Il treno merci deragliato nel febbraio 2023 a East Palestine, nei pressi del confine tra Ohio e Pennsylvania, trasportava diversi tipi di verdure congelate, liquore di malto, semolino e alcune sostanze chimiche utilizzate nella produzione della plastica, come il cloruro di vinile monomero (cvm).

Possiamo immaginare il cloruro di vinile monomero come il vagone di un treno: mettendone diversi in fila, uno dopo l’altro, si ottiene un treno che si chiama cloruro di polivinile ed è la plastica pvc, un altro materiale che – stando alla lista di carico – era trasportato nei vagoni di quello sciagurato treno.

Di pvc sono fatti tubi e canne dell’acqua, rivestimenti e pavimenti per interni, tende da doccia e anche giocattoli. Di pvc sono i tubicini, le sacche delle flebo e, per gli appassionati di musica, anche i dischi, quelli che chiamiamo comunemente vinili, anche se a volte sono stampati in polistirene.

Il cvm è cancerogeno. Bruciare il cloruro di vinile, come il pvc, crea le condizioni per la formazione di sostanze chimiche ancora più dannose: le diossine.

Ci sono molte aziende che producono pvc. Quello sul treno deragliato era contenuto in vagoni con l’etichetta “ROIX”: nel gergo ferroviario significa che i vagoni erano di proprietà della Shintech, “il maggiore produttore mondiale di pvc” come si legge sul sito dell’azienda – una controllata al 100 per cento della società giapponese Shin-Etsu. Negli Stati Uniti gestisce impianti per la produzione di pvc a Freeport, in Texas, e ad Addis e Plaquemine, in Louisiana.

Anche le aziende che producono cloruro di vinile sono molte. Almeno due dei vagoni della Norfolk Southern che lo trasportavano sono riconducibili – per via dell’etichetta “OCPX ”– alla OxyVinyls, una divisione di OxyChem, che a sua volta fa parte della Occidental Petroleum. L’impianto della OxyVinyls che produce cloruro di vinile si trova a Deer Park, in Texas, nei pressi dello Houston Ship Channel, dove all’inizio del 2023 si è abbattuto un tornado che ha costretto l’impianto a una chiusura temporanea.

“A volte le aziende che producono cloruro di vinile e quelle che producono pvc sono vicine”, mi ha spiegato Jim Vallette, che lavora per Material Research e ha mappato questo comparto industriale. Per esempio, la Olin e la Dow hanno impianti vicini a quelli della Shintech, che producono pvc in Louisiana e in Texas, e forniscono loro cvm.

In altri casi il cloruro di vinile è inviato a impianti più lontani attraverso i treni, lo stesso metodo impiegato per fornire il pvc finito a chi lo lavora e lo modella. Non è chiaro quale fosse il percorso del treno deragliato a East Palestine.

Cloro, amianto e tumori

Gli ingegneri chimici, proprio come quelli ferroviari, parlano di percorsi per riferirsi ai differenti metodi con cui gli idrocarburi possono essere condotti alla stessa destinazione.

Esistono quindi diversi percorsi per produrre cloruro di vinile. Tutti però si servono del cloro. E il cloro è candeggina. Sono lenzuola e fogli bianchi. È un disinfettante. È il gas che durante la prima guerra mondiale circolava sui campi di Ypres prima di infilarsi nelle trincee e nei polmoni di soldati ignari.

Nessun altro processo industriale usa più cloro di quello che produce il pvc. Il cloro si fa con la salamoia, quindi con il sale, da cui il cloro dev’essere isolato. Per farlo, storicamente si è usato il mercurio. Poi si è passati all’amianto.

Oggi l’industria del cloro si sta orientando verso l’uso di membrane derivate da una sostanza chimica della famiglia dei Pfas (sostanze per- e poli-fluoroalchiliche). Si tratta di un gruppo di almeno dodicimila sostanze, tra cui le più studiate sono associate a un gran numero di effetti collaterali, tumori inclusi.

Quanto fanno male le microplastiche?
I minuscoli frammenti di plastica individuati in diverse parti del corpo umano potrebbero avere gravi conseguenze per la salute, ma non ci sono ancora prove certe

L’amianto è una sostanza cancerogena, e causa un tumore specifico: il mesotelioma. Il mercurio è un metallo pesante e, sotto forma di metilmercurio, è teratogeno – significa che può causare anomalie e malformazioni fetali, soprattutto a carico del cervello e del sistema nervoso, come mi ha suggerito il dottor Ted Schettler, mio collega presso lo Science and environmental health network. È anche una sostanza neurotossica e inquinante, al punto che il suo utilizzo industriale è regolato da un trattato delle Nazioni Unite: la convenzione di Minamata.

La convenzione prende il nome da una città e da una baia situate su un’isola del Giappone meridionale. Anche in questo caso c’è una malattia caratteristica, la sindrome di Minamata, anche se alcune delle persone che ne sono affette preferirebbero che la si chiamasse per quello che è, ovvero un’intossicazione cronica da metilmercurio industriale.

La comunità di Minamata è più spesso associata al mercurio che al materiale prodotto con il mercurio, ovvero (ma non solo) i precursori chimici del cloruro di vinile e del vinile.

Nel 2013, in Giappone, 140 paesi si sono riuniti per adottare la convenzione di Minamata. Per ratificarla sono bastate le firme di cinquanta stati. Il Giappone non l’ha ratificata fino al febbraio 2016. Il deragliamento del treno merci a East Palestine è avvenuto quasi nello stesso giorno, sette anni dopo.

Ma non ho finito di spiegare i diversi percorsi tramite cui si ottiene il cloruro di vinile.

Il disastro di Minamata

Lo storico Morris Kaufman, oggi scomparso, ha iniziato a studiare la storia della produzione del pvc all’Imperial College di Londra negli anni sessanta e ci ricorda che i primi brevetti del processo furono registrati nel 1912. I tentativi tedeschi di produrre pvc su larga scala non portarono però a un prodotto commercialmente accettabile. Così, tredici anni dopo, quei primi brevetti furono lasciati scadere. In seguito, un piccolo gruppo di aziende si mise di nuovo a fare ricerca e sviluppo, rendendo le origini del pvc internazionali, diffuse e difficili da tracciare con precisione, conclude Kaufman.

Negli Stati Uniti la Union carbide (poi acquisita dalla Dow, che in seguito si è fusa con la DuPont e poi si è riorganizzata ed è rinata) cominciò a produrre cloruro di vinile nel 1929 in un complesso petrolchimico – una novità assoluta per l’epoca – situato lungo il fiume Kanawha, un affluente dell’Ohio, a sua volta affluente del Mississippi, il quale si getta infine nel golfo del Messico.

La produzione di pvc cominciò l’anno successivo, ma la plastica ci mise un po’ a prendere piede. La Union carbide si era installata lungo il Kanawha per approfittare delle riserve di gas naturale degli Appalachi. Nell’area esisteva già, dai tempi della prima guerra mondiale, un impianto per la produzione di cloro.

La ricerca scientifica sulla tossicità del cloruro di vinile è cominciata subito dopo e i primi studi sono apparsi durante gli anni trenta.

I pericoli nascosti nella plastica
In vista della ripresa dei negoziati per un trattato internazionale sulla plastica, un gruppo di ricercatori ha catalogato migliaia di sostanze nocive non regolamentate

Il secondo percorso, quello che parte dal petrolio, rappresenta il metodo storico di produzione del cloruro di vinile che si utilizzava lungo la costa americana del golfo del Messico. Il terzo percorso parte invece dal carbone. Quello del carbone fu il percorso scelto, a partire dal 1932, dall’azienda giapponese oggi nota come Chisso corporation per produrre cloruro di vinile a Minamata. Dal calcare estratto in una cava poco a nord della cittadina e dai giacimenti di carbone presenti nel nord della regione di Kyushu, l’azienda derivava un carburo. Dal carburo passava all’acetilene e da quest’ultimo, grazie a un catalizzatore derivato dal mercurio, all’acetaldeide, per arrivare quindi al cloruro di vinile e anche, mediante un processo separato, a un plastificante chiamato diottilftalato (abbreviato dop), che viene utilizzato per ammorbidire il pvc e altre plastiche.

Quello stesso anno l’azienda cominciò a riversare i suoi scarichi ricchi di mercurio nella baia di Minamata. Il mercurio avvelenò l’acqua, quindi i pesci, e poi i pescatori e le loro famiglie. Gli ultimi a essere avvelenati furono i bambini nati da madri avvelenate dal mercurio. Michiko Ishimure, una scrittrice originaria di Minamata e spesso paragonata a Rachel Carson, scrive: “Ho avuto una visione, cercavo di inghiottire il capitalismo giapponese”.

A partire dagli anni sessanta Ishimure ha pubblicato, con grande successo, una serie di opere di nonfiction narrativa dedicate al disastro. Il primo volume si intitola Kugai jōdo (Paradise in the sea of sorrow, paradiso nel mare di dolore). Per decenni Ishimure si è battuta per la gente di Minamata, ma “gli anni, uno dopo l’altro, seccavano e si staccavano di netto, come le foglie morte o le cellule cerebrali delle vittime di avvelenamento da mercurio”, scriveva.

La sua attività di testimonianza e di scrittura ha avuto la meglio su di lei: tutti “questi momenti storici estremamente significativi mi sono rimasti in gola”. Si sospetta che anche lei abbia sofferto di problemi nervosi causati dal mercurio.

Convenzioni e divieti

Sebbene il primo caso di sindrome di Minamata sia stato riconosciuto già nel 1956, solo nel 1968 il governo giapponese ha ammesso ufficialmente “che la causa della malattia era il metilmercurio proveniente dallo stabilimento della Chisso”, mi ha raccontato Timothy George, professore emerito di storia all’Università del Rhode Island e autore del libro Minamata: pollution and the struggle for democracy in postwar Japan.

La Chisso smise di utilizzare il mercurio nel processo di produzione dell’acetaldeide proprio nei primi mesi di quell’anno. “L’azienda non ammise ufficialmente le proprie responsabilità fino al 1973, quando perse una causa intentata dai malati e fu costretta a pagare quello che ai tempi fu il più sostanzioso indennizzo della storia giudiziaria giapponese”, ha aggiunto George.

A quella causa ne seguirono altre. Infine si arrivò alla convenzione di Minamata, che contiene disposizioni per l’eliminazione su scala globale dell’uso del mercurio nella produzione di cloro, cloruro di vinile e acetaldeide. “È incredibile”, sottolinea Jim Vallette, “che il percorso mercurio-acetilene sia ancora utilizzato (e sempre di più) nella provincia dello Xinjiang”, nel nordovest della Cina, dove il pvc è prodotto grazie al lavoro forzato degli uiguri, molti dei quali sono musulmani.

Oggi, dopo che gli Stati Uniti hanno approvato lo Uyghur forced labor prevention act, le autorità doganali statunitensi vietano l’importazione di pavimenti in vinile ricavati da plastiche prodotte in quelle fabbriche. Tuttavia, “quelli sono probabilmente gli impianti di produzione della plastica più inquinanti al mondo”, dice ancora Vallette. “Rilasciano più di cinquanta milioni di tonnellate di anidride carbonica all’anno e continuano a utilizzare e a disperdere nell’ambiente enormi quantità di mercurio”. Nonostante la convenzione di Minamata. Secondo Vallette, questi impianti “necessitano quindi di molta più attenzione”.

Limiti necessari

Nel 2022 le Nazioni Unite hanno riunito la comunità internazionale a Nairobi, in Kenya, dove con il sostegno della stragrande maggioranza dei paesi si è deciso l’avvio di negoziati per arrivare a un accordo legalmente vincolante sull’inquinamento da plastica. Come modello è stata indicata proprio la convenzione di Minamata.

I negoziati sono cominciati ufficialmente in Uruguay nell’autunno 2022, per poi proseguire a Parigi nel maggio del 2023, poi a Nairobi nel novembre 2023, quindi a Ottawa nella primavera del 2024 e a Busan, in Corea del Sud, la settimana scorsa.

Non è ancora chiaro se, oltre all’accumulo dei rifiuti a valle, verranno adottate misure volte a limitare anche gli usi tossici delle plastiche a monte. Gli esperti in materia di plastica – compresa me – hanno chiesto che il trattato metta un limite alla produzione di plastiche non essenziali, che tenga in considerazione i diritti umani, compreso il diritto a un ambiente domestico e di lavoro sicuro, e che spinga l’industria ad adottare processi di produzione più trasparenti e chimicamente meno complessi. In pratica: che fare di mercurio, amianto, Pfas e di tutte le altre sostanze tossiche già note che vengono utilizzate nella produzione della plastica?

Sarà inoltre necessario decidere che cosa fare di monomeri come il cloruro di vinile, di materiali come il pvc e di prodotti di scarto secondari come le diossine.

Il dialogo però si concentra più spesso sulle plastiche intese come rifiuti. Se un trattato dovesse adottare questa visione ristretta dei problemi che pongono, quello che è successo a Minamata e a East Palestine, che accade in Cina o lungo le vie mondiali di transito delle plastiche non avrà il giusto peso all’interno di uno strumento ampio, che invece potrebbe essere utilizzato per prevenire futuri disastri e future crisi di lunga durata ai danni delle comunità che vivono lungo le rotte di produzione, trasporto e manipolazione delle plastiche.

Il sistema delle plastiche si regge su basi tossiche. Su sostanze chimiche come il cloruro di vinile monomero. E sui processi che creano i precursori necessari a produrre i monomeri, utilizzati poi per produrre le plastiche.

Questo sistema diventa visibile solo quando un treno che collega i vari punti che compongono la vasta rete petrolchimica delle plastiche va a fuoco o, come è successo sempre in Ohio, viene dato volontariamente alle fiamme. Il disastro di East Palestine ci ha permesso di capire quante sono le comunità circondate dalla plastica che hanno subito sia rilasci costanti di sostanze dannose sia disastri ecologici legati alla sua produzione. Quando si tratta di storia ambientale, spiega Timothy George, “non ci si può limitare alla storia di una singola piccola località. Ogni luogo è collegato a tutti gli altri”.

A prescindere dal percorso reale che ha seguito, in un certo senso è come se il treno arrivato a East Palestine fosse passato da tutti i luoghi in cui il cloruro di vinile ha influito sulle vite e sui mezzi di sussistenza delle persone. Posti che non ho ancora nominato, come Illiopolis, in Illinois, dove un impianto per la produzione di pvc è esploso. O ancora impianti in Italia, o a Louisville, in Kentucky, dove i lavoratori sono morti di angiosarcoma. O in Belgio e Romania, dove coloro che si sono calati nelle vasche per pulirle sono stati costretti ad andare in pensione, con le dita irrimediabilmente deformate dall’acroosteolisi, una malattia rara che provoca il riassorbimento delle ossa. Luoghi come Morrisonville, Reveilletown e Mossville, in Louisiana, che sono stati inquinati dalla produzione di vinile, e le cui comunità a prevalenza nera, nonostante le molte proteste organizzate per proteggerle, alla fine sono state costrette ad andarsene. Luoghi come Minamata.

“Minamata avrà mai fine?”, scrive George. “Sono tante le soluzioni ‘complete e definitive’ che si sono rivelate largamente insufficienti”. Il documentarista Kazuo Hara dice che per la gente di Minamata “la storia è tutt’altro che finita”. La realizzazione del suo documentario Minamata mandala, uscito nel 2020, ha richiesto più di un decennio. Il film, che dura sei ore, è incentrato sulla storia degli abitanti di Minamata, alcuni dei quali continuano a girare il mondo in qualità di kataribe (cantastorie).

Sempre nel 2020, a Berlino è stato presentato un film intitolato Minamata, basato grossomodo su fatti storici. Il protagonista era Johnny Depp, nei panni del fotogiornalista statunitense Eugene Smith, che negli anni settanta assieme alla moglie e collega Aileen MiokoSmith (interpretata dall’attrice Minami) realizzò un reportage per la rivista Life per sostenere la causa degli abitanti di Minamata. A discapito di chi a Minamata e altrove subisce la lunga eredità del mercurio e dei vinili, nel 2022 l’uscita del film è purtroppo passata in secondo piano rispetto alle vicende giudiziarie di Depp.

Mentre cercavo dettagli sui metodi di produzione della Chisso mi sono imbattuta in qualche notizia sul film e sulla sua colonna sonora, opera del celebre compositore giapponese Ryuichi Sakamoto, vincitore di due Golden globe, un Oscar e un Grammy e morto di tumore proprio mentre scrivevo questo saggio.

Ascoltando la colonna sonora di Minamata a ripetizione, la mia scrittura ha assunto una regolarità insolita per me, paragrafo dopo paragrafo, come quella delle ruote sui binari. L’opera di Sakamoto è una riflessione cupa, profonda e trascinante sulla dimensione del disastro industriale e sui decenni di lavoro di cura e attivismo che Minamata rappresenta.

Di recente, la colonna sonora è stata rilasciata – non scherzo – anche in vinile.

(Traduzione di Alessandra Neve)

Il testo originale di questo articolo è stato pubblicato sulla rivista Orion Magazine con il titolo “On vinyl”.

Da sapere

Michiko Ishimure (1927-2018) è stata una scrittrice e attivista giapponese. Ha pubblicato più di cinquanta libri, tra romanzi, poesie, opere teatrali, saggi, racconti per bambini e scritti autobiografici, ma non è mai stata tradotta in italiano. In Paradise in the sea of sorrow (1969) ha raccontato minuziosamente il disastro ambientale di Minamata.


Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it