di cosa aveva fatto la mia mente con la probabilità del 30 per cento assegnata da Nate Silver a Trump: per qualche motivo avevo immaginato che volesse dire, nel peggiore dei casi, che dopo le elezioni il mondo poteva diventare del 30 per cento più schifoso.
In realtà ciò che quel numero rappresentava, naturalmente, era un 30 per cento di probabilità che il mondo diventasse più schifoso del cento per cento.
Mentre risalivamo verso il nord del Ghana, più secco e meno popolato, incrociammo alcuni uccelli che da tempo sognavo di vedere: guardiani dei coccodrilli, gruccioni carminio e un maschio di succiacapre vessillario, al quale i lunghissimi ciuffi sulle ali davano l’aspetto di un caprimulgo incalzato da due pipistrelli. Ma continuavamo a perdere terreno rispetto al ritmo di avvistamento annuo che dovevo mantenere. Mi venne in mente che gli elenchi che avevo visto online per quella zona comprendevano anche specie sentite ma non viste, mentre io per poter contare un uccello dovevo vederlo. Quegli elenchi avevano alimentato le mie speranze proprio come aveva fatto Nate Silver.
Adesso ogni specie obiettivo che mancavo mi rendeva ancora più ansioso di vederle tutte, anche quelle più improbabili, pur di battere il mio record. Era solo uno stupido elenco annuale, fondamentalmente insignificante anche per me, ma ero ossessionato dal titolo del mattino dopo le elezioni. Invece di 275 grandi elettori , io avevo bisogno di 460 specie, e le mie possibilità di vittoria stavano diminuendo a vista d’occhio. Infine, quattro giorni prima della fine del viaggio, nello sfioratore di una diga vicino al confine con il Burkina Faso, dove avevo sperato di individuare cinque o sei nuovi uccelli di prateria e non ne avevo visto nessuno, dovetti accettare la sconfitta. D’un tratto mi resi conto che avrei dovuto essere a casa, a cercare di consolare la mia ragazza mettendo in pratica l’unico vantaggio dell’essere un pessimista depresso, e cioè la capacità di ridere nei tempi cupi.
Come aveva fatto il cafone dalle dita corte a raggiungere la Casa Bianca? Quando ha ricominciato a parlare in pubblico, Hillary Clinton ha accreditato una descrizione di sé del tipo “il simile va con il simile”, presentando una narrazione del tipo “questo è venuto dopo quello”. Poco importa che avesse gestito male le sue email. Poco importava che gli elettori potessero avere dei legittimi motivi di malcontento nei confronti delle élite di sinistra che lei rappresentava; che potessero diffidare della razionalità del libero scambio, dei confini aperti e dell’automazione delle fabbriche, quando la crescita complessiva della ricchezza globale si era verificata a spese della classe media; che potessero avercela con il fatto che lo stato avesse imposto valori urbani progressisti alle comunità rurali conservatrici. Secondo Clinton, la sua sconfitta era colpa di James Comey, e forse anche dei russi.
Anch’io, a dire il vero, avevo la mia bella storia ordinata. Quando tornai a Santa Cruz dall’Africa, i miei amici di sinistra faticavano ancora a capire come Trump potesse aver vinto. Ripensai a un incontro pubblico che avevo avuto con l’ottimistico esperto di social network Clay Shirky, che aveva raccontato che i critici gastronomici professionisti di New York erano rimasti “scandalizzati” quando Zagat, un servizio di recensioni fatte dai lettori, aveva nominato lo Union Square Café come il migliore ristorante della città. Shirky intendeva sottolineare che i critici professionisti non sono intelligenti come credono di essere, anzi, nell’epoca dei big data non sono nemmeno più necessari. Durante l’incontro, ignorando il fatto che lo Union Square Café era anche il mio ristorante newyorchese preferito (la gente aveva ragione!), mi ero acidamente chiesto se secondo Shirky i critici fossero stupidi anche a considerare Alice Munro una scrittrice migliore di James Patterson. Ma adesso la vittoria di Trump aveva giustificato la sua presa in giro degli esperti. I social network avevano permesso a Trump di aggirare la critica istituzionale e un numero sufficiente di persone, nei principali stati in bilico tra i due candidati, aveva trovato le sue buffonate e i suoi discorsi incendiari “migliori” delle sottili argomentazioni di Clinton e della sua padronanza della politica. A questo segue quello: senza Twitter e Facebook non ci sarebbe stato Trump.
Dopo le elezioni, per un po’ Mark Zuckerberg sembrò assumersi la responsabilità, più o meno, di aver creato la piattaforma perfetta per diffondere notizie false su Clinton, e suggerire che Facebook poteva diventare più attivo nel filtrare le notizie (tanti auguri). Twitter, dal canto suo, mantenne un profilo basso. Mentre Trump continuava a twittare senza tregua, cosa poteva dire Twitter? Che stava rendendo il mondo un posto migliore?
In dicembre la mia stazione radio preferita di Santa Cruz, Kpig, cominciò a trasmettere un falso annuncio che offriva un servizio di terapia a chi non riusciva a smettere di manifestare odio per Trump su Twitter e Facebook. Il mese seguente, una settimana prima dell’insediamento di Trump, il Pen American Center, l’associazione di scrittori e poeti statunitense, organizzò eventi in tutto il paese per respingere il presunto assalto alla libertà rappresentato da Trump. Anche se più tardi le restrizioni ai viaggi imposte dalla sua amministrazione avrebbero reso più difficile agli scrittori di paesi musulmani far sentire la loro voce negli Stati Uniti, in gennaio l’unica cosa negativa che non si poteva dire di Trump era che avesse limitato in qualche modo la libertà d’espressione. I suoi tweet bugiardi e prepotenti erano libertà d’espressione all’ennesima potenza. Lo stesso Pen, pochi anni prima, aveva dato un premio per la libertà di parola a Twitter, per il suo sbandierato ruolo nella primavera araba.
Il vero risultato della primavera araba era stato mettere in trincea l’autocrazia, e da allora Twitter si è rivelato, in mano a Trump, una piattaforma fatta su misura per l’autocrazia, ma i paradossi non finivano lì. Durante la stessa settimana di gennaio, le librerie e gli scrittori di sinistra statunitensi proposero di boicottare l’editore Simon & Schuster, colpevole di voler pubblicare un libro dello squallido provocatore di estrema destra Milo Yiannopoulos. Le librerie più arrabbiate parlavano di rifiutare tutti i titoli di Simon & Schuster, compresi, presumibilmente, i libri di Andrew Solomon, il presidente del Pen. Smisero di parlarne solo quando l’editore annullò il contratto con Yiannopoulos.
Trump e i suoi sostenitori della cosiddetta alt-right godono a toccare i tasti dolenti della correttezza politica, ma ci riescono solo perché quei tasti esistono: studenti e attivisti che rivendicano il diritto di non sentire ciò che li disturba e di mettere a tacere le idee che li offendono. L’intolleranza prospera soprattutto online, dove i discorsi pacati sono puniti dalla mancanza di clic, dove invisibili algoritmi di Facebook e Google vi dirigono verso i contenuti con cui siete d’accordo, e dove le voci anticonformiste tacciono per paura dei troll o di perdere amici. Il risultato è un silo all’interno del quale, da qualunque parte stiate, sentirete di avere assolutamente ragione a odiare ciò che odiate. Ed ecco un altro modo in cui la saggistica differisce da altri generi di discorso soggettivo apparentemente simili. Il saggio ha le sue radici nella letteratura, e la letteratura al suo meglio – le opere di Alice Munro, per esempio – v’invita a chiedervi se per caso non abbiate un po’ torto o addirittura completamente torto, e a immaginare perché qualcun altro potrebbe odiarvi.
L’intolleranza prospera soprattutto online
Tre anni fa ero infuriato per i cambiamenti climatici. Il partito repubblicano continuava a mentire sulla mancanza di consenso scientifico sulla questione – il dipartimento per la protezione dell’ambiente della Florida era arrivato a vietare ai propri impiegati di scrivere le parole “cambiamento climatico” dopo che il governatore dello stato, un repubblicano, aveva sostenuto che non si trattava di un “fatto reale” – ma non ero meno arrabbiato con la sinistra. Avevo letto un nuovo libro di Naomi Klein, Una rivoluzione ci salverà, in cui la giornalista afferma che, anche se “il tempo stringe”, abbiamo ancora dieci anni per trasformare radicalmente l’economia globale e impedire un aumento di più di due gradi delle temperature entro la fine del secolo. Klein non era l’unica persona di sinistra a sostenere che avessimo ancora dieci anni. A dire il vero, gli ambientalisti dicevano esattamente la stessa cosa nel 2005.
Lo dicevano anche nel 1995: abbiamo ancora dieci anni. Nel 2015, tuttavia, avrebbe dovuto essere chiaro che l’umanità è incapace in ogni modo – politicamente, psicologicamente, eticamente, economicamente – di ridurre le emissioni di carbonio abbastanza in fretta da cambiare radicalmente le cose. Anche l’Unione europea, che per prima aveva preso l’iniziativa sul clima e amava fare la predica alle altre regioni per la loro irresponsabilità, durante la recessione del 2009 non aveva esitato a spostare l’attenzione sulla crescita economica. Se si esclude una rivolta mondiale contro il capitalismo del libero mercato nei prossimi dieci anni – lo scenario che secondo Klein potrebbe ancora salvarci – il più probabile aumento della temperatura in questo secolo è nell’ordine dei sei gradi. Ci andrà bene se eviteremo un aumento di due gradi prima del 2030.
Nel 2015, in un sistema politico sempre più aspramente diviso, la verità sul riscaldamento globale era ancora meno comoda per la sinistra che per la destra. Le negazioni della destra erano bugie odiose, ma almeno erano coerenti con un certo gelido realismo politico. La sinistra, dopo avere duramente criticato la destra per la sua disonestà intellettuale e trasformato il negazionismo climatico in uno slogan politico, si trovava ora in una posizione impossibile. Doveva continuare a sostenere la verità delle conclusioni scientifiche mentre insisteva con la finzione che un’azione mondiale collettiva potesse prevenire il peggio: l’accettazione universale dei fatti, che avrebbe potuto davvero essere rivoluzionaria nel 1995, poteva esserlo ancora. Altrimenti che differenza faceva se i repubblicani polemizzavano con la scienza?
Poiché le mie simpatie andavano alla sinistra – ridurre le emissioni è enormemente meglio che non fare nulla, e anche mezzo grado può cambiare le cose – nutrivo più aspettative nei suoi confronti. Negare la cupa realtà, fingere che gli accordi di Parigi potessero scongiurare la catastrofe, era comprensibile come tattica per mantenere le persone motivate a ridurre le emissioni, per tenere viva la speranza. Come strategia, però, faceva più male che bene. Rinunciava alla superiorità etica, insultava l’intelligenza degli elettori non convinti (“Davvero? Abbiamo ancora dieci anni?”) e ostacolava una discussione aperta su come la comunità globale debba prepararsi a cambiamenti drastici e su come nazioni come il Bangladesh debbano essere compensate per ciò che hanno subìto da nazioni come gli Stati Uniti.
Inoltre quella malafede alterava le priorità. Negli ultimi vent’anni il movimento ambientalista era diventato prigioniero di un’unica questione. Le grandi ong ambientali, in parte perché effettivamente preoccupate, avevano investito il loro capitale politico nella lotta ai cambiamenti climatici, un problema dal volto umano, anche perché mettere in primo piano i problemi umani è politicamente meno rischioso – meno elitario – che parlare della natura. L’ong che mi irritava più di tutte, come appassionato di uccelli, era la National Audubon society, che una volta era un’intransigente paladina degli uccelli e oggi è un’istituzione letargica con un enorme ufficio di pubbliche relazioni. Nel settembre del 2014, con grande clamore, quell’ufficio aveva annunciato al mondo che i cambiamenti climatici erano la minaccia numero uno per gli uccelli del Nordamerica.
L’annuncio era in malafede sia in senso stretto, perché la sua formulazione non quadrava con le conclusioni degli scienziati della stessa Audubon, sia in senso più ampio, perché neppure la morte di un solo uccello poteva essere attribuita direttamente alle emissioni umane di CO2. Nel 2014 la più grave minaccia per gli uccelli americani era la perdita di habitat, seguita dai gatti, dalle collisioni con gli edifici e dai pesticidi. Tirando in ballo lo slogan dei cambiamenti climatici, l’Audubon ottenne parecchia attenzione da parte dei mezzi d’informazione di sinistra: era stato segnato un altro punto contro la destra che negava la scienza. Ma non era affatto chiaro come ciò potesse aiutare gli uccelli. L’unico effetto pratico dell’annuncio, mi sembrava, era scoraggiare le persone dall’affrontare le vere minacce agli uccelli nel presente.
Ero così arrabbiato che decisi di scrivere un saggio (”I dilemmi di un ambientalista”, Internazionale 1106). Partii con un piagnisteo contro la National Audubon society, che si ampliò fino a diventare una sprezzante critica del movimento ambientalista in generale. Poi cominciai a svegliarmi di notte in preda al panico per dubbi e rimorsi. Per lo scrittore un saggio è uno specchio, e ciò che vedevo in quello specchio non mi piaceva. Perché me la prendevo con i progressisti come me, quando i negazionisti erano molto peggiori? La prospettiva del cambiamento climatico era disgustosa per me quanto per i gruppi che stavo attaccando. Ogni grado in più di riscaldamento globale avrebbe causato sofferenze a centinaia di migliaia di persone nel mondo. Non valeva la pena di compiere uno sforzo comune per ottenere una riduzione anche solo di mezzo grado? Non era osceno parlare di uccelli quando i bambini del Bangladesh erano minacciati? Sì, la premessa del mio saggio era che abbiamo una responsabilità etica nei confronti delle altre specie oltre che della nostra. Ma se la premessa fosse stata falsa? E anche se fosse stata vera, m’interessava davvero così tanto la biodiversità? O ero solo un maschio bianco privilegiato che amava il bird-watching? E neppure un appassionato di birdwatching dal cuore puro: un elencatore!
Dopo tre notti passate a dubitare del mio carattere e delle mie motivazioni, chiamai Henry Finder e gli dissi che non potevo scrivere quell’articolo. Avevo sproloquiato parecchio sul clima con amici e conservazionisti che la pensavano come me, ma i miei sproloqui sembravano quelli che si trovano online, dove sei protetto dalla natura estemporanea della scrittura e dalla benevolenza del tuo pubblico. Cercare di scrivere una cosa compiuta mi aveva reso consapevole della sciatteria del mio pensiero. Aveva anche enormemente aumentato il rischio di vergogna, perché si trattava di un scritto ragionato, non informale, che avrebbe raggiunto un pubblico di estranei probabilmente ostili. Seguendo l’ammonimento di Henry (“Pertanto”), ero arrivato a considerare il saggista come una specie di pompiere, il cui compito è tuffarsi in mezzo alle fiamme della vergogna mentre tutti gli altri scappano. Ma ora non avevo da temere solo la disapprovazione di mia madre.
Il saggio sarebbe probabilmente rimasto abbandonato, se non fosse che avevo già cliccato sul sito dell’Audubon per affermare che sì, volevo unirmi alla lotta contro i cambiamenti climatici. Lo avevo fatto solo per raccogliere munizioni retoriche da usare contro l’Audubon, ma a quel clic era seguito un diluvio di sollecitazioni via posta ordinaria. Ne ricevetti almeno otto in sei settimane, tutte con richieste di donazioni, insieme a un diluvio simile nella mia casella di posta elettronica. Qualche giorno dopo la mia discussione con Henry aprii una delle email e mi trovai davanti una foto di me stesso: per fortuna un’immagine lusinghiera, scattata nel 2010 per Vogue, in cui mi avevano vestito meglio di quanto mi vesta di solito e mi avevano messo in posa in un campo con il binocolo in mano, come uno che fa bird-watching. Il titolo dell’email era qualcosa tipo: “Unitevi allo scrittore Jonathan Franzen nel sostenere l’Audubon”. Era vero che, qualche anno prima, in un’intervista per la rivista dell’Audubon, avevo educatamente elogiato l’organizzazione, o almeno la rivista. Ma nessuno mi aveva chiesto il permesso di usare il mio nome e la mia immagine per chiedere donazioni. Non ero neppure certo che quell’email fosse legale.
Uno stimolo più benevolo per tornare al saggio venne da Henry. A quanto ne so, Henry se ne infischia degli uccelli, ma trovò qualcosa d’interessante nella mia argomentazione secondo cui la nostra ansia per le catastrofi future ci scoraggia dall’affrontare problemi ambientali che possono essere risolti qui e ora. In un’email mi suggerì gentilmente di abbandonare il tono di disprezzo profetico. “Questo pezzo, paradossalmente, sarà più persuasivo”, scrisse in un’altra email, “se terrai un tono più ambivalente, meno polemico. Non stai denigrando le persone che ci esortano a prestare attenzione ai cambiamenti climatici e alla riduzione delle emissioni. Però sei attento ai costi. A ciò che il discorso spinge ai margini”. Email dopo email, revisione dopo revisione, Henry mi convinse a impostare il saggio non come una critica ma come una domanda: come troviamo significato nelle nostre azioni quando sembra che il mondo stia per finire? Buona parte della versione finale era dedicata a un paio di progetti di conservazione regionale ben concepiti, in Perù e Costa Rica, dove davvero si lavora per rendere il mondo un posto migliore, non solo per piante e animali selvatici ma anche per i peruviani e costaricani che vivono in quei luoghi. Lavorare a questi progetti fornisce uno scopo alle persone, e i benefici sono immediati e tangibili.
Scrivendo di quei due progetti speravo che qualche grande fondazione filantropica, di quelle che spendono decine di milioni di dollari per sviluppare il biodiesel o i parchi eolici in Eritrea, leggesse il saggio e decidesse d’investire in un lavoro che produce risultati tangibili. Invece ricevetti un attacco missilistico dal silo dei progressisti. Io non sono sui social network, ma i miei amici mi riferirono che venivo chiamato con ogni sorta di insulti, compreso “cervello di gallina” e “negazionista dei cambiamenti climatici”. Brevi frammenti del saggio, ritwittati fuori contesto, facevano sembrare che avessi proposto di abbandonare lo sforzo per ridurre le emissioni abbracciando la posizione del partito repubblicano, cosa che, secondo la logica polarizzata del dibattito online, mi rendeva un negazionista dei cambiamenti climatici. In realtà credo talmente nella scienza del clima che ho direttamente smesso di nutrire speranze per le calotte polari. L’unica cosa che avevo negato era che una coscienziosa élite internazionale, radunandosi in begli alberghi in giro per il mondo, potesse impedire alle calotte di sciogliersi. Questo era il mio crimine contro l’ortodossia. Oggi il clima ha una tale presa sull’immaginazione di sinistra che qualunque tentativo di cambiare la conversazione – anche spostandola sull’estinzione di massa che gli umani stanno già creando senza l’aiuto dei cambiamenti climatici – equivale a un’offesa contro la religione.
Provavo comprensione per i professionisti del clima che avevano condannato il saggio. Lavoravano da decenni per lanciare l’allarme negli Stati Uniti e finalmente avevano l’appoggio del presidente Obama e l’accordo di Parigi. Era un momento inopportuno per far notare che il riscaldamento globale è già cosa fatta, e che sembra improbabile che l’umanità lasci il carbonio nel suolo, visto che neppure un paese al mondo si è finora impegnato a farlo.
Capivo anche l’ira dell’industria delle energie alternative, che è un’attività imprenditoriale come le altre. Se ammettiamo che i progetti di energia rinnovabile sono solo una tattica contenitiva, incapace di annullare i danni che le emissioni del passato continueranno a provocare per secoli, apriamo le porte ad altri dubbi su questo settore. Tipo, servivano davvero tutte quelle turbine eoliche? Bisognava proprio metterle in zone ecologicamente sensibili? E i parchi solari nel deserto del Mojave: non era più sensato coprire la città di Los Angeles di pannelli solari e risparmiare gli spazi aperti? Non stavamo distruggendo il mondo naturale con la scusa di salvarlo? Credo che sia stato un blogger di quell’industria a chiamarmi cervello di gallina.
Il nostro mondo è sul punto di cambiare enormemente, imprevedibilmente e in peggio
Quanto all’Audubon, l’email di raccolta fondi avrebbe dovuto mettermi in guardia su com’era gestita. Ma ero ancora sorpreso dalla sua reazione al saggio, che era stata un attacco ad hominem contro la persona di cui aveva allegramente sfruttato il nome e l’immagine due mesi prima. Sì, il mio saggio era una dimostrazione di amore severo per Audubon. Volevo che la piantassero con le sciocchezze, smettessero di parlare di quello che succederà tra cinquant’anni e fossero più aggressivi nel difendere gli uccelli che amiamo.
Ma a quanto pareva l’Audubon vedeva solo una minaccia per le sue iscrizioni e la sua raccolta fondi, e così doveva negare me come persona. Mi dicono che il presidente dell’Audubon sparò quattro diverse salve contro di me. È questo che fanno i presidenti, adesso.
Funzionò. Senza neppure leggere quelle salve – soltanto sapendo che altre persone le stavano leggendo – mi vergognai. Mi sentii come se fossi stato ancora in terza media, snobbato dalla gente e chiamato con insulti che mi ferivano anche se non avrebbero dovuto. Mi pentii di non aver ascoltato il mio panico notturno e tenuto per me le mie opinioni. Piuttosto angosciato, chiamai Henry e gli rovesciai addosso la mia vergogna e il mio rimorso. Lui replicò, nel suo stile imperscrutabile, che le reazioni online erano solo una perturbazione atmosferica. “Con l’opinione pubblica”, disse, “ci sono le perturbazioni, e poi c’è il clima. Tu stai cercando di cambiare il clima, e questo richiede tempo”. Non importava se ci credessi oppure no. Mi bastava sentire che una persona, Henry, non mi odiava. Mi consolai con il pensiero che, anche se il clima è una cosa troppo vasta e caotica perché un solo individuo riesca ad alterarla, questo individuo può comunque trovare uno scopo nel cercare di cambiare le cose per un villaggio afflitto, per una vittima dell’ingiustizia globale. O per un uccello o un lettore.
Dopo che le fiammate online si erano spente, cominciai ricevere messaggi in privato da persone che lavoravano per la conservazione ambientale, le quali condividevano le mie frustrazioni ma non potevano permettersi di esprimerle. Non furono molte, ma non era necessario che lo fossero. Il mio sentimento, in ogni caso, era sempre lo stesso: la persona per cui ho scritto questo saggio sei tu.
Ora, due anni e mezzo dopo, mentre le piattaforme di ghiaccio si sgretolano e il presidente twittatore esce dall’accordo di Parigi, non ne sono più tanto sicuro. Ora posso ammettere con me stesso che non ho scritto quel saggio solo per rincuorare qualche conservazionista e spostare qualche dollaro di beneficenza verso cause migliori. Volevo davvero cambiare il clima. Lo voglio ancora. Con le persone che criticavo nel saggio condivido la consapevolezza che i cambiamenti climatici sono il problema della nostra epoca, forse il problema più grave della storia dell’umanità. Ciascuno di noi si trova oggi nella posizione degli indigeni americani quando arrivarono gli europei con fucili e vaiolo: il nostro mondo è sul punto di cambiare enormemente, imprevedibilmente e in peggio. Non m’illudo affatto che possiamo fermare questo cambiamento. La mia unica speranza è che riusciamo ad accettare la realtà in tempo per prepararci umanamente, e la mia unica convinzione è che affrontarla con schiettezza, per quanto sia doloroso, è meglio che negarla.
Se scrivessi quel pezzo oggi, potrei dire tutto questo. Lo specchio del saggio, per come venne pubblicato, rifletteva un furibondo disadattato amante degli uccelli che si considera più intelligente degli altri. Quel personaggio potrei essere io, ma io sono anche altro, e un saggio migliore lo avrebbe dimostrato.
In un saggio migliore, probabilmente avrei fatto comunque all’Audubon la ramanzina che si meritava, ma avrei cercato di manifestare più comprensione per le altre persone con cui ero arrabbiato: per gli attivisti del clima, che da vent’anni vedevano le loro possibilità di vittoria diminuire orribilmente mentre le emissioni di carbonio aumentavano e i necessari obiettivi di riduzione diventavano sempre meno realistici, e per gli impiegati nell’industria delle energie alternative che avevano famiglie da mantenere e stavano cercando di guardare al di là del petrolio, e per le ong ambientali che credevano di avere finalmente trovato una questione in grado di svegliare il mondo, e per le persone di sinistra che mentre il neoliberismo e le sue tecnologie riducevano gli elettori a consumatori isolati vedevano i cambiamenti climatici come l’ultimo argomento forte a sostegno del collettivismo. Soprattutto avrei provato a ricordare tutte le persone per le quali avere speranza nella vita è più importante di quanto lo sia per un pessimista depresso, per le quali la prospettiva di un futuro torrido e funestato da calamità è intollerabilmente triste e spaventosa, e che possono essere perdonate se non vogliono pensarci. Avrei continuato a fare revisioni.
(Traduzione di Silvia Pareschi)
Questo articolo è stato pubblicato il 12 gennaio 2018 nel numero 1238 di Internazionale.
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