Questo articolo è stato pubblicato il 14 novembre 2014 nel numero 1077 di Internazionale.
Elena Ferrante è una scrittrice italiana nata a Napoli o nei dintorni. Sembra che sia stata sposata, potrebbe aver vissuto in Grecia e, a quanto pare, è una madre. O almeno così pensiamo. In un’era di autopromozione satura di Twitter, Ferrante è una sconosciuta che vuole rimanere tale.
Nel 1991, quando mancava poco alla pubblicazione del suo primo romanzo, L’amore molesto, che definì da subito il suo stile, Ferrante scrisse una lettera alla sua editrice dicendo che non avrebbe partecipato a nessuna attività di promozione: “Sono convinta che i libri, una volta che sono scritti, non hanno più bisogno dei loro autori”. L’anonimato avrebbe preservato “uno spazio di assoluta libertà creativa”, necessario perché le sue opere “mettono il dito in alcune ferite tuttora aperte”.
Quell’assoluta libertà creativa ha prodotto una serie di romanzi brillanti e coraggiosi (sei dei quali meravigliosamente tradotti in inglese da Ann Goldstein del New Yorker). Questi libri narrano i conflitti interiori di donne apparentemente realizzate che si trovano a fare i conti con la cruda violenza e la misogina in cui sono cresciute. Scosse da eventi sorprendenti, perdono la presa sulla realtà e s’imbarcano in imprese deliranti per guarire le vecchie ferite emotive.
La sua opera descrive esperienze domestiche – come un’incontenibile gelosia sessuale e altri atteggiamenti che sono causa di imbarazzo – di solito poco esplorate dalla narrativa, e questa è in parte la ragione per cui ha così tanto successo, soprattutto tra le donne (Zadie Smith, Mona Simpson e Jhumpa Lahiri sono sue fan).
La scrittura di Ferrante è caratterizzata da una potente intimità, come se i suoi personaggi, per parafrasare Ralph Waldo Emerson, fossero le lenti attraverso cui leggiamo i nostri pensieri. La scrittrice Claire Messud mi ha scritto per email: “Quando mi hai detto che ami il suo lavoro, per un attimo ho pensato: ‘Ma… Elena è mia amica! Nessuno può capire a pieno la mia relazione privata con lei, così intensa e autentica’. È strano – e raro – sentirsi proprietari di un libro, o di una scrittrice, in questo modo”.
L’ultimo progetto di Ferrante, la tetralogia cominciata con L’amica geniale, è una sorta di romanzo di formazione quasi-femminista, ma anche una storia dell’Italia della fine del novecento. Niente di simile è mai stato pubblicato. Nel Regno Unito e negli Stati Uniti è appena uscito il terzo volume, Storia di chi fugge e di chi resta, mentre in Italia è arrivata l’attesa conclusione, Storia della bambina perduta.
Ferrantefever
Ma se attraverso l’anonimato la scrittrice pensava di aiutare la gente a concentrarsi solo sui libri, sta succedendo esattamente l’opposto. La sua identità è il grande mistero della scena letteraria italiana, fonte di feroci speculazioni e di gossip. C’è pure un hashtag dedicato: #FerranteFever.
È difficile separare la scelta dell’anonimato dalla sua opera, soprattutto perché Ferrante sembra giocare consapevolmente con i confini di ciò che è “reale” e “inventato”. Come nei libri di Karl Ove Knausgård, i suoi romanzi esplorano l’oscura regione tra finzione e realtà. Alcuni punti in comune tra i personaggi e quello che sappiamo dell’autrice portano i critici a supporre che l’opera di Ferrante sia autobiografica. Per esempio, nei Giorni dell’abbandono Olga è una donna sposata che ha messo da parte il suo sogno di diventare scrittrice. In La figlia oscura Leda è una professoressa nata a Napoli che ha divorziato dal marito. Ma c’è una differenza decisiva tra Ferrante e Knaus-gård: i personaggi di Ferrante sono di fantasia, e lei nasconde i dettagli della sua vita privata dietro il velo dell’anonimato.
Il soggetto – quasi ossessivo – delle sue storie è il modo in cui le donne sono formate, distorte e a volte distrutte dall’ambiente sociale (e dagli uomini che le circondano). Dando voce a quello che ancora sembra impercettibile, Ferrante indaga le tensioni tra madre e figlia, il tira e molla di essere moglie o madre e voler mantenere una propria indipendenza. “[Mia madre] ha fatto del suo meglio per farmi capire che ero superflua nella sua vita. Non le piacevo, così come lei non piaceva a me. Trovavo il suo corpo repellente”, dice il personaggio di Elena Greco in L’amica geniale. Ma simili sentimenti hanno delle conseguenze.
Le sue protagoniste sono sempre inaffidabili. Si presentano come razionali e dirette, si rivelano poi (come tutti) piene di correnti nascoste, rabbie sommerse e contraddizioni. Il modo in cui Ferrante combina autocontrollo e abbandono è particolarmente brillante. Come ha detto la scrittrice Katie Kitamura: “La sua scrittura ha quel tipo di urgenza che è difficile simulare. Non è una questione di trama o di tensione narrativa, ma d’intensità dello scopo”.
Quello che porta tanti critici ad apprezzare la sua crudezza e la sua onestà (termini che applichiamo più ai memoir che ai romanzi, per natura disonesti) è il modo in cui la voce narrante tradisce una personalità capace di valutare le cose con lucidità ma, allo stesso tempo, sensibile fin quasi all’isteria ai segni e ai simboli che la circondano.
Lo scarafaggio interiore
In realtà, leggendo un libro di Ferrante ci si sente un po’ come se Kafka avesse scritto un romanzo in cui Gregor Samsa non diventa uno scarafaggio, ma è sempre consapevole di esserlo interiormente, e scorge ovunque metafore di questa sua profonda identità di insetto.
Come in Kafka, gli stati interiori dei personaggi di Ferrante risalgono in superficie in modi stravaganti. Sconvolte dalla vergogna, sommerse dal disgusto, le sue protagoniste sono spesso preda di visioni fantasmagoriche. Nel mondo narrativo di Elena Ferrante, le nostre paure e i nostri sogni abitano le stanze in cui ci muoviamo. E un segno distintivo della sua scrittura è la contrapposizione tra la constatazione e la metafora, tra l’iperrealismo e la distorsione allucinatoria. Non le interessa il semplice abbandono femminile, ma il modo in cui l’abbandono può sconvolgere una donna che si è considerata “forte” per tutta una vita.
Quello che più colpisce del romanzo I giorni dell’abbandono è il lucido ritratto di una donna che poco a poco perde di vista ogni immagine coerente di sé, pur rimanendo perfettamente riconoscibile agli occhi del lettore. Nella nebbia del loro pensiero isterico, le voci narranti dei libri di Ferrante arrivano a profonde verità sulla violenza dell’esistenza, sul rancore e il disordine della vita familiare, l’incombenza della gelosia sessuale e la duplicità dell’identità femminile, incasellata socialmente nei ruoli di madre o figlia, ma sempre selvaggia nel cuore.
Il sé sociale, nel mondo di Ferrante, è una patina che viene stesa per coprire i traumi o i desideri confusi che minacciano di diventare febbrili realtà. L’opera acquista così una qualità mitica, che può ricordare le poesie cariche d’immagini di Sylvia Plath. L’ambivalenza del ruolo di madre o di figlia non è un territorio del tutto inesplorato dalla letteratura, così come l’idea che le ferite delle donne siano inscritte nel loro corpo. Allora perché il pubblico ha accolto il lavoro di Ferrante come qualcosa di sorprendentemente nuovo? In parte perché sembra scrivere dell’esperienza femminile senza cercare alcuna forma di redenzione, liberandosi così degli assunti superficiali.
Leggendo Ferrante, sono diventata consapevole che spesso divido inconsciamente i personaggi femminili (e forse anche le scrittrici) tra quelli che mostrano le loro ferite e quelli che non lo fanno. È insolito incontrare un personaggio che possiede un grande autocontrollo ma allo stesso tempo rivela di non averne affatto, al punto di perdere la testa. Un dualismo che quasi tutti noi, prima o poi, sperimentiamo: è il segno distintivo di una crisi emotiva.
La serie dell’Amica geniale è un’evoluzione nell’opera dell’autrice. Nel loro insieme i quattro romanzi coprono un periodo di cinquant’anni, raccontando l’amicizia tra Lila ed Elena. Una voluminosa storia del cammino di Elena, scrittrice, verso la maturità, ma anche un romanzo a sfondo sociale che si confronta in modo esplicito con la storia e la politica italiana. Questi romanzi sono ambientati in un quartiere caotico e degradato dove regna la camorra – incarnata nei dispotici fratelli Solara – e dove durante le liti familiari ci si può aspettare di tutto, perfino che un padre più o meno tranquillo come quello di Elena picchi regolarmente la moglie e i figli.
A dispetto di un simile contesto, le ragazze sembrano destinate a distinguersi per il loro talento. A scuola sono tra le migliori. Elena è una brava ragazza, coscienziosa e accorta, mentre Lila stringe sempre gli occhi davanti a quello che non le piace, ed è pronta a lanciare pietre contro i ragazzi che le tormentano. Le insegnanti riconoscono il talento di Lila, che ha imparato a leggere da sola. Ma il semplice talento non basta. Elena, che ha una situazione familiare migliore, continua a studiare, mentre Lila finisce a lavorare.
Le loro vite si separano. Lila diventa minacciosamente bella, mentre Elena rimane semplicemente carina. Lila si sposa mentre Elena studia. A un certo punto Elena si ritrova a imitare Lila che però, incinta e infelice, la supplica di continuare gli studi, di rimanere la sua “amica geniale”. Le due ragazze sono quasi l’una l’opposto dell’altra e per Elena questo può essere deleterio: comincia presto a definirsi attraverso l’assenza in lei delle qualità di Lila. Entrambe sono appassionate lettrici. Decidono che scriveranno un romanzo insieme. Ma poi Lila ne scrive uno da sola, La fata blu, in cui Elena riconosce i segni distintivi del genio. Lì c’è la voce che Elena cercherà di modulare per il resto della sua vita, combattendo per diventare una scrittrice e farsi strada nel mondo dell’alta borghesia.
I romanzi della saga napoletana sono una storia di classe almeno quanto sono una storia di genere. Nel secondo e nel terzo volume, Ferrante offre un ritratto limpido e preciso del persistente (e irrazionale) senso di inadeguatezza che perseguita chi parte da zero. Sono entrambi romanzi altamente realisti e sorprendentemente intimi. Sollevano questioni affascinanti sulla creatività femminile: ha in qualche modo una natura sociale? Cosa significa fare propria la voce di un’altra? È un atto di censura, un plagio o un modo di onorare un’amica?
Donne che si cancellano
Pur essendo imprigionata nel suo terribile matrimonio, Lila è un vulcano di creatività che ha un effetto trascinante anche sulla più tranquilla Elena. I sottili slittamenti d’affetto, il crescendo di risentimento, la competizione fisica e intellettuale descritti in questi romanzi ritraggono l’amicizia femminile con una nitidezza che non si era mai vista.
Ma qui l’amicizia è anche molto metaforica: il libro si apre con un’epigrafe sul diavolo e l’uomo tratta dal Faust di Goethe. Nel libro non è mai in questione chi sia il diavolo e chi l’uomo che cerca di raggiungere il suo livello. Ma Lila è tanto un nume tutelare quanto un diavolo. Questa è una preoccupazione centrale per Ferrante: il modo in cui il genio femminile è demonizzato dalla cultura e il modo in cui, se privato di sbocco, rischia di diventare diabolico.
Nel corso del terzo e del quarto volume, l’amicizia delle due ragazze percorre una serie di tornanti e giunge a vari punti di svolta. E poi Ferrante chiude il cerchio, tornando al punto di partenza, con le due donne che allevano i rispettivi figli l’una a fianco all’altra. Chi è l’amica geniale di chi?
In una scena cruciale di Storia del nuovo cognome, Lila coinvolge Elena per sfigurare una bellissima foto che la ritrae e che dovrà essere appesa nel negozio di scarpe dei fratelli Solara. La foto è la testimonianza di un patto tra suo marito, Stefano, e i Solara: la sua presenza nel negozio degli uomini che Lila odia è una sorta di emblema della prostituzione. Così la sfregia.
Queste donne rischiano la totale cancellazione ed è solo grazie all’arte e ai libri se riescono a elevarsi al di sopra di loro stesse. Scene simili ricorrono anche altrove nel lavoro di Ferrante, così come la sensazione provata di tanto in tanto da Lila di “dissolversi ai propri margini”. Essere una donna significa essere costantemente permeata da ciò che ti circonda. In che misura l’attenzione ossessiva di Ferrante nel proteggere la sua vita privata influisce sul modo in cui leggiamo i suoi romanzi?
In un certo senso l’autrice si è cancellata, proprio come fa Lila, in modo da lasciar emergere dal suo sé solo la scrittrice. La relazione che ci lega a lei è come quella che stringiamo con il personaggio di un romanzo. Pensiamo di conoscerla, ma conosciamo solo le sue frasi, i suoi schemi mentali, i sentieri battuti dalla sua immaginazione. La sua traduttrice, Ann Goldstein, ha detto: “Comincio a sentire che in qualche modo la sua persona è molto presente nei suoi libri, e così non ho bisogno di conoscerla dal vivo, la sua mente appare in modo così lampante”.
Chiunque sia Ferrante, nei romanzi è libera di inventare, fabbricare, giocare, rivisitare vecchie ferite, di non essere per forza bella. La scrittura può creare uno spazio in cui esprimere quanto di primitivo, contraddittorio e selvaggio abbiamo dentro, e renderlo reale. Forse non c’è altra consolazione, eccetto l’arte stessa, ma quale piacere per chi ha l’opportunità di leggerla. La stessa Ferrante in una delle sue lettere ha affermato che il mistero della letteratura è in qualche modo la sua differenza dalla persona che l’ha scritta, l’imperscrutabile cancellazione dell’io che porta alla sua creazione.
Questo articolo è stato pubblicato il 14 novembre 2014 nel numero 1077 di Internazionale.
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