Ci sono tre scene di Black box diaries – il documentario in programma al Festival di Internazionale a Ferrara in cui la reporter giapponese Shiori Ito ha raccontato la sua vicenda personale (uno stupro subìto nel 2015 da un giornalista molto influente e l’iter giudiziario che è seguito alla sua denuncia) – che da sole spiegano in modo molto efficace la questione al centro del film.
Da qui in avanti ci saranno diversi spoiler. Nella prima Ito riprende il tassista che la sera dello stupro aveva caricato lei e Noriyuki Yamaguchi, noto giornalista tv vicino all’allora premier Shinzo Abe, al locale dove i due avevano bevuto qualcosa insieme per parlare di lavoro. L’uomo, un signore sulla settantina dai modi calmi e gentili, dice di ricordare che lei voleva essere lasciata a una stazione della metro, che l’aveva ripetuto più volte, ma che lui, su indicazione di Yamaguchi, aveva proseguito verso l’hotel Sheraton. Il tassista dice che arrivati lì Ito non voleva smontare e che, mentre lui si chiedeva cosa fare, Yamaguchi l’aveva fatta scendere di peso. Quando lo racconta, l’uomo non ha un’espressione contrita, non sembra rammaricarsi di quel che ha fatto o non ha fatto, ma pare stia pensando all’ineluttabilità della vicenda, come a dire: non poteva che andare così.
Subito dopo arriva come un pugno nello stomaco la sequenza ripresa quella notte da una telecamera di sorveglianza fuori dall’hotel. Dura un minuto, ma sembra interminabile. Si vede il taxi fermo, la portiera dietro aperta, Yamaguchi che scende carico di borse, risale sull’auto ed è evidente che sta faticando molto per trascinare fuori Ito, palesemente non in sé. Alla fine il giornalista la porta via di peso e i due spariscono dentro l’albergo. La telecamera nella hall riprende i pochi secondi successivi in cui: lei non si regge in piedi, barcolla, la testa le ciondola mentre Yamaguchi la porta verso l’ascensore.
Il giornalista ha sempre negato l’accusa di violenza sessuale aggravata dall’uso di droga. Per lui si è trattato di sesso tra due adulti. La vicenda non è nuova: Ito nel 2017 aveva fatto parlare molto di sé accusando pubblicamente Yamaguchi in una conferenza stampa. Aveva deciso di farlo dopo che la denuncia alla polizia, per altro scoraggiata dalle stesse autorità, era caduta nel vuoto. Voleva portare in primo piano nel dibattito pubblico il tema dello stupro, troppo diffuso e altrettanto taciuto, e soprattutto l’inadeguatezza di una legge vecchia di un secolo per cui la definizione di stupro non include la mancanza di consenso nel rapporto sessuale ma solo l’uso della violenza. Era il periodo del #MeToo, e Ito era subito diventata il volto giapponese del movimento. Quella conferenza stampa ebbe un effetto dirompente: era la prima volta che una donna raccontava uno stupro davanti alle telecamere e accusava pubblicamente un uomo così potente.
Si calcola che in Giappone sporga denuncia solo il 3 per cento delle donne stuprate. Questo è anche il risultato di una società in cui la violenza o la mancanza di consenso nei rapporti sessuali fanno parte di un immaginario in un certo senso normalizzato dalla cultura pop – penso a certi manga consumati da molti adolescenti in cui spesso passa l’idea che anche se la destinataria di baci, palpeggiamenti, pizzicotti o penetrazione è recalcitrante e finge di opporsi, in realtà le piace – e in cui i confini della violenza sessuale riconosciuta come tale sono molto stretti. Lo stupro, poi, è spesso motivo di vergogna: la gran parte dei casi avviene tra le mura domestiche ed è considerato qualcosa che lì deve rimanere. A questo si aggiunge il fatto che le donne che denunciano in genere trovano da parte delle autorità un atteggiamento tutt’altro che solidale e incoraggiante. Nel caso di Ito, la polizia le aveva sconsigliato di sporgere denuncia perché così avrebbe rovinato la sua carriera.
La terza scena topica del documentario è disarmante. Ito è al telefono con un investigatore che fin dall’inizio con lei si è dimostrato comprensivo, solidale ma anche sincero: la legge non dà appigli per poter incriminare Yamaguchi, non ci sono prove sufficienti. L’uomo però le crede e vuole aiutarla. I due s’incontrano un paio di volte e lui le passa alcune informazioni riservate sul fatto che Yamaguchi è protetto dall’alto.
Questo detective è una figura positiva e amica in una vicenda che lascia poca speranza. Dice a Ito che capisce la sua battaglia, che è importante che lei vada avanti, anche se lui non può metterci la faccia. Una sera Ito, che sta scrivendo un libro sulla sua vicenda, lo chiama per avvisarlo che dentro ha riportato, in forma anonima, le sue parole. Il detective si scusa, è appena uscito da una festa ed è un po’ ubriaco, dice. Aggiunge che vorrebbe aiutarla, ma non sa come. Lei risponde che sarebbe utile se dicesse pubblicamente quel che ha riferito a lei. Lui sorride e dice che forse, se lei lo sposasse, potrebbe farlo. Lei ride imbarazzata, sta al gioco, ma quella frase è una pugnalata. Si salutano, lei appoggia il telefono e guarda nel vuoto.
Postilla: nel 2023 finalmente il parlamento giapponese ha approvato una modifica storica della legge sullo stupro, allargandone la definizione a ogni rapporto sessuale non consensuale.
Black box diaries sarà proiettato sabato 5 ottobre alle 19 alla Sala Estense di Ferrara durante il Festival di Internazionale. Qui il programma della rassegna Mondovisioni.
Questo testo è tratto dalla newsletter In Asia.
Iscriviti a In Asia |
Cosa succede in Asia e nel Pacifico. A cura di Junko Terao. Ogni sabato.
|
Iscriviti |
Iscriviti a In Asia
|
Cosa succede in Asia e nel Pacifico. A cura di Junko Terao. Ogni sabato.
|
Iscriviti |
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it