Questo articolo è stato pubblicato l’8 gennaio 2021 nel numero 1391 di Internazionale.

Immaginiamo per un attimo la finale olimpica di una corsa di fondo. Sulla linea di partenza sono in dodici, tra cui quattro cinesi e quattro statunitensi, ad attendere il colpo di pistola sotto lo sguardo delle telecamere di tutto il mondo. Dieci di loro sono già molto noti per i titoli vinti, i record, le vittorie. Gli ultimi due invece sembrano usciti dal nulla. Non solo non hanno mai vinto niente, ma non hanno neanche corso una finale. Si dice che siano dotati, promettenti, ma potranno arrivare fino in fondo, visto che finora hanno corso solo su distanze inferiori? Eppure, alla fine di una gara corsa a velocità folle, sono proprio loro due a tagliare il traguardo per primi, quasi affiancati.

La storia del vaccino contro il covid-19 non è ancora finita. Per continuare con la metafora atletica, somiglia più a una gara di decathlon che ai cinquemila metri. Perché una volta messi a punto, questi farmaci dovranno essere approvati dalle autorità sanitarie, prodotti, stoccati, distribuiti e somministrati. Altre prove in cui i due potrebbero ancora inciampare o accusare dei ritardi. In ogni modo il risultato è sensazionale: i primi due vaccini a superare con successo i test clinici – quelli della coppia Pfizer-Biontech e della Moderna – con un’efficacia dimostrata di circa il 95 per cento, si basano sulla tecnologia dell’Rna messaggero (mRna).

In teoria è molto semplice. Per realizzare un vaccino, di solito i ricercatori sviluppano un antigene che sottopongono al sistema immunitario perché produca degli anticorpi adatti. Ci sono diversi metodi: usare il virus intero, disattivato o indebolito, prenderne solo un frammento o combinarlo con un virus già conosciuto. Il metodo usato in questo caso invece lascia che siano le cellule a fare il lavoro: consiste nell’iniettare nell’organismo non l’antigene ma le sue istruzioni, il suo codice genetico sotto forma di Rna (acido ribonucleico).

Secondo gli esperti questa molecola ha un grande futuro. Eppure è rimasta a lungo confinata nei laboratori di ricerca, lontano dagli ospedali e dalle farmacie. “È una storia folle”, dice Bruno Picard del Centro nazionale per la ricerca scientifica all’istituto di oncologia e immunologia di Nantes-Angers, in Francia. “Nessun prodotto basato sull’mRna aveva mai superato la fase due di uno studio clinico, né in oncologia né in immunologia né tanto meno in virologia. E la prima volta che ha affrontato la fase tre ha avuto subito successo! Io sostenevo da anni il potenziale di questa tecnologia, ma non potevo immaginare una cosa simile. Certo i dati non sono sempre pubblicati su articoli scientifici degni di questo nome e tutto è andato così velocemente che non abbiamo ancora riscontri, ci vorrà qualche mese per vederci chiaro. Ma è un’impresa straordinaria”.

Il cugino del dna
Se volessimo dare un volto a questo vaccino, avrebbe i tratti marcati e il sorriso schietto di Katalin Karikó . Schietto e stanco, a giudicare dalla videochiamata che abbiamo fatto con lei mentre era isolata nella sua casa vicino a Filadelfia, in Pennsylvania. Karikó è nata 65 anni fa nella cittadina di Kisujszallas, in Ungheria, dove suo padre faceva il macellaio. Ben presto si è appassionata alla scienza e ha scelto l’arido terreno della biochimica, in particolare quello dell’Rna. A prima vista non c’è molto di seducente in questo polimero composto da una successione di nucleotidi A, C, G e U, simile al nostro alfabeto genetico. Mentre in ogni cellula il suo cugino Dna conserva il codice della vita, con il quale costruisce la nostra discendenza, l’Rna sembra limitarsi ad assicurare il trasporto delle informazioni, in particolare per fabbricare le proteine. In altre parole l’mRna è una sorta di copista.

Ma la realtà è molto diversa. L’Rna svolge numerosi compiti, catalitici, strutturali, informativi. Karikó sognava di svelarne i segreti, un compito difficile. Nel Centro di ricerca biologica di Szeged, dove ha cominciato la sua carriera a 23 anni, “mancava tutto”, racconta la scienziata. Così nel 1985 ha lasciato l’Ungheria con il marito e la figlia di due anni. “Siamo partiti senza nulla”, ricorda la donna. “Avevamo un po’ di denaro raccolto dalla nostra famiglia. Ma all’epoca non si poteva far uscire contante dal paese, così lo abbiamo nascosto nell’orsetto di peluche di nostra figlia”.

Dopo due anni alla Temple university di Filadelfia, Karikó è stata assunta dalla celebre università della Pennsylvania. Fondata nel 1740, la UPenn è un’istituzione, una delle otto università che costituiscono la celebre Ivy league, il gotha accademico del paese. È qui, nel dipartimento di cardiologia, che Karikó ha scoperto un articolo scritto da Philip Felgner dell’azienda biotecnologica californiana Vicalne e da alcuni ricercatori del Wisconsin. L’équipe aveva iniettato del Dna e dell’Rna nella coscia di un topo e aveva rilevato la sintesi della proteina corrispondente. “Avevamo scelto di dedicarci al Dna”, ricorda l’immunologo, oggi direttore del centro di ricerca sui vaccini dell’università della California a Irvine. “Erano i tempi della terapia genica, si diceva che avrebbe potuto correggere le anomalie genetiche. Abbiamo anche lavorato su un vaccino contro l’influenza con il sostegno del laboratorio Merck. Ma non siamo arrivati a niente. Ho comunque la soddisfazione di aver contribuito nel mio piccolo a un’innovazione che cambierà il mondo”.

Vaccinazione del personale sanitario in un ospedale. Filadelfia, Stati Uniti, 16 dicembre 2020. (Hannah Yoon, The New York Times/Contrasto)

La terapia genica non attirava solo la California. La UPenn voleva usare il Dna per trasformare le cellule e combattere la fibrosi cistica e il cancro. Anche Karikó voleva curare la fibrosi cistica, ma usando l’Rna. “Aveva capito che usando il dna e alterando quindi il genoma delle cellule, c’era il rischio di introdurre delle modifiche nocive, che potevano moltiplicarsi”, ricorda David Langer, che da giovane ha lavorato con Karikó e oggi dirige il dipartimento di neurochirurgia dell’ospedale Lenox Hill di New York. “Kati non è solo una scienziata geniale, è anche una donna di grande rettitudine morale e franchezza. Così si è opposta a quell’idea”.

La scelta le è costata cara. Nel 1995 è stata esclusa dagli insegnanti di ruolo e retrocessa a semplice ricercatrice. È stata addirittura allontanata dal reparto di cardiologia. “Dicevano che non produceva abbastanza risultati”, racconta Langer. “Era ridicolo, inoltre ero ancora più dispiaciuto perché Kati sognava di iscrivere sua figlia Susan Francia alla UPenn. La ragazza era brillante ma in famiglia non avevano il denaro necessario. L’unica possibilità era lo sconto sulla retta accademica concesso ai figli del personale. Mio padre conosceva il direttore del reparto di neurochirurgia. Gli ho raccontato chi era Kati e di chi ci saremmo privati. Così la ha accolta”.

Karikó era indecisa. Girare i tacchi o accettare il misero stipendio da ricercatrice e l’ufficio nel seminterrato? “Mi piaceva quello che facevo. Mio marito mi ha sempre detto che in laboratorio non lavoravo davvero perché mi divertivo, ed è vero, così sono rimasta lì”.

Questo splendido isolamento è finito un giorno del 1998 davanti a una fotocopiatrice. Karikó reinscena il dialogo:
“Buongiorno, sono Kati, lavoro sull’Rna”.
“Io sono Drew, sto sviluppando un vaccino contro l’aids con il Dna. O almeno ci provo, ma non funziona. Pensi che potresti fare dell’Rna per il mio vaccino?”.
Così tra il giovane immunologo Drew Weissman, appena uscito dal famoso laboratorio di Anthony Fauci ai National institutes of health (Nih), e la ricercatrice coraggiosa ed emarginata è cominciata una collaborazione che continua ancora oggi. “Eravamo in due edifici separati, ma ci scambiavamo informazioni di continuo”, ricorda Karikó . Del resto non avevano molta scelta. “Nessuno s’interessava a quello che facevamo. Ci prendevano per pazzi, sia nell’università sia fuori. All’Nih ci ascoltavano educatamente ma non ci credevano. Oggi quelle stesse persone mi chiamano due volte alla settimana, ma all’epoca era impossibile avere una borsa di studio. I finanziamenti li ho ottenuti grazie ad altre ricerche”.

Il lavoro era complesso, perché l’Rna pone grossi problemi. Il più grande è la fastidiosa tendenza a far andare nel panico il sistema immunitario. Infatti il corpo, convinto di dover combattere un intruso, un batterio o un virus, invia le sue truppe di difesa provocando gravi infiammazioni. In laboratorio i topi ci rimettevano la salute e spesso la vita. “Abbiamo deciso di passare in rassegna le 140 modifiche note delle strutture dell’Rna (aggiunta di gruppi chimici, cambiamento delle basi, degli zuccheri, della struttura) e ne abbiamo testate venti”, racconta Weissman. “Due si sono rivelate veramente efficaci”. Cambiamenti minimi, che ricoprono l’Rna di un mantello di invisibilità. La scoperta, pubblicata nel 2005, permise a Karikó di uscire dal suo seminterrato, ma non dal suo purgatorio. “Mi hanno detto che nella storia dell’università un ricercatore retrocesso non era mai stato accettato come insegnante titolare”.

Una volta eliminato il principale ostacolo, il sogno dei due ricercatori di usare l’Rna come base e lasciare alle cellule il compito di fabbricare da sole le proteine terapeutiche ha cominciato a prendere forma. Nel 2008 i due scienziati hanno scoperto che l’Rna modificato produce fino a dieci volte più proteine di un Rna naturale. “Non dimenticherò mai quella pubblicazione. Era agosto ed ero alle olimpiadi di Pechino con mia figlia, che faceva parte della squadra di canottaggio degli Stati Uniti. E alla fine della giornata, in albergo, controllavo l’email”. La figlia, Susan Francia, laureata in criminologia all’università della Pennsylvania, avrebbe vinto l’oro olimpico, e la madre sarebbe tornata a casa con un successo in più. Nel frattempo le pubblicazioni si sono susseguite. Nel 2011 Karikó e Weissman hanno purificato ulteriormente il loro Rna per evitare qualunque reazione immunitaria incontrollata. Nel 2012 sono riusciti a far produrre ai topi e alle scimmie l’ormone Epo per curarli dall’anemia.

Tuttavia restava un ostacolo importante: anche se l’Rna può ingannare il sistema immunitario, rimane il bersaglio di enzimi specializzati onnipresenti nei nostri organismi. I ricercatori hanno deciso quindi di rivestire la loro preziosa molecola di nanoparticelle lipidiche, delle sfere elettricamente cariche con una doppia pellicola di grassi che si dissolvono una volta entrate nelle cellule. Nel 2015 hanno pubblicato il loro risultato.

La costruzione teorica dei due ricercatori era riuscita. Le promesse di applicazioni terapeutiche dell’Rna messaggero hanno cominciato ad attirare le aziende biotecnologiche, in particolare negli Stati Uniti e in Germania. È nata una comunità di ricercatori con i suoi leader e il suo congresso, l’International mRna health conference. Alla prima edizione, che si è svolta a Tubinga nel 2013, hanno partecipato 160 persone. Nel 2019 a Berlino erano più di seicento.

Un ottimo investimento
Questa nuova era è cominciata nel 2010. Derrick Rossi, un canadese che insegna all’università di Harvard, ha scoperto il modo per fabbricare senza rischi delle cellule staminali pluripotenti, capaci poi di differenziarsi nell’organismo per combattere diverse patologie. Le cellule staminali erano di moda e il suo articolo ha attirato l’attenzione. La rivista Time lo ha citato tra le dieci scoperte scientifiche dell’anno. “Karikó merita il premio Nobel, lo dico da tempo, ma senza il nostro lavoro chissà per quanto tempo sarebbe passata inosservata”, dice Rossi, che ha fiutato subito l’opportunità e ha contattato il suo collega di Harvard Robert Langer, star dell’ingegneria biomedica e imprenditore esperto, e l’uomo d’affari Noubar Afeyan. Gli ha parlato delle cellule staminali ma anche delle proteine terapeutiche, capaci per esempio di colpire le cellule tumorali. “Non pensavamo ai vaccini. Non interessavano a nessuno, perché non sono redditizi. Ci si vaccina una o due volte ed è finita lì”.

Rossi ha proposto un nome per la nuova azienda: Moderna, per “modified Rna”, cioè l’innovazione pubblicata nel 2005 dai ricercatori della UPenn. Il problema però era che questo elemento fondamentale era coperto da un brevetto registrato dall’università. Karikó e Weiss­man erano citati come autori.

Nel 2010 i due scienziati hanno proposto all’istituto di ricomprarne la proprietà, ma per loro era impossibile raccogliere i 300mila dollari necessari. È stata un’azienda del Wisconsin, la CellScript, a comprare i diritti. Il suo proprietario Gary Dahl ha capito di aver fatto un grande investimento e che ben presto tutti avrebbero voluto le sue licenze. L’équipe di Moderna ha cercato di acquisirne i diritti, ma le trattative sono fallite.

Un centro per la vaccinazione. Stoc- carda, Germania, 10 dicembre 2020. (Marijan Murat, Picture Alliance/Getty Images)

La Moderna non ha solo cercato di ottenere la tecnologia sviluppata dalla coppia di Filadelfia, ma anche di assicurarsi le loro prestazioni, in particolare quelle di Karikó . Stanca di essere trattata male dalla UPenn, la ricercatrice aveva deciso di andarsene. Nel 2013 ha incontrato i dirigenti della Moderna nel Massachusetts. “Alla fine del colloquio mi hanno spiegato che anche se mi assumevano, potevano licenziarmi dopo due giorni. E che per due anni avrei dovuto rinunciare a lavorare sull’mRna. Avevo voglia di rimanere negli Stati Uniti, ma non a qualunque condizione”.

Così ha rivolto la sua attenzione verso l’Europa, e in particolare verso la Germania, dove due start-up le hanno fatto delle proposte. La prima si chiamava Curevac. Fondata nel 2000 dal tedesco Ingmar Hoerr e dal francese Steve Pascolo nell’incubatore della prestigiosa università di Tubinga, tra il 2003 e il 2006 l’azienda aveva svolto il primo test clinico di un “vaccino antitumorale” basato sull’mRna. “I medici e i professori universitari non ci prendevano sul serio”, ricorda Steve Pascolo, che oggi dirige il laboratorio di dermatologia dell’ospedale di Zurigo. “Le riviste Nature e Science non avevano voluto pubblicare il nostro articolo, era troppo audace. Alla fine è uscito nel 2008 sul Journal of Immunotherapy, una rivista modesta, e questo permette agli statunitensi di dimenticarsene e fare come se fossero stati i primi in ogni cosa”.
Bisogna però precisare che quel farmaco, anche se era stato ben tollerato dai pazienti e aveva mostrato la sua capacità di provocare una risposta antitumorale, non aveva dimostrato la sua efficacia clinica. La Curevac però ha continuato la sua ricerca sulle terapie antitumorali – “era quello che interessava agli investitori che ci sostenevano”, ricorda Pascolo – e sui vaccini.

L’altra pretendente si chiamava Biontech. Fondata a Magonza dalla coppia di medici di origine turca Uğur Şahin e Özlem Türeci, l’azienda ha sviluppato un approccio orizzontale che il suo concorrente Pascolo riassume così: “Testano e ottimizzano tutto quello che può servire a lottare contro il cancro. Per questo cercano gli elementi migliori in ogni campo. C’è da dire che hanno una grande risorsa: Uğur Şahin. È un genio come scienziato, medico e imprenditore”. Figlio di un operaio, arrivato in Germania all’età di quattro anni, Şahin sognava di fare il medico. Ma mentre scriveva la sua tesi in immunologia è stato infettato dal virus della ricerca. Ha lavorato come docente e ricercatore a Colonia, Zurigo e Magonza, ma per mettere in pratica le sue idee e “curare il mondo”, lui e sua moglie hanno deciso di diventare imprenditori. Prima con la Ganymed Pharmaceuticals, fondata nel 2001 e venduta per 1,28 miliardi di euro nel 2016, poi con la Biontech nel 2010.
Karikó è stata sedotta dalla curiosità scientifica, dalle motivazioni mediche e dall’ambizione economica. “Şahin mi ha invitato a partecipare a una conferenza a Magonza il 17 luglio 2013. Era attento, diretto, entusiasta, semplice. Mi sono sentita apprezzata. Abbiamo parlato a lungo e abbiamo constatato che eravamo cresciuti in modo simile. Mi ha detto che apprezzava la mia onestà e la mia sincerità. Alla fine mi ha proposto di diventare vicepresidente dell’azienda. Aveva veri progetti clinici, io avevo 58 anni e volevo che il mio lavoro servisse veramente ai malati. Così ho accettato”.

La scena era pronta e gli attori erano al loro posto: un’azienda statunitense e due tedesche, pronte a trasformare l’mRna in una macchina da guerra contro le malattie genetiche, l’emofilia, il diabete e soprattutto il cancro. E i francesi? Già nel 1993 un’équipe di ricercatori dell’Inserm e del laboratorio Pasteur-Mérieux era riuscita a provocare una risposta immunitaria a partire dall’mRna incapsulato in sfere di lipidi. “In seguito abbiamo cercato di industrializzare il processo”, ricorda Pierre Meulien, coordinatore dello studio e all’epoca direttore di ricerca dell’istituto Pasteur-Mérieux, oggi direttore esecutivo dell’Imi (Iniziative per farmaci innovativi), una collaborazione tra l’Unione europea e l’industria farmaceutica. “Ma funzionava solo una volta su due, non sappiamo perché. Così nel 1994 ho deciso di mollare”.

Nel 2011 la Sanofi-Pasteur, erede del gruppo Pasteur-Mérieux, ha ottenuto un finanziamento dalla Darpa, l’agenzia di ricerca militare statunitense, per sviluppare un programma di vaccini basati sull’mRna. Il gigante farmaceutico si è unito alla Curevac e alla piccola start-up francese In-Cell-Art, fondata dal premio Nobel per la chimica Jean-Marie Lehn e dall’esperto di vaccini ribonucleici Bruno Pitard. Ma dopo cinque anni di ricerca “e di risultati concreti”, assicura Pitard, la Sanofi ha preferito puntare su un’altra tecnologia, i vaccini a proteina ricombinante. In seguito l’azienda è tornata sulla pista dell’mRna con la start-up statunitense Translate Bio, ma ormai con diverse lunghezze di ritardo.

La scommessa di Bancel
A gennaio del 2020, quando è apparsa la minaccia di una pandemia che nessuno chiamava ancora covid-19, tre campioni dell’mRna erano in corsa a fianco dei rappresentanti delle strategie vaccinali più tradizionali, ma tra loro non c’era nessun francese. Il capo della Moderna Stéphane Bancel ha un passaporto francese e un diploma all’École centrale, ma il progetto che ha portato avanti – con i miliardi di dollari stanziati da Washington per trovare al più presto un vaccino, con sostegno personale di Donald Trump e con la collaborazione dell’Nih – è al 100 per cento statunitense.

La storia di Bancel sembra confermare che gli Stati Uniti sono la terra delle sfide. Nel 2011 ha deciso di lasciare la sicurezza del suo posto di direttore dell’azienda BioMérieux per dedicarsi a una tecnologia emergente. “Tutti pensavano che fosse impossibile creare un farmaco a partire dall’mRna”, sintetizza Bancel. Per lui l’avventura è cominciata una fredda sera di febbraio. Noubar Afeyan, il fondatore di Flagship, uno dei fondi di investimento più noti nel settore biologico, suo conoscente da molto tempo, voleva mostrargli i risultati ottenuti dai ricercatori di Harvard. “Avevano iniettato nel muscolo di un topo dell’mRna con il codice dell’Epo umana e mostrato che in seguito questo ormone circolava nel sangue dell’animale”, ricorda Bancel. “Gli ho detto: ‘Non è possibile’. E lui mi ha risposto: ‘Sì, sì, guarda, hanno ripetuto l’esperimento’”.

Una donna di 101 anni riceve una dose di vaccino. Bruxelles, Belgio, 28 dicembre 2020. (Johanna Geron, Afp/Getty Images)

Afeyan gli ha proposto di entrare nella start-up che aveva fondato con i due scienziati di Harvard Derrick Rossi e Robert Langer. “Pensavo alle centinaia di farmaci che sarebbe stato possibile creare con questa tecnologia, soprattutto per malattie attualmente incurabili”, racconta Bancel. “Quando sono tornato a casa, mia moglie mi ha chiesto se era rischioso. Le ho risposto: ‘La probabilità che riesca è del 5 per cento’”. Ma alla fine ha firmato.

Per un anno la Moderna ha cercato di mantenere un basso profilo: non ha lasciato filtrare nulla dei suoi lavori né dei suoi risultati. “Eravamo diffidenti, avevamo paura che mostrando i nostri progressi gli altri si sarebbero messi a copiare la nostra tecnologia”, spiega Bancel. All’epoca solo gli investitori, obbligati al silenzio da un accordo di confidenzialità, venivano aggiornati sui progressi realizzati con i primi esperimenti sulle scimmie e uno studio di tossicità sui topi. All’inizio del 2013 questi test hanno convinto la grande casa farmaceutica britannica AstraZeneca, che ha staccato a Moderna un assegno da 240 milioni di dollari – “versati il giorno della firma” – per sviluppare diverse terapie basate sull’mRna.

Ma la Moderna, come abbiamo visto, aveva un tallone d’Achille: non disponeva del brevetto sulla tecnologia sviluppata dalla UPenn per fabbricare un mRna inoffensivo per l’organismo. In un primo tempo i suoi scienziati avevano sperato di ottenere lo stesso risultato, ma tutte le piste esplorate non avevano portato a niente. “Ci rendevamo conto che la tecnologia della UPenn era la migliore, ma non capivamo perché”, ammette Bancel, che nel 2018 ha sborsato 75 milioni di dollari (63 milioni di euro) per ottenere una licenza, come anche la Biontech.
Parallelamente alle sue collaborazioni con i giganti del settore – AstraZeneca e Merck – la Moderna concludeva degli accordi con le principali istituzioni statunitensi nel campo delle malattie infettive: la Darpa e la Barda, l’agenzia di ricerca del dipartimento della salute; la fondazione Gates, protagonista della ricerca sui vaccini, e soprattutto i famosi Nih.

Il tempio della ricerca medica statunitense, che ha sede a Bethesda, non lontano da Washington, non si è fatto pregare. Il responsabile del dipartimento per le malattie infettive, Anthony Fauci, aveva guidato i primi passi di Drew Weissman e non lo aveva mai perso di vista. Nel 2000 il responsabile del laboratorio di patogenesi virale Barney Graham aveva anche cercato di assumerlo, per poi collaborare con lui su un vaccino contro l’influenza. Agli Nih, quindi, l’mRna era seguito da vicino.

Così quando la Moderna aveva contattato Graham per proporgli di collaborare, nel 2014, lui non aveva avuto esitazioni. Si è subito stabilita una netta divisione dei compiti: l’Nih avrebbe pensato all’antigene, la Moderna all’mRna e a come trasportarlo verso le cellule. Prima è stato messo in cantiere un vaccino sperimentale contro il virus respiratorio sinciziale (Rsv), poi nel 2016 uno contro lo zika. “Il livello di risposta immunitaria era già impressionante”, ricorda Graham. Nel 2017, infine, le due parti hanno lanciato un programma di preparazione alle pandemie virali legate alle malattie emergenti. Tra queste c’erano i nipavirus e i coronavirus.

Nel settembre del 2019, in occasione dell’analisi annuale dei diversi progetti alla sede degli Nih, Bancel è arrivato trionfante con dei nuovi dati clinici e ha annunciato: “Con la nostra tecnologia ci bastano sessanta giorni per mettere a punto un vaccino e cominciare un test clinico”. “Tutti si sono messi a ridere”, racconta divertito. Ma la battuta è diventata ben presto una vera e propria sfida. Sicuro dei suoi mezzi, Bancel ha proposto a Fauci di inviargli la sequenza del coronavirus che causa la sindrome respiratoria mediorientale (Mers) e di “far partire il cronometro” fino alla consegna dei vaccini per la prima fase dei test clinici. Fauci ha accettato, e il progetto è stato programmato per il secondo trimestre del 2020.

Tutto in sessanta giorni
Ma nel frattempo l’équipe ha dovuto fare i conti con la realtà. Poco dopo capodanno, mentre era in vacanza nel sud della Francia, Bancel ha letto sul Wall Street Journal un articolo su una nuova malattia respiratoria in Cina. Lo ha fotografato e lo ha mandato a Graham. “Gli ho chiesto c0s’era e lui mi ha risposto: ‘Ancora non lo sappiamo, sono due giorni che ci stiamo lavorando’”.
Al Forum economico di Davos, dal 21 al 24 gennaio, Bancel ha capito che il virus non minacciava solo la Cina ma tutto il mondo. Due infettivologi lo hanno avvertito sulla sua contagiosità. “Era chiaro che l’R0 (il numero di riproduzione di base, che misura la potenziale trasmissibilità della malattia) era molto elevato”, racconta Bancel. Ha cercato “Wuhan” su Google Maps e poi su Wikipedia, e ha scoperto che il nuovo coronavirus si diffondeva senza controllo in una città industriale di undici milioni di abitanti. La lista dei collegamenti aerei diretti tra la città e il resto del mondo gli ha tolto ogni dubbio: “Il virus ha già cominciato a viaggiare ovunque”.

Atteso al consiglio di amministrazione della Qiagen, in Germania, Bancel si è scusato e ha preso un volo per Washing­ton, dove era stata organizzata una riunione d’emergenza con tutta la squadra degli Nih. I ricercatori della Moderna lavoravano su un vaccino già dal 13 gennaio, ma era impossibile fare progressi senza l’aiuto di Graham, che aveva concepito l’antigene da presentare al sistema immunitario. Il 24 febbraio la Moderna ha mandato agli Nih i suoi primi campioni clinici. Erano passati solo 42 giorni, un risultato mai visto.

Dall’altra parte dell’Atlantico la Biontech è emersa come la principale sfidante. A differenza della Curevac, aveva pagato a caro prezzo una licenza per sfruttare l’Rna modificato sviluppato da Karikó. Inoltre aveva saputo reagire immediatamente. “Şahin ha subito preso sul serio il virus arrivato dalla Cina”, ricorda Karikó , che era diventata vicepresidente dell’azienda. “Ha immediatamente detto a tutto lo staff che la pandemia non avrebbe risparmiato la Germania, che era un’occasione ma soprattutto un dovere mostrare quello che poteva fare la nostra tecnologia. E ha impegnato tutto il nostro programma di vaccinazione sul progetto”.
Negli ultimi tre anni la startup si era diversificata e aveva cercato nuovi partner. Şahin si era convinto che l’mRna poteva cambiare radicalmente la cura delle malattie infettive, ma anche prevenirle, così si era rivolto alla Pfizer. Secondo lui l’azienda statunitense, con i suoi 88mila dipendenti, disponeva di una struttura abbastanza solida. Inoltre aveva un vantaggio particolare: la responsabile del suo reparto vaccini, Kathrin Jansen, era tedesca. Era considerata intrattabile, ma Şahin apprezzava il suo scetticismo e le sue domande pertinenti. L’incontro ha funzionato. “Questa tecnologia era ancora una novità”, ha raccontato Jansen al Wall Street Journal. “Ma potenzialmente aveva tutti i requisiti per realizzare dei vaccini migliori contro l’influenza”. Con le sue costanti mutazioni, l’influenza esige una vaccinazione all’anno e rappresenta un ottimo mercato.

L’accordo è stato concluso nell’agosto del 2018. L’eccellenza tecnica da un lato e l’esperienza industriale dall’altro hanno permesso al progetto di avanzare rapidamente e un test clinico era in programma per il 2020. Poi è entrato in scena il nuovo virus.

Da quel momento metà dei 1.500 dipendenti della Biontech sono stati dirottati su questo progetto. Hanno studiato il genoma inviato dai cinesi, hanno selezionato gli elementi capaci di creare una risposta immunitaria più forte e hanno scelto venti formule, poi quattro. Ma come combattere da soli una pandemia? All’inizio di marzo Şahin ha chiamato Kathrin Jansen e le ha proposto una collaborazione: i restanti costi di sviluppo e i profitti sarebbero stati condivisi, ma la Biontech avrebbe conservato la proprietà esclusiva del prodotto. La risposta è stata subito positiva e l’accordo è stato reso pubblico il 18 marzo.

Il seguito è noto. Per tutta la primavera la Moderna è sembrata in testa. Si è parlato della sua sfida con l’altro favorito, il vaccino della AstraZeneca e dell’università di Oxford, concepito a partire dalla più sperimentata tecnologia vettoriale. La Pfizer si è adattata alla strategia della Biontech, che Karikó riassume così: “Comunicare solo quando si ha qualcosa da dire e solo se necessario”. Ma il 27 luglio, contemporaneamente alla Moderna, la partnership tedesco-statunitense ha avviato la fase tre dei suoi test clinici, la verifica su vasta scala dell’efficacia del suo prodotto.

Il 30 novembre la Moderna ha annunciato di aver chiesto un’autorizzazione d’emergenza alla statunitense Food and drugs administration e all’Agenzia europea del farmaco. Ma la Pfizer e la Bion­tech l’avevano preceduta negli Stati Uniti, e l’8 dicembre il loro vaccino ha cominciato a essere somministrato nel Regno Unito. Avversari in campo industriale e commerciale. Ma per la scienza, e probabilmente per la salute umana, hanno appena scritto insieme un’impressionante pagina di storia.

(Traduzione di Andrea De Ritis)

Questo articolo è stato pubblicato l’8 gennaio 2021 nel numero 1391 di Internazionale.

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