Questo articolo è stato pubblicato il 9 ottobre 2015 sul numero 1123 di Internazionale.
“La velocità è dio e il tempo è il demonio”. Lo ha detto David Hancock, capo della divisione computer portatili della Hitachi. Nella realtà, la vita accelera fino a far quasi sparire il tempo: “presto” è sempre troppo tardi, bisogna fare tutto adesso, immediatamente. Fare una pausa, rimandare, fermarsi, rallentare vuol dire perdere un’opportunità e dare un vantaggio alla concorrenza. La velocità è diventata la misura del successo: processori più veloci, computer più veloci, reti più veloci, connessioni più veloci, notizie più veloci, comunicazioni più veloci, transazioni più veloci, scambi più veloci, consegne più veloci, menti più veloci, bambini più veloci. Perché siamo così ossessionati dalla velocità?
Il culto della velocità è un fenomeno moderno. Nel Manifesto del futurismo del 1909, Filippo Tommaso Marinetti annunciava: “Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova; la bellezza della velocità”. Questa venerazione rifletteva il profondo cambiamento di valori culturali portato dalla modernità e dalla modernizzazione. All’inizio del ventesimo secolo Frederick Winslow Taylor portò il cronometro in fabbrica, dando inizio a quella cultura della sorveglianza che Charlie Chaplin descrisse in modo memorabile in Tempi moderni. Allora come oggi, la misura dell’efficienza era data dalla capacità di massimizzare e velocizzare la produzione attraverso la programmazione del comportamento umano.
Con il passaggio dalle tecnologie meccaniche a quelle elettroniche la velocità aumentò moltissimo. Invenzioni come il telegrafo e il telefono liberarono la comunicazione dalle costrizioni imposte dai mezzi di trasporto. Prima i messaggi viaggiavano alla stessa velocità degli uomini, dei cavalli, dei treni e delle navi. Ora le parole, i suoni, le informazioni e le immagini riuscivano a percorrere enormi distanze ad altissima velocità. Le reti di trasporto che poi sono diventate la spina dorsale delle reti per la comunicazione furono sviluppate dalle compagnie ferroviarie e navali nella seconda metà dell’ottocento: le fondamenta dell’infrastruttura materiale delle reti digitali nordamericane di oggi sono state gettate dal 1858 al 1869, con la posa dei cavi transatlantici e il completamento della ferrovia transcontinentale.
Facciamo un salto avanti di cent’anni. Nella seconda metà del novecento le tecnologie informatiche, delle comunicazioni e di rete si sono molto evolute, e la velocità di trasmissione è aumentata vertiginosamente. Ma non sono solo i dati e le informazioni a spostarsi più rapidamente. La legge di Moore, secondo cui la velocità dei processori dei computer raddoppia ogni due anni, oggi sembra applicarsi alla vita stessa. Connessi ventiquattr’ore al giorno, sette giorni su sette e 365 giorni l’anno, ci affanniamo per cercare di tenere il passo, ma restiamo sempre più indietro. Più andiamo veloci, meno tempo abbiamo. La vita accelera, lo stress aumenta e l’ansia passa dai manager ai lavoratori, dai genitori ai figli.
Le tecnologie che avrebbero dovuto farci risparmiare tempo non ci lasciano neanche un minuto per noi
C’è un paradosso di fondo in questi sviluppi. Con l’emergere dei computer e di altre tecnologie digitali, tra la fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni settanta, molti analisti predissero un’era in cui avremmo tutti fatto parte di un unico villaggio globale: finalmente liberati dal fardello del lavoro, avremmo avuto molto più tempo da dedicare ai nostri interessi. Non erano solo pochi romantici idealisti a pensarla così, ma anche serissimi scienziati e politici. Nel 1956 Richard Nixon immaginò una settimana lavorativa di quattro giorni, e meno di dieci anni dopo una sottocommissione del senato ascoltò la testimonianza di un esperto che diceva che nel 2000 gli statunitensi avrebbero lavorato solo 14 ore a settimana.
Ovviamente non è andata così. Contrariamente alle aspettative, le tecnologie che avrebbero dovuto liberarci ci schiavizzano e quelle che avrebbero dovuto farci risparmiare tempo non ci lasciano neanche un minuto per noi. La famosa massima di Henry Ford – otto ore di lavoro, otto ore di tempo libero e otto ore di riposo – sembra ormai il curioso ricordo di un’epoca passata. A livello sia individuale sia collettivo, questi sviluppi riflettono un cambiamento fondamentale del valore sociale del tempo libero. Durante l’epoca che Thorstein Veblen descriveva con grande efficacia in La teoria della classe agiata (1899), lo status sociale di una persona dipendeva da quanto poco lavorava; oggi è vero il contrario. Chi non è connesso tutto il tempo non conta niente. Chi decide coscientemente di scollegarsi per risposare, per giocare o magari anche solo per non fare niente, diventa un fannullone di cui si può fare a meno.
L’impatto della velocità è evidente soprattutto nel mondo della finanza. A partire dagli anni sessanta le tecnologie informatiche e dei mezzi di comunicazione e d’informazione hanno dato origine a una nuova forma di capitalismo. Il capitalismo finanziario si fonda su un cambiamento radicale del modo in cui si calcola il valore economico, che non dipende più dalla relazione di titoli monetari e finanziari con materie prime, prodotti o asset reali come scorte, fabbriche o immobili, ma piuttosto dal loro rapporto con altri titoli finanziari come valute, opzioni, futures, derivati, swap, obbligazioni ipotecarie, bitcoin e un’infinità di altre cosiddette innovazioni finanziarie.
Grazie ai computer e alle reti ad alta velocità, più del 70 per cento delle transazioni viene eseguito da algoritmi in pochi nanosecondi. La funzione principale dei mercati finanziari, dunque, non è più quella di garantire il capitale necessario per mandare avanti fabbriche e imprese. L’economia virtuale di Wall street si è svincolata dall’economia reale. Il valore è determinato da differenze di prezzo infinitesimali che gli esseri umani non sono in grado di riconoscere abbastanza velocemente per eseguire delle transazioni: gli algoritmi possono programmare altri algoritmi di negoziazione in grado di adeguarsi all’istante senza alcun intervento umano.
Mentre l’importanza di transazioni finanziarie veloci e sostanziose è ampiamente riconosciuta, le sue implicazioni politiche non sono state ancora comprese completamente. Il divario di ricchezza di cui si sente tanto parlare, in concreto è un divario di velocità.
Negli ultimi cinquant’anni sono emerse due economie che si muovono a velocità diverse. In una si crea ricchezza vendendo manodopera o beni, nell’altra scambiando titoli di altri titoli. Gli asset virtuali assumono valori diversi a una velocità molto superiore a quella degli asset reali. Un operaio può produrre solo un certo numero di motociclette, un insegnante può fare lezione solo a un certo numero di alunni, un medico può visitare solo un certo numero di pazienti al giorno. Nei mercati ad alta velocità, invece, si vincono o si perdono miliardi di dollari in un miliardesimo di secondo. In questo nuovo mondo, la ricchezza genera ricchezza con una rapidità senza precedenti. Non importa quanti nuovi posti di lavoro si creano nell’economia reale: il divario di ricchezza creato dal divario di velocità non sarà mai colmato. Anzi, continuerà ad allargarsi sempre più velocemente finché non cambieranno i valori di riferimento.
Uno dei valori fondamentali da ripensare è la crescita, che non è sempre stata la base per misurare il successo economico. L’uso del prodotto nazionale lordo e del prodotto interno lordo per valutare l’andamento economico di un paese è in buona parte un effetto della guerra fredda. Siccome il fronte di guerra tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica si era allargato all’economia, la questione centrale era quale sistema, tra il capitalismo e il comunismo, fosse in grado di produrre più beni a una velocità superiore. Poi la guerra fredda è finita, ma l’attenzione al tasso di crescita non è scesa. Nel 2012 Jared Bernstein, che era stato consigliere economico del vicepresidente Joseph Biden nella prima amministrazione Obama, concludeva così un editoriale sul New York Times: “La prima cosa da fare è continuare a premere l’acceleratore su quelle misure per la crescita che rafforzano la domanda a breve termine”.
Ci sono solo tre modi in cui i mercati possono espandersi e continuare a far crescere l’economia: nello spazio (si costruiscono nuove fabbriche e si aprono nuovi negozi in nuove località), attraverso la differenziazione (si crea una varietà infinita di nuovi prodotti da far comprare ai consumatori) e nel tempo (si accelera il ciclo di vita di un prodotto nel mercato). Quando l’espansione nello spazio e la varietà di produzione arrivano al limite, la strategia più efficiente ed efficace per favorire la crescita è accelerare il ricambio dei prodotti. In campo alimentare, nella moda, sui mercati, il tempo è diventato denaro ben al di là di quanto aveva immaginato Benjamin Franklin. Le tanto decantate virtù dell’innovazione sono solo l’ultimo esempio della “distruzione creatrice” teorizzata da Joseph Schumpeter, che invitava a sostenere l’economia accelerando l’obsolescenza. Fuori il vecchio e dentro il nuovo, e prima è meglio è.
L’ossessione per la rapidità oggi rasenta l’assurdo. Nel mondo degli scambi finanziari ad alta velocità, un investitore a Chicago non può più operare sui mercati di New York per via dei nanosecondi aggiuntivi che gli servirebbero a trasmettere gli ordini di acquisto e vendita tramite reti mai abbastanza veloci. Anziché rendere irrilevante lo spazio fisico, la velocità ha reso la prossimità sempre più importante. Le società finanziarie, secondo una prassi chiamata co-location, costrui-scono delle sedi per i loro server il più vicino possibile ai server dei mercati su cui operano.
Ma la velocità ha dei limiti. Man mano che l’accelerazione aumenta, le persone, le società, le economie e l’ambiente si avvicinano al baratro. Siamo stati spinti con l’inganno a idolatrare la velocità da un sistema economico che crea il desiderio dove non ce n’è bisogno.
Il mondo che la velocità continua a costruire è insostenibile. Contrariamente a quanto dice Thomas L. Friedman, e cioè che oggi il capitalismo globale ad alta velocità crea un mondo piatto dagli orizzonti illimitati, il mondo è rimasto sferico, e dunque impone delle restrizioni. Se la Terra ha dei limiti, non può più esserci espansione senza contrazione, e non può esserci crescita senza redistribuzione. Quando si superano i limiti, anche le reti che sostengono la vita delle persone sono a rischio.
Valori distorti
Per capire perché ci stiamo avvicinando al punto critico, dobbiamo adottare un approccio di sistema. Il capitalismo finanziario è l’esempio di un principio che vale per tutti i sistemi complessi. Ognuno di questi sistemi contiene il germe dalla sua distruzione. Nel caso degli Stati Uniti, le politiche di crescita che hanno permesso all’economia di prosperare per decenni oggi minacciano di farla crollare. Più in generale, i mercati ad alta velocità e ad alti volumi hanno creato una ricchezza senza precedenti per lo 0,01 per cento della popolazione, ma come hanno dimostrato la crisi finanziaria del 2008 e il flash crash del 2010, hanno anche reso l’economia globale molto più instabile.
Il problema non è solo trovare un rimedio tecnologico per i mercati truccati, come ha sostenuto Michael Lewis in Flash boys. Il problema è che l’intero sistema si fonda su valori ormai distorti – individualismo, utilità, produttività, concorrenza, consumo, velocità – e, come se non bastasse, ha represso una serie di valori che oggi bisogna ricominciare a coltivare: sostenibilità, comunità, cooperazione, generosità, pazienza, sottigliezza, riflessione, lentezza. Per evitare il tracollo psicologico, sociale, economico e anche ecologico, abbiamo bisogno di quella che Nietzsche opportunamente chiamava “trasvalutazione dei valori”.
Da insegnante, mi piacerebbe che questo processo cominciasse nelle scuole. Purtroppo, molti degli sviluppi che hanno cambiato il nostro sistema economico hanno trasformato anche il nostro sistema scolastico. Spesso mi chiedono che variazioni ho notato negli studenti e nell’istruzione superiore durante i miei quarant’anni d’insegnamento. Non è facile dare una risposta, ma i cambiamenti principali possono essere classificati sotto cinque voci: iperspecializzazione, quantificazione, distrazione, accelerazione e professionalizzazione.
Come ho già detto, molte tecnologie che sono state concepite per mettere in contatto e avvicinare le persone stanno creando profonde divisioni sociali, politiche ed economiche. Nei mezzi di comunicazione, la proliferazione delle testate ha portato a una sorta di personalizzazione di massa, che permette a singoli individui e a gruppi isolati di ricevere notizie tagliate su misura per loro e di rinchiudersi nelle loro torri d’avorio senza preoc-cuparsi di conoscere altri punti di vista. Questo fenomeno sta contagiando anche l’istruzione.
Dall’inizio degli anni settanta, l’istruzione superiore ha sofferto di una specializzazione sempre più esasperata e, di conseguenza, di un’eccessiva professionalizzazione. Si è così creata una cultura della competenza specialistica in cui gli studiosi, che sanno sempre di più su sempre meno cose, passano tutta la loro vita professionale a parlare con altri studiosi che s’interessano a cose simili e si preoccupano poco del mondo che li circonda. E la conseguenza è stata una frammentazione di discipline, dipartimenti e piani di studio.
Con internet ci sarebbe stata la possibilità di erodere queste barriere e di abbattere i muri, ma gli interessi particolari di amministratori ansiosi e professori baroni ancora legati a modi obsoleti di organizzare la conoscenza e di insegnare hanno vanificato questa prospettiva. Anziché allargare il campo della discussione, le tecnologie di rete ne hanno soprattutto ristretto i confini. Affrontare i problemi posti da un mondo sempre collegato richiederà una ristrutturazione radicale del sistema scolastico, a tutti i livelli.
La crescente preoccupazione per l’efficacia dell’istruzione primaria, secondaria e postsecondaria ha fatto concentrare l’attenzione di tutti sulla valutazione di studenti e insegnanti. Per gli amministratori, costantemente sotto pressione, il modo più rapido ed efficiente di fare queste valutazioni è stato adottare metodi quantitativi che si sono dimostrati molto efficaci nel mondo delle imprese. Misurare i flussi in entrata e in uscita e la capacità produttiva è diventato un metodo universalmente accettato per calcolare costi e benefici dell’istruzione. La valutazione quantitativa sarà anche efficace per alcune attività e materie, ma molti degli aspetti più importanti dell’istruzione non si possono quantificare. Quando si comincia a credere che ciò che non si può misurare non è reale, l’istruzione (e per estensione, la società) perde la sua anima.
I giovani di oggi non sono solo distratti: internet e i videogiochi gli stanno riconfigurando il cervello. I neuroscienziati hanno riscontrato differenze cerebrali evidenti tra gli adolescenti “dipendenti” e gli utenti “sani”. La dipendenza da internet è un’area su cui la ricerca scientifica ha appena cominciato a lavorare sul serio. L’epidemia di disturbo da deficit di attenzione è un’ulteriore dimostrazione degli effetti deleteri che ha un uso eccessivo degli strumenti di comunicazione digitali. Per aiutare i pazienti che hanno difficoltà a concentrarsi, molti medici prescrivono a cuor leggero il Ritalin, che è praticamente un’anfetamina, e gli studenti che restano alzati la notte per studiare lo prendono per avere un vantaggio sui loro colleghi.
Anziché resistere a queste pressioni, molti genitori le accentuano, programmando la vita dei loro figli fin dall’asilo in funzione del successo. Ma la vera conoscenza non si può programmare, e la creatività non si può affrettare: va coltivata lentamente e pazientemente. Come molti scienziati, scrittori e artisti ripetono da tempo, le idee più creative spesso vengono nei momenti di ozio.
Molti si lamentano del fatto che i giovani non leggono o non scrivono più come facevano una volta. Ma è un approccio sbagliato: probabilmente i giovani leggono e scrivono molto più che in passato. Il problema è come leggono e cosa scrivono. È ormai dimostrato che quando si è online ci si dedica a queste attività in modo diverso. Di nuovo, la variabile cruciale è la velocità. Il più delle volte, la lettura online sembra più un’elaborazione istantanea delle informazioni che una riflessione attenta e consapevole. I ricercatori hanno scoperto che la lettura dei contenuti web procede secondo un “modello a forma di F”: quando si scorre una pagina si leggono sempre meno parole su ogni riga man mano che si va avanti. Quando la velocità è essenziale, la brevità diventa una virtù, la complessità cede il passo alla semplicità e la profondità di significato si dissolve: email frammentate, tweet di 140 caratteri al massimo, blog sciatti e pieni di errori. Oscurità, ambiguità e incertezza, che sono la linfa vitale dell’arte, della letteratura e della filosofia, diventano questioni di decodifica.
Infine, la professionalizzazione. Vista l’impennata dei costi dell’università, oggi genitori, studenti e politici s’interrogano sull’utilità dell’istruzione superiore. L’università prepara gli studenti per il mondo del lavoro di domani? Quale laurea dà più sbocchi professionali? Gli amministratori delle università difendono il valore economico dell’istruzione superiore citando il maggiore potenziale di guadagno dei laureati. Ma il valore non si misura solo in termini economici, e l’attenzione a ciò che il mercato considera utile e pratico ha portato a un declino del valore percepito delle arti e degli studi umanistici, che oggi molti vedono come lussi superflui.
C’è un profondo equivoco su ciò che è pratico e ciò che non lo è, e anche una certa confusione tra il concetto di “pratico” e quello di “professionale”. Gli studi umanistici e letterari non sono mai stati così importanti come nel mondo globalizzato di oggi. L’istruzione focalizzata su scienza, tecnologia, ingegneria e matematica non basta: per sopravvivere – e magari anche per avere successo – nel ventunesimo secolo, bisogna studiare religione, filosofia, arte, lingue, letteratura e storia. I giovani devono imparare che la memoria non può essere affidata alle macchine, e che le soluzioni a breve termine per problemi a lungo termine non sono mai sufficienti. I professori hanno la responsabilità di insegnare agli studenti a pensare in modo critico e creativo ai valori che guidano la loro vita e modellano la società in generale.
Tutto questo non si può fare in fretta: ci vorrà il tempo che troppe persone oggi pensano di non avere.
L’accelerazione è insostenibile. Alla fine la velocità uccide. Il rallentamento necessario a rimandare e forse a evitare l’implosione dei sistemi collegati che tengono insieme le nostre vite non è solo il tempo che ci prendiamo per sentire il profumo delle rose o per stare con la famiglia, anche se queste cose sono importanti.
Nel lungo arco della storia, l’ossessione per la velocità è uno sviluppo recente, frutto di valori che sono diventati distruttivi. Non tutta la realtà è virtuale, e non è detto che chi è più veloce erediterà la Terra. I sistemi complessi non possono adattarsi all’infinito, e quando crollano lo fanno da un momento all’altro, spesso in modo inaspettato. Il tempo sta velocemente scadendo.
(Traduzione di Fabrizio Saulini)
Questo articolo è stato pubblicato il 9 ottobre 2015 sul numero 1123 di Internazionale. L’originale era uscito sulla Chronicle of Higher Education con il titolo Speed kills.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it