Mentre gli occhi del mondo sono puntati sul Medio Oriente e nemmeno la guerra in Ucraina è più argomento da prima pagina, almeno in questo spazio sembra il caso di ricordare un altro fronte caldo, dove i civili, bambini compresi, sono presi di mira dai bombardamenti di un esercito senza scrupoli, che dall’aprile 2022 al luglio 2023 ha raso al suolo 1.355 villaggi e più di 75mila edifici, incluse le strutture per la conservazione dei prodotti alimentari, del bestiame e delle sementi.

Il risultato è una crisi umanitaria con due milioni di sfollati e cinque milioni di bambini in stato di bisogno. Stiamo citando i dati dell’Onu sulla guerra civile in Birmania riportati in un rapporto appena pubblicato dall’associazione Italia-Birmania insieme, nata nella fase di transizione democratica in cui il paese asiatico sembrava instradato in un percorso virtuoso e impegnata ora, dopo il golpe militare del febbraio 2021, a sostegno dell’opposizione alla nuova giunta.

La Birmania è precipitata in un conflitto in cui migliaia di civili si sono dati alla macchia e hanno imbracciato le armi per la prima volta, addestrati dai gruppi armati degli stati etnici alla periferia del paese. La particolarità della guerra civile in corso è che ha investito l’intero paese, incluse le principali città e, soprattutto, la zona centrale della Birmania, solitamente tranquilla e abitata dalla maggioranza bamar, l’etnia a cui tradizionalmente è legato l’esercito.

Le atrocità commesse dai militari contro i civili (e in modo particolare contro i rohingya, la minoranza musulmana non ufficialmente riconosciuta) sono oggetto d’indagini alla Corte internazionale di giustizia, alla Corte penale internazionale e presso altri tribunali per sospetti genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Nel frattempo la comunità internazionale, troppo impegnata sugli altri fronti, latita.

Della guerra in corso in Birmania non si parla e intanto l’esercito, stando alle parole dell’alto commissario Onu per i diritti umani Volker Turk, “fa affidamento sull’accesso alla valuta estera per l’acquisto di materiali militari, servizi di supporto e carburante per l’aviazione”. In seguito al golpe del 2021 l’Unione europea ha rafforzato le sanzioni già esistenti contro i militari. Eppure, e questo è l’oggetto del rapporto di Italia-Birmania insieme, da trent’anni un’azienda italiana, la Danieli spa, “leader mondiale nella produzione di impianti siderurgici con sede a Buttrio (Udine)”, lavora indisturbata nel paese asiatico facendo affari con l’esercito che l’ha governato per buona parte degli ultimi sessant’anni. Indisturbata e in sordina, se è vero, come denuncia il documento, che la Birmania non compare nella mappa dei paesi asiatici in cui il gruppo è attivo.

Il problema è che “molte delle attività di Danieli violano diversi capitoli delle linee guida Ocse sulle multinazionali, a partire da quelli relativi a diritti umani, impatti ambientali, trasparenza, coinvolgimento delle parti interessate, nonché dei princìpi guida su business e diritti umani, in relazione ai quali Danieli non ha adottato alcuna misura per mitigare gli impatti di tali violazioni. Anche le misure restrittive approvate dalla Ue nel corso della precedente dittatura e dal colpo di stato del febbraio 2021 potrebbero essere state violate o vi possono essere state deroghe da parte dalle autorità italiane, che hanno permesso a Danieli di continuare a operare in Birmania con imprese di proprietà della giunta militare”.

Nel rapporto si chiede all’azienda trasparenza e alle autorità italiane d’indagare su come sia possibile che il gruppo abbia potuto fare affari per decenni con i regimi dittatoriali che si sono susseguiti fino a oggi.

Questo testo è tratto dalla newsletter In Asia.

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