Grazie a un voto di fiducia, ottenuto con un margine ristretto e senza gloria – sessanta deputati a favore sui 120 della knesset più un astenuto – Naftali Bennett il 13 giugno è diventato il capo del governo israeliano. Il destino d’Israele oggi è in mano a un leader proveniente dall’estrema destra religiosa. Un capo quasi senza truppe, forte di appena sei deputati in parlamento. Ma serviva un uomo di destra per incarnare la chimera rappresentata da questa coalizione di otto partiti, alcuni anche di centro e di sinistra, uniti dalla loro volontà di deporre Benjamin Netanyahu e consapevoli del fatto che Israele ha votato per lo più a destra nel corso delle quattro ultime elezioni, tra l’aprile 2019 e il marzo 2021.
Se, tra due mesi, si dovesse tornare alle urne, Bennett e il suo partito Yamina (A destra) sarebbero spazzati via. L’uomo suscita amarezza all’interno della sua “famiglia” sionista e religiosa. “Complimenti! Chi l’avrebbe detto? Primo ministro con sei deputati… E come se entrassi da Fouquet’s con venti euro in tasca e ordinassi un piatto da mille euro”, commenta con ironia Boaz Bismuth, caporedattore del quotidiano gratuito di destra Israel Hayom, fedele a Netanyahu.
Bennett sarà sicuramente in posizione di debolezza in questa coalizione, dato che qualsiasi ministro potrebbe affondarla con un veto. Il centrista Yair Lapid, vero regista della squadra e primo ministro in “alternanza”, dovrebbe succedergli nel 2023. Ma simbolicamente è un passo colossale: un difensore del diritto divino d’Israele a dominare la totalità delle terre che si estendono dal Giordano al Mediterraneo eredita il seggio di David Ben Gurion, fondatore dello stato, socialista e laico.
L’uomo normalizzato
Bennett può apparire oggi come un uomo di compromesso, pragmatico oppure opportunista, perché l’ambiente politico israeliano lo ha normalizzato. La traiettoria di questo ex esponente delle forze speciali, 49 anni, ex imprenditore di successo dell’alta tecnologia, accompagna quella di un paese che da un decennio ignora la questione palestinese. Raramente messo in difficoltà a proposito del conflitto, Bennett alimenta un’illusione centrista: può sognare di essere non al centro dello scacchiere politico, ma poco lontano.
Naftali Bennett è il figlio di ebrei statunitensi liberali, immigrati in Israele dopo la guerra del 1967. Ha ricevuto un’educazione religiosa ortodossa classica ed è rimasto traumatizzato, come la sua famiglia, dagli accordi di pace di Oslo, che negli anni novanta fecero credere che Israele avrebbe abbandonato una parte dei territori conquistati nel 1967, e che sarebbe nato lo stato palestinese.
“Bennett ha servito nell’esercito, come avanguardia di un gruppo di giovani ebrei religiosi che dimostrarono di saper gestire non solo le mense kosher, ma anche i comandi nella cabina di un caccia militare e al fronte”, sottolinea Yohanan Plesner, direttore dell’Istituto israeliano per la democrazia (un centro studi) e che ha servito a fianco di Bennett nei commando d’élite Sayeret Matkal.
Bennett non è un ideologo, evoca più volentieri i suoi risultati militari che la storia del sionismo religioso
Il giovane Naftali si era arruolato come volontario in questa unità, di cui ha fatto parte anche Netanyahu e che in passato è stata guidata dal fratello maggiore di Benjamin, Yonatan – Yoni – morto nel 1976 durante la liberazione dei passeggeri israeliani di un volo Air France dirottato da alcuni palestinesi a Entebbe, in Uganda.
Le lettere di Yoni alla famiglia, impregnate di devozione nei confronti del paese, erano allora una lettura quasi obbligatoria all’interno del movimento dei giovani sionisti religiosi Bnei Akiva. E Bennett ha chiamato Yoni il suo primogenito.
“Ancora oggi i suoi discorsi sono quelli di un perfetto seguace di Bnei Akiva: un nazionalismo sincero, poche idee e molti slogan”, dice il filosofo di sinistra Assaf Sharon, che è cresciuto all’interno dello stesso movimento, nelle colonie. Il fatto è che Bennett non è un ideologo. Di fronte ai sostenitori evoca più volentieri i suoi risultati militari che la storia del sionismo religioso. Si dice legato alla figura di Hanan Porat, ex paracadutista e uno dei fondatori di Goush Emounim, un esiguo gruppo di militanti radicali di Hebron, che lanciò la colonizzazione dei territori occupati negli anni settanta.
Ma nei suoi discorsi pubblici come in quelli privati Bennett parla di rado e apertamente del movimento. Come ufficiale ha servito nel sud del Libano durante l’operazione “grappoli d’ira” dell’aprile 1996. Mentre la sua unità era in difficoltà dietro le linee nemiche di Hezbollah, lanciò un appello perché l’artiglieria israeliana bombardasse delle postazioni nemiche. I conseguenti attacchi israeliani provocarono duecento morti vicino a un campo della Forza di interposizione in Libano delle Nazioni Unite (Finul) a Qana, dove si erano rifugiati alcuni civili. Un’ondata d’indignazione internazionale mise fine all’operazione israeliana.
Umiliazioni e sangue freddo
Dopo sei anni nell’esercito, Bennett ha fatto fortuna nel mondo della tecnologia, rivendendo nel 2005, negli Stati Uniti, per 120 milioni di dollari, una start-up specializzata in sicurezza informatica, fondata con tre amici piuttosto laici e progressisti. L’anno dopo è entrato in politica, in qualità di capo del personale di Netanyahu, all’epoca leader dell’opposizione, e in piena traversata del deserto dopo lo smantellamento delle colonie della Striscia di Gaza, ordinato dal primo ministro Ariel Sharon nel 2005.
Bennett sognava già di diventare primo ministro, ma solo dopo Netanyahu, di cui è sempre stato un ammiratore. “Netanyahu mi disse allora che aveva trovato questo ragazzo che avrebbe lavorato gratuitamente: aveva guadagnato milioni grazie alla tecnologia, e non voleva uno stipendio”, ricorda un’ex consigliera di Netanyahu, Odelia Karmon, che ha osservato il rapido deterioramento delle loro relazioni. Bennett, in rapporti difficili con la moglie di Netanyahu, Sarah, è stato cacciato nel 2008. “Bibi ti cerca perché hai talento. Poi ti teme, ti mette sotto pressione e si libera di te per la stessa ragione”, spiega Karmon.
L’ambizioso Bennett ha passato quindici anni a pungolare Netanyahu all’interno della destra radicale, digerendo le sue costanti umiliazioni. “È stato alla scuola migliore, anche se il suo professore non ha mai voluto assumere quel ruolo”, afferma un esponente storico del Likud, molto vicino a Netanyahu. A 37 anni Bennett aveva assunto la guida del consiglio di Yesha, l’organismo che difende presso le autorità statali le colonie della Cisgiordania. Questo gli ha permesso di mostrarsi apertamente razzista quando i suoi interlocutori mettevano alla prova il suo sangue freddo.
Durante un dibattito televisivo, nel settembre 2010, il deputato arabo-israeliano Ahmad Tibi l’ha definito “colonialista” e “usurpatore”, per poi sentirsi rispondere: “Voi arabi vi arrampicavate ancora sugli alberi quando esisteva già uno stato ebraico”. Per Tibi non ci sono dubbi: “È uno degli uomini di destra più estremisti d’Israele. Ma cerca di nasconderlo per ambizione. I suoi partner centristi oggi desiderano a tal punto liberarsi di Netanyahu che sono disposti a riabilitare Bennett”.
È dal 2012, sette anni prima di Netanyahu, che Bennett propone un piano di annessione di una parte della Cisgiordania, pur senza aver mai tradotto questa dichiarazione di principio in una proposta di legge. Quando nel 2013 è entrato in parlamento alla testa del partito storico del sionismo religioso, La casa ebraica, l’essenziale per lui era altrove. Sposato con una donna laica, residente a Raanana, una periferia ricca di Tel Aviv, e non nelle colonie, Naftali Bennett desiderava incarnare un rinnovamento “modernista” del movimento.
Contro la vecchia guardia
Accanto alla sua partner di sempre, Ayelet Shaked, ha lottato contro una vecchia guardia che esitava a mettersi contro Netanyahu, mostrandosi poco interessato ai consigli dei rabbini, e con l’ambizione d’incarnare una sintesi per questo elettorato molto diversificato, che rappresenta meno dell’11 per cento degli israeliani, ed è diviso tra una “bolla” tradizionalista, una gioventù che si ritiene integrata nel paese, religiosi intimoriti dalle derive della società laica ed ebrei che frequentano poco la sinagoga.
Il suo primo gesto politico è stato stringere un “patto tra fratelli” con il centrista Yair Lapid, nel 2013, per fare irruzione con la forza nel governo di Netanyahu. Nominato ministro dell’istruzione nel 2015, Bennett ha creato scompiglio cancellando dai programmi un romanzo di Dorit Rabinyan, che racconta una storia d’amore tra un’ebrea e un palestinese, ma per lo più ha evitato conflitti.
La rottura del “figliol prodigo” con Netanyahu si è consumata dopo le elezioni del maggio 2020, quando, da ministro della difesa, Bennett ha scoperto di essere stato messo ai margini alla vigilia della formazione di un nuovo governo sostenuto dal centrista Benny Gantz. La crisi del covid-19 gli ha dato la possibilità di tornare alla ribalta, superando le divisioni di parte. Il suo slogan è risuonato in tutto il paese: “Tutto quello che non riguarda il covid-19 non è importante”.
Alle urne, tuttavia, resta un peso leggero. “Bennett non ha mai avuto il sostegno dei laici e non sarà mai legittimato dal centro”, prevede l’esperto del Likud. La sua “famiglia” sionista religiosa continua a dividersi tra il Likud e piccole formazioni radicali. Tra gli stessi coloni Bennett suscita più di un dubbio.
Il presidente del consiglio regionale della valle del Giordano, David Elhayani, ammette di non sapere se Bennett sia uno dei loro. Ma gli concede il merito di non essersi mai pronunciato a favore di uno stato palestinese, al contrario di quanto ha fatto Netanyahu nel 2009. Scommette anche che il suo governo non si opporrà a un processo che superi le differenze politiche: “Continueremo a costruire nelle colonie, e lo stato svilupperà meglio le infrastrutture stradali e le reti elettriche e idriche in Cisgiordania”.
Bennett prende nota, sperando in una ricomposizione della destra. “La vita politica non è più un affare di partiti, ma di persone. Dopo Netanyahu, il Likud può dividersi in due, tre o quattro formazioni: niente unisce i suoi dirigenti, tranne la speranza di sostituire Bibi”, secondo Jeremy Saltan, un collaboratore di Bennett della prima ora. Ma è necessario che questo governo tenga, e che Bennett faccia accettare alla destra religiosa la sua stessa rottura.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è uscito sul quotidiano francese Le Monde.
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