Questo articolo è uscito il 22 giugno 2018 nel numero 1261 di Internazionale. L’originale era uscito sul quotidiano britannico The Guardian, con il titolo The spectacular power of Big lens.
Se anche voi portate gli occhiali da anni, vi sorprenderà sapere che vedete il mondo grazie a poche grandi aziende di cui non avete mai sentito parlare. La maggior parte delle persone ha già abbastanza da fare con il riflesso dei fari di notte in autostrada, con le parole che si confondono sulla pagina e con tutti i soldi che ogni tanto è costretta a spendere dall’ottico. Gli occhiali sono una cosa particolare: è difficile immaginare altri oggetti che siano un dispositivo medico di cui vorremmo fare a meno e allo stesso tempo un prodotto alla moda che ci piace. Comprarli, almeno per me, è sempre un’esperienza complicata, anche se in un certo senso emozionante. Comincia in una stanza buia, dove contempliamo lettere confuse e prendiamo atto della degenerazione del nostro apparato visivo, e finisce in uno spazio luminoso, dove sentiamo il tocco freddo della montatura in acetato, ascoltiamo quello che ci dicono, paghiamo più di quanto ci aspettavamo e non vediamo l’ora di vivere una nuova versione, leggermente più nitida, della realtà.
L’industria mondiale degli occhiali, che vale 120 miliardi di euro, è costruita su queste sensazioni. Nel gergo del settore la coreografia che ci porta dall’oculista alla seducente esposizione di montature da trecento euro è chiamata “romanticizzazione del prodotto”. Il numero di esami della vista che si trasforma in vendite è detto capture rate (tasso di cattura), e la maggior parte degli oculisti (o meglio degli optometristi) lo fissa intorno al 60 per cento. Nel corso del novecento l’industria degli occhiali ha lavorato duramente per trasformare un difetto fisico in un tocco di stile. Nel frattempo i venditori hanno imparato che, stranamente, per avere un oggetto che ha un costo di produzione di poche decine di euro (perfino le lenti e le montature migliori messe insieme non costano più di cinquanta euro) siamo felici, anzi felicissimi, di spendere una somma dieci o venti volte più alta. “I margini di guadagno sono scandalosi”, mi ha detto un esperto del settore. Mary Perkins, una delle fondatrici di Specsavers, una catena di negozi di ottica, è la prima donna del Regno Unito a essere diventata miliardaria partendo da zero.
Argomento di conversazione
Prima o poi tutti finiamo per mettere gli occhiali. Nei paesi sviluppati il 70 per cento degli adulti ha bisogno di lenti correttive per vedere bene. Nel Regno Unito sono 35 milioni di persone. Ma non è un argomento di conversazione frequente. Agli occhi di un osservatore comune il mercato dell’ottica è tutt’altro che chiaro. Nel Regno Unito migliaia di negozi di ottica indipendenti affiancano una gruppo ristretto di grandi catene. Anche nei negozi di zona più piccoli sono in mostra centinaia di occhiali, manifesti che pubblicizzano una gamma di lenti dalle caratteristiche vagamente scientifiche (freeform, photo-fusion, reflex vision) e nomi così insignificanti che è difficile ricordarli perfino mentre li guardiamo. Ma quello che vediamo nasconde la struttura che regge il settore dell’ottica.
Nel corso dell’ultima generazione due aziende hanno sovrastato tutte le altre e oggi dominano il mercato. Le lenti dei miei occhiali – e probabilmente anche dei vostri – sono fabbricate dalla Essilor, una multinazionale francese che controlla quasi la metà della vendita di lenti graduate del mondo e ha comprato 250 aziende negli ultimi vent’anni. Inoltre è molto probabile che la vostra montatura sia stata prodotta dalla Luxottica, un’azienda italiana con una combinazione unica di fabbriche, etichette di design e punti vendita al dettaglio. La Luxottica è stata una pioniera nell’uso dei marchi di lusso nel settore. Una delle funzioni di marchi come Ray-Ban (che è della Luxottica), Vogue (della Luxottica), Prada (i cui occhiali sono fabbricati dalla Luxottica) e Oliver Peoples (sempre della Luxottica) o di punti vendita come Lens-Crafters, la più grande catena degli Stati Uniti (che appartiene a Luxottica), John Lewis Opticians nel Regno Unito (gestito dalla Luxottica) e Sunglass Hut (di proprietà della Luxottica) è di far apparire il mercato più vario di quello che è in realtà.
La Essilor e la Luxottica svolgono un ruolo fondamentale nella vita di moltissima gente. Circa 1,4 miliardi di persone usano i loro prodotti per andare al lavoro in macchina, leggere sulla spiaggia, vedere quello che c’è scritto sulla lavagna durante una lezione di biologia, scrivere messaggi ai nipoti, far atterrare gli aerei, guardare vecchi film, scrivere tesi e lanciare occhiate in giro al ristorante nella speranza di sembrare più intelligenti e interessanti di quello che si è in realtà. Nel 2017 le due aziende hanno avuto un numero di clienti a metà strada tra la Apple e Facebook, ma senza la seccatura di essere altrettanto famose.
Ora stanno diventando una cosa sola. Il 1 marzo 2018 le autorità antitrust dell’Unione europea e degli Stati Uniti hanno accordato alle due più grandi aziende del mondo nel settore dell’ottica il permesso di diventare un’unica multinazionale, che si chiamerà EssilorLuxottica. Tecnicamente non è un monopolio: la Essilor controlla il 45 per cento del mercato delle lenti da vista e la Luxottica il 25 per cento di quello delle montature. Ma da quando esistono gli occhiali, cioè da settecento anni, non c’è mai stato niente di simile.
Per migliaia di anni gli esseri umani hanno vissuto in società più o meno avanzate, hanno letto, scritto e fatto affari senza l’aiuto degli occhiali
La nuova azienda varrà circa sessanta miliardi di euro, venderà più o meno un miliardo di occhiali all’anno e avrà 140mila dipendenti. La EssilorLuxottica intende controllare quella che i suoi dirigenti chiamano “l’esperienza visiva” per i decenni a venire.
La sua nascita non è una cosa da poco. Avrà enormi conseguenze per gli ottici e i produttori di occhiali di tutto il mondo, da Hong Kong al Perù. Ma sarà anche la risposta a una fase senza precedenti. Per millenni gli esseri umani hanno vissuto in società più o meno avanzate, hanno letto, scritto e fatto affari tra loro, per lo più senza l’aiuto degli occhiali. Ora quest’era sta per finire. Nessuno sa esattamente qual è il motivo – il tempo che passiamo al chiuso, gli schermi, lo spettro dei colori dell’illuminazione a led o l’invecchiamento della popolazione – ma nelle società urbane moderne di tutto il mondo stiamo diventando una specie che porta gli occhiali. Questa necessità varia di luogo in luogo, perché popolazioni diverse hanno predisposizioni genetiche differenti al deterioramento della vista, ma è una realtà diffusa. In Nigeria si stima che abbiano bisogno di lenti correttive novanta milioni di persone, cioè la metà della popolazione.
In pratica stanno succedendo due cose. La prima è un’epidemia di miopia di cui si parla poco ma che tra i giovani è raddoppiata nell’arco di una generazione. Per molto tempo gli scienziati hanno pensato che la miopia fosse in gran parte determinata dai nostri geni. Ma dieci anni fa si è scoperto che anche il modo in cui crescono i bambini può danneggiare la vista. Questo effetto è più evidente in estremo oriente, dove la miopia è sempre stata più diffusa. Negli anni cinquanta i cinesi miopi costituivano il 10-20 per cento della popolazione. Oggi tra gli adolescenti e i giovani adulti si sfiora il 90 per cento. A Seoul il 95 per cento dei ragazzi di 19 anni non vede da lontano, molti soffrono addirittura di una forma di miopia più grave e rischiano di perdere la vista da adulti. Ma in tutto il mondo sviluppato è in corso un processo più lento e complesso, perché le popolazioni invecchiano, si urbanizzano e lavorano sempre di più al chiuso. La storia degli occhiali conferma che se le persone cominciano a metterli di solito non è perché a un certo punto si accorgono di vedere male. Lo fanno per partecipare a nuove forme d’intrattenimento e di lavoro. Il mercato di massa degli occhiali non è emerso quando sono stati inventati, nell’Italia del duecento, ma due secoli più tardi, con la nascita della stampa in Germania, perché la gente voleva leggere.
Oggi nel mondo ci sono 2,5 miliardi di persone – soprattutto in India, Africa e Cina – che avrebbero bisogno di occhiali, ma non hanno i mezzi per sottoporsi a un esame della vista e per comprarli. “Il divario visivo” lo chiamano alcune ong. In tutto il mondo in via di sviluppo la miopia e la presbiopia dovuta all’invecchiamento sono state considerate tra le cause di vari problemi, dalle morti sulla strada ai pessimi risultati a scuola e alla scarsa produttività in fabbrica. Secondo alcuni, si tratta della più grande disabilità non curata del mondo.
Ma è anche un’incredibile opportunità di guadagno, e la Essilor e la Luxottica lo sanno bene. Nel 2012 è stata la Essilor a diffondere il dato dei 2,5 miliardi di persone che hanno bisogno di lenti. “Per duemila anni la gente ha vissuto essenzialmente all’aperto”, mi ha detto Hubert Sagnières, il presidente e amministratore delegato della Essilor, quando l’ho incontrato a Parigi. “Oggi viviamo al chiuso e usiamo questo”, ha aggiunto indicando il telefono sul tavolo. Definire i dettagli legali e tecnici della fusione tra la Essilor e la Luxottica richiederà qualche anno, ma Sagnières non ha nascosto il fatto che la sua missione è fornire occhiali al pianeta per i prossimi decenni.
Tra gli addetti ai lavori l’incombente strapotere di EssilorLuxottica è oggetto di una morbosa ossessione. Tutti sanno che la nuova azienda cambierà il nostro modo di vedere. Nel corso di varie interviste ho sentito definire la fusione tra le due aziende, impensabile una generazione fa, un fatto incredibile ma allo stesso tempo inevitabile. Mi è sembrata una contraddizione legata più alle persone che alle aziende. Questo è vero a proposito di EssilorLuxottica, ma anche dell’intero settore degli occhiali, perché è – a un livello sorprendente – l’eredità di un’unica persona.
Un paesino sulle Dolomiti
Leonardo Del Vecchio è il padre dell’industria mondiale degli occhiali, la sua leggenda e il fantasma che la perseguita. È il suo Citizen Kane e il suo capitano Achab. Il padre morì prima che nascesse e la madre era povera, per questo durante la guerra è cresciuto in un orfanotrofio di Milano, che lasciò a 14 anni per andare a lavorare come incisore di metalli. Nel 1961 aprì un laboratorio ad Agordo, un paesino sulle Dolomiti. Aveva 25 anni e aveva deciso di mettersi in proprio. La valle si stava svuotando a causa della chiusura di una miniera e il comune concedeva terreni alle aziende disposte a trasferirsi lì. Del Vecchio chiese tremila metri quadrati sulle rive del fiume per costruire una fabbrica di componenti di occhiali. Aveva messo su famiglia e, con il tempo, costruì una casa accanto al laboratorio per poter passare più facilmente dall’una all’altro. La mattina cominciava a lavorare alle tre.
Nel mezzo secolo successivo la sua azienda, che aveva chiamato Luxottica, sarebbe diventata la più grande produttrice di montature del mondo. Dal 1994 Del Vecchio è il maggior contribuente del fisco italiano e il secondo uomo più ricco del paese. Qualche anno fa si pensava che la sua carriera fosse finita. Ma nel gennaio del 2017, a 81 anni, ha annunciato di essersi finalmente assicurato la componente mancante dei suoi occhiali – le lenti – concludendo il più grande accordo della sua vita: la fusione con la Essilor. “Ci tiene alla fusione”, mi ha detto un ex collega, “perché pensa di lasciarsi alle spalle una grande azienda che durerà cent’anni”.
Il pomeriggio del mio arrivo ad Agordo, qualche tempo fa, sembrava che stesse cominciando a nevicare. Il paese è circondato da colline boscose e dalle pareti grigie delle montagne. L’edificio azzurro della fabbrica della Luxottica, con la casa di Del Vecchio ancora vicino all’ingresso, brillava dall’altra parte del fiume. Oggi lo stabilimento è solo uno dei dodici che producono montature e sono sparsi in tutto il mondo, da São Paulo, in Brasile, a Dongguan, nella Cina meridionale. Quello di Agordo, però, resta il mito dell’azienda. Ogni anno Del Vecchio organizza una cena di Natale per i suoi 4.500 dipendenti. Nel paese, che ha quattromila abitanti, tutti lo chiamano semplicemente “il presidente” .
Nel 1991, in occasione del trentesimo anniversario della nascita dell’azienda, Del Vecchio fece ristrutturare alcune stalle del quattrocento ad Agordo e vi aprì un museo degli occhiali privato. Una sera la curatrice Caterina Francavilla, figlia del suo braccio destro, mi ha accompagnato a fare un giro all’interno. I primi occhiali sono stati quasi sicuramente fabbricati nel nord d’Italia negli ultimi decenni del duecento. Ma per secoli gli occhiali e le lenti d’ingrandimento furono sconsigliati dai medici, che li ritenevano innaturali e preferivano prescrivere pozioni per correggere la vista. Nel suo libro del 1666 The perfect oculist, il medico londinese Robert Turner consigliava una pozione a base di sangue di tartaruga e testa di pipistrello ridotta in polvere per curare lo strabismo. Per la miopia si poteva provare a indossare occhi di mucca intorno al collo.
Nessuno sa perché ci siano voluti quattrocento anni per mettere le stanghette agli occhiali, introdotte per la prima volta a Londra all’inizio del settecento, in modo che potessero essere comodamente ancorati alle orecchie. Per segnare un altro passaggio storico, in una bacheca c’era anche una copia del primo catalogo dell’azienda, poche pagine risalenti al 1971, quando cominciò a fabbricare montature complete.
Su uno scaffale accanto alla porta del museo ho notato una copia della biografia ufficiale di Del Vecchio, pubblicata dalla Luxottica nel 1991. Mi aspettavo che il mondo dell’ottica fosse educato e gentile, e sono rimasto sconcertato quando, parlando con diverse persone, è emerso l’aspetto carismatico e dispotico di Del Vecchio. Un ex dirigente dell’azienda mi ha detto: “Sinceramente governa con la paura”. Pochissimi ottici pronunciano il suo nome – facendolo sembrare una sorta di lord Voldemort – per timore di offenderlo, anche se è improbabile che possa succedere. Uno di loro ha detto di non volersi trovare una “testa di cavallo nel letto” (come nel film Il padrino). Un altro ha concluso l’intervista dicendo: “Mi può citare purché sembri che gli sto leccando il culo”. Perfino nell’agiografia dell’azienda Del Vecchio emerge come un personaggio determinato e anaffettivo. “Non ci baciava né accarezzava mai”, ricorda la figlia Marisa nel libro. “Avevamo paura di lui”.
Del Vecchio ha costruito l’impero della Luxottica su due idee. La prima era fare tutto da soli. Dopo il passaggio iniziale dai componenti alle montature dei primi anni settanta, decise di arrivare, gradualmente, a controllare l’intero processo di fabbricazione e vendita degli occhiali, dall’acquisto dei materiali grezzi alla vendita dei prodotti nei negozi. Nessuno lo aveva mai fatto prima. Negli anni novanta Del Vecchio decise che voleva avere anche una rete di punti vendita e la Luxottica comprò la Us Shoe – un gruppo che possedeva anche la Lens-Crafters, la più grande catena di ottica degli Stati Uniti – per 1,4 miliardi di dollari.
Attualmente la Luxottica ha circa novemila negozi e ha sottoscritto contratti con altri centomila negozi di ottica in tutto il mondo
Poi divise subito il gruppo, che era stato fondato nel 1879, fino a quando restarono solo i negozi LensCrafters, quelli che voleva fin dall’inizio, e cominciò a riempirli delle sue montature. “È la formula che hanno sempre usato da allora”, dice Jeff Cole, l’ex amministratore delegato della Cole National, un’altra grande catena di negozi di ottica comprata dalla Luxottica nel 2004. “Quando comprano un’azienda, passano un po’ di tempo a cercare di capire come sbattere fuori tutti gli altri fornitori”. Questa formula significa che quando entriamo in un negozio LensCrafters, Sunglass Hut, David Clulow, Óticas Carol in Brasile, Xueliang Glasses a Shanghai o Ming Long a Hong Kong, circa l’80 per cento delle montature è della Luxottica. Dato che dispone di designer, tecnici, fabbriche, magazzini e punti vendita propri – attualmente ha circa novemila negozi e ha sottoscritto contratti con altri centomila negozi di ottica in tutto il mondo – può far arrivare i suoi prodotti sul mercato prima e in quantità maggiori rispetto a qualsiasi concorrente. Di conseguenza ha anche una fetta maggiore di profitti.
L’accordo con la moda
La seconda grande idea di Del Vecchio è stata quella che ha cambiato la natura stessa dell’industria: associarla alla moda. Stilisti come Pierre Cardin e Christian Dior avevano provato a lanciare montature fin dagli anni sessanta, ma è stato Del Vecchio a trovare il modo di introdurre le loro creazioni e, soprattutto, i loro marchi nel mercato di massa. Nel 1988 firmò un accordo con Giorgio Armani, un altro miliardario partito da zero, che ha cominciato come vetrinista in un grande magazzino di Milano. Quell’accordo rivoluzionò l’intero settore dell’ottica. Fino a quel momento i consumatori europei e statunitensi che volevano occhiali un po’ particolari dovevano affidarsi ad aziende di grandi tradizioni come Zeiss, Rodenstock o Silhouette. Dopo l’accordo con Armani potevano comprare Prada, Gucci e Chanel, ed erano disposti a pagare per farlo.
All’inizio degli anni novanta i rappresentanti della Luxottica che rifornivano i negozi di Londra guadagnavano tanto da girare in macchina con l’autista (lo stesso Armani è stato nel consiglio d’amministrazione dell’azienda e possiede poco meno del 5 per cento del suo capitale). Oggi la Luxottica ha una trentina di marchi, alcuni completamente di sua proprietà, come Ray-Ban e Persol, e altri che produce su licenza (Michael Kors, Paul Smith, Dkny, Burberry). La Luxottica ha comprato la Ray-Ban dalla Bausch & Lomb, una delle grandi aziende ottiche del novecento, nel 1999. All’epoca il marchio non valeva niente (negli Stati Uniti si potevano comprare un paio di Aviator in una stazione di servizio per 19 dollari). Del Vecchio lo pagò 645 milioni di dollari. Durante le trattative aveva promesso di mantenere le migliaia di posti di lavoro delle sue quattro fabbriche negli Stati Uniti e in Irlanda. Tre mesi dopo chiuse gli stabilimenti e spostò la produzione in Cina e in Italia. Nell’anno e mezzo successivo la Luxottica ritirò i Ray-Ban da tredicimila punti vendita, ne aumentò il prezzo e migliorò nettamente la qualità, portando gli strati di lacca del modello Wayfarer da due a 31. Oggi la Ray-Ban è il marchio di occhiali più prezioso del mondo. Fattura oltre due miliardi di dollari all’anno e contribuisce al 40 per cento degli utili della Luxottica.
Profondamente legate
Come hanno fatto due sole aziende – una che produce montature e l’altra lenti – a conquistare il quasi monopolio di un settore di mercato generico e banale come quello degli occhiali? È come se nel mondo ci fosse un unico produttore di penne e un altro di inchiostro. Le condizioni che hanno permesso l’ascesa della Essilor e della Luxottica sono profondamente legate al modo in cui gli occhiali vengono venduti. Fino alla fine dell’ottocento si poteva comprare un paio di occhiali economici – per leggere o per vedere da lontano – in un grande magazzino come Woolworth’s, da un gioielliere o su una bancarella per le strade di Londra. L’ottica era ancora l’arte degli inventori e degli stagnai.
È stato l’avvento dell’optometria, intorno al 1900, a cambiare le cose. Era nata una nuova categoria di rispettabili professionisti – non molto diversi dai farmacisti – che volevano standardizzare gli esami della vista e permettere di vendere occhiali solo a chi era autorizzato a farlo. Il loro scopo, in generale, era migliorarne la qualità. Nel settecento e nell’ottocento i venditori di occhiali ambulanti erano famosi per le loro lenti difettose. Ma c’era anche un altro motivo importante per prendere un prodotto economico e facilmente disponibile e metterlo nelle mani di venditori autorizzati: il guadagno.
I primi ottici non ebbero vita facile. Erano disprezzati dagli oftalmologi, i veri medici degli occhi che lavoravano negli ospedali e si consideravano superiori al poco raffinato mercato delle lenti. Negli Stati Uniti il primo corso di optometria fu istituito dal dipartimento di fisica della Columbia university, perché la facoltà di medicina non lo consentiva.
Ma i nuovi professionisti non si arresero e, in un certo senso, per buona parte del novecento l’optometria si sarebbe limitata a difendere il proprio orticello. In tutta Europa e negli Stati Uniti venivano approvate leggi e norme per controllare la prescrizione e la vendita di occhiali. Molte di queste avevano un aspetto “dottorale”, ma ebbero anche l’effetto di creare un mercato poco trasparente. Per molto tempo, per esempio, gli ottici rifiutarono qualsiasi forma di pubblicità, perché li avrebbe costretti a esporre i prezzi e avrebbe permesso ai clienti di confrontarli. Nel Regno Unito, in base all’Optician’s act del 1958, l’esposizione dei prezzi era esplicitamente vietata. Questo significava che gli ottici erano più o meno liberi di inventarseli al momento.
La limitazione del numero di venditori di occhiali diede ai produttori di materiale ottico maggiori opportunità di provare a monopolizzare il mercato. Già nel 1923 il governo statunitense aveva indagato su una truffa sul prezzo delle lenti bifocali Kryptok, le più vendute del paese. Dopo la seconda guerra mondiale gli investigatori del dipartimento di giustizia scoprirono un ampio giro di tangenti – che si ritiene ammontasse a 35 milioni di dollari all’anno e coinvolgesse circa tremila oculisti – in cui l’American optical company e la Bausch & Lomb pagavano i medici perché prescrivessero le loro lenti. A un certo punto le due aziende fabbricavano circa il 60 per cento degli occhiali venduti negli Stati Uniti, ma nel 1966, dopo un altro scandalo, gli fu vietato di aprire nuovi punti vendita al dettaglio e all’ingrosso per vent’anni.
Fu allora che entrò in scena la Essilor. Nel 1972 la Essel e la Silor, due aziende ottiche francesi, si fusero e aggredirono subito il mercato statunitense. La Essilor era specializzata in lenti di plastica, che stavano sostituendo quelle di vetro, e aveva anche un prodotto magico, le Varilux, le prime lenti progressive del mondo, inventate da un tecnico della Essel, Bernard Maitenaz, nel 1959. Le lenti progressive consentono a chi è miope e presbite – di solito le persone più anziane – di portare un solo paio di lenti graduate. L’azienda fece in modo che le Varilux e gli altri suoi prodotti arrivassero in tutto il mondo (l’attuale manuale della Essilor per gli addetti alle vendite ha circa quattrocento pagine).
Le lenti sono la polverina magica dell’industria ottica. Quasi nessuno sa di cosa sono fatte, come sono fabbricate e, soprattutto, come funzionano esattamente. Negli ultimi cinquant’anni convincere gli ottici a prescrivere le Essilor invece delle Hoya o delle Zeiss, le principali concorrenti dell’azienda, è stato un faticoso lavoro basato sui rapporti interpersonali. Un ottico britannico me l’ha spiegato in questo modo: “C’è differenza tra un’Audi, una Bmw e una Mercedes? Probabilmente no. Eppure preferiamo un logo all’altro o ci piace l’impressione che fanno sulla gente”. Per anni l’azienda ha invitato gli ottici alla sua accademia di Parigi, dove mangiando e bevendo hanno imparato a conoscere i suoi prodotti. “Non è proprio una forma di corruzione, è solo che funziona così”, mi ha detto un veterano del settore.
E quando tutto questo non funziona, la Essilor – come le sue concorrenti e tutti i venditori all’ingrosso – usa gli incentivi economici per conservare i clienti. Gli ottici e gli analisti del settore con cui ho parlato per scrivere quest’articolo mi hanno detto che la Essilor offre ai negozianti i cosiddetti “premi” , grandi sconti pluriennali e bonus in denaro per vendere i loro prodotti e sbaragliare la concorrenza. “La Essilor vuole dominare l’industria mondiale”, mi ha detto un venditore. “È un’azienda gestita bene. Non è spietata. Ma le permettono di fare cose che in qualsiasi altro settore sarebbero considerate contrarie agli interessi dei consumatori”.
La Essilor si vanta di rifornire dai trecento ai quattrocentomila negozi in tutto il mondo, tre o quattro volte quelli della Luxottica
Il sistema soddisfa sia la Essilor sia i suoi clienti. I margini di profitto dell’industria ottica sono un segreto ben custodito, ma chi ci lavora mi ha spiegato che, anche se gli ottici possono vendere le montature al doppio o a più del doppio del loro prezzo all’ingrosso, è soprattutto sulle lenti che guadagnano, caricandoci sopra dal 700 all’800 per cento. I margini maggiori sono quelli sulle lenti progressive e sul rivestimento protettivo – antigraffio o antiriflesso – che costa alla Essilor pochi centesimi, ma si vende a decine di euro. Perfino i dirigenti della Luxottica si meravigliano. “La Ray-Ban ha fatto bene a dire che i suoi occhiali devono costare 150 dollari, sterline, euro o qualsiasi altra valuta del mondo. Un po’ come il Big Mac, no?”, mi ha detto un ex responsabile del marketing. “Ma le lenti? Nessuno sa quanto costano. I consumatori non lo sanno. Nessuno lo sa”.
La Essilor si vanta di rifornire dai trecento ai quattrocentomila negozi in tutto il mondo, tre o quattro volte quelli della Luxottica. E non si limita a produrre lenti. Possiede più di ottomila brevetti e finanzia cattedre universitarie di oftalmologia in vari paesi. I giornali economici non ne parlano quasi mai, ma la Essilor compra laboratori ottici in Belgio, fabbriche di resina in Cina, produttori di strumenti in Israele e siti di commercio elettronico.
Le prime voci, quasi fantasie, sulla fusione tra la Essilor e la Luxottica avevano cominciato a circolare una decina d’anni fa. L’idea di combinare lenti e montature aveva il suo fascino, ma c’erano degli ostacoli non indifferenti. Il primo era di tipo culturale. Anche se è una grande azienda, la Essilor ha sempre mantenuto lo spirito di un’impresa tradizionale francese: il 55 per cento dei dipendenti sono anche azionisti. La Luxottica, invece, funzionava più o meno come una monarchia, senza nessuna delle strutture gestionali che caratterizzano la maggior parte delle aziende miliardarie. “Le decisioni venivano prese nella sala da pranzo di Del Vecchio”, ricorda un ex dirigente della sede statunitense, riferendosi ai primi anni duemila. “Prendevamo un volo per l’Italia, andavamo a casa sua, gli mostravamo il nostro piano annuale e lui diceva: ‘Procedete pure’”.
La gestione di Guerra
Nell’estate del 2004, con l’avvicinarsi del suo settantesimo compleanno, il fondatore della Luxottica cedette la gestione dell’azienda ad Andrea Guerra, un giovane manager che aveva strappato alla Indesit, produttore italiano di elettrodomestici. Con l’arrivo di Guerra, la Luxottica razionalizzò la produzione, spostandone una parte in Cina. Diventò anche più stabile e prevedibile. Il prezzo delle sue azioni triplicò. Ma secondo diversi ex dirigenti che lo conoscevano bene, Guerra era contrario a qualsiasi accordo con la Essilor, perché in prospettiva la considerava una rivale (Guerra non ha accettato di farsi intervistare per questo articolo). “Non voleva che ci fondessimo con la Essilor”, mi ha detto un collega. “Voleva proteggerci in un altro modo”.
Ma nel 2014 Del Vecchio è tornato al lavoro. Aveva 79 anni. “Siamo rimasti tutti piuttosto sorpresi”, mi ha detto un ex dirigente italiano. Del Vecchio era chiaramente preoccupato di quello che sarebbe accaduto alla Luxottica dopo la sua morte. “Quest’azienda è la sua figlia prediletta”, mi ha detto l’ex dirigente della sede statunitense. Del Vecchio ha sei figli nati da quattro matrimoni con tre donne diverse (nel 2010 ha risposato la seconda moglie, Nicoletta Zampillo), ma ha sempre detto che non saranno mai i suoi successori. Secondo alcuni alti dirigenti dell’azienda, sembra che si fosse convinto che la fusione con la Essilor fosse il modo migliore per far durare nel tempo il suo lavoro, e avviò i colloqui.
Da molti punti di vista l’ultimo capitolo del regno di Del Vecchio alla Luxottica è stato caotico e disorientante. Guerra è stato costretto a lasciare, e per tutto il periodo del suo burrascoso ritorno Del Vecchio ha continuato a tenere lo sguardo fisso sul suo obiettivo, incontrandosi in segreto con Sagnières, l’amministratore delegato e presidente della Essilor, fino a quando, nell’estate del 2016, lo stesso Sagnières ha detto che “era ovvio” che l’affare si sarebbe concluso. I due imprenditori hanno annunciato la nascita della nuova azienda nel gennaio del 2017.
Nei prossimi decenni la EssilorLuxottica avrà il potere di decidere come vedranno miliardi di persone e quanto dovranno aspettarsi di pagare per farlo. I sistemi sanitari pubblici di solito hanno problemi più urgenti da risolvere di quelli della vista: prima del 2008 l’Organizzazione mondiale della sanità non misurava neanche i tassi di miopia e presbiopia. La nuova azienda può scegliere d’interpretare la sua missione più o meno come vuole. Potrebbe condividere le nuove tecnologie, fare uno screening dei problemi di vista delle popolazioni e inondare il mondo di occhiali di buona qualità a prezzi abbordabili. Oppure potrebbe sfruttare il suo dominio commerciale per eliminare la concorrenza, aumentare i prezzi e guadagnare miliardi. Potrebbe davvero andare in un modo o nell’altro.
Non ci vuole molto per capire il quadro generale. L’anno scorso ho visitato la più importante collezione di ottica del Regno Unito, che è raccolta nel seminterrato del College of optometrists, un edificio vicino alla stazione di Charing Cross, a Londra. Negli ultimi diciannove anni Neil Hadley, lo storico del college, ha catalogato 27mila oggetti donati da ottici e fabbricanti di occhiali, e nel frattempo ha scoperto la storia di questa industria.
“Quello che ho visto è praticamente un monopolio, con tutti i rischi che comporta”, dice Hadley. Anche se è facile fissarsi sui marchi e sui profitti dei colossi dell’ottica, il settore nel suo complesso dovrà espandersi notevolmente per poter soddisfare i bisogni della crescente popolazione anziana del mondo e l’aumento della miopia tra i giovani. “Il rischio è che la risposta a questo problema non sarà una risposta”, dice. “Hanno soffocato la concorrenza e quindi nessun altro ha la possibilità di trovare la risposta giusta”. La posta è più alta in quelle zone del mondo dove la maggior parte della gente non può permettersi un paio di occhiali, quelle che l’industria chiama gli “spazi bianchi” dell’Africa, di parti dell’America Latina e dell’Asia.
“È sempre meglio se nel mercato c’è più varietà”, dice il professor Kevin Naidoo, del Brien Holden institute, una delle principali ong del mondo nel campo della salute degli occhi, a proposito delle conseguenze della fusione. “Non credo che questo si possa mettere in discussione”. Naidoo è uno degli autori di un importante saggio uscito nel 2013 in cui si prevede che entro il 2050 metà della popolazione del pianeta, circa cinque miliardi di persone, sarà miope. Nell’arco di un’unica generazione in tutto il mondo dagli inuit dell’Alaska agli studenti delle superiori dell’Irlanda del Nord, i ricercatori hanno registrato un raddoppio delle persone che diventano miopi durante l’infanzia.
Il motivo principale, secondo molti, è la riduzione del tempo che si passa all’aperto. La luce del sole contribuisce a regolare i livelli di dopamina, che a loro volta influiscono sullo sviluppo dell’occhio. Con un eccesso di dopamina il bulbo oculare cresce troppo e assume una forma oblunga, mettendo a fuoco la luce davanti alla retina, invece che su di essa. I ricercatori del settore prevedono che l’epidemia di miopia metterà in grande difficoltà i sistemi sanitari dei paesi in via di sviluppo, che già oggi non sono in grado di fornire un’invenzione del medioevo. “I sistemi sanitari riescono a malapena a garantire le cure oculistiche”, dice Naidoo. Poi si corregge. “Anzi, non ci riescono affatto. E immagina cosa succederà quando le persone che ne hanno bisogno saranno il doppio o il triplo”.
Nel 2016 la Essilor ha aperto una sede nella Rdc, un paese con 78 milioni di abitanti e solo duecento negozi di ottica
Ma Naidoo è sembrato riluttante a criticare la EssilorLuxottica. In parte perché la Essilor è la principale finanziatrice privata della ricerca sulla salute degli occhi, e una delle aziende che più insistono sulla necessità di un maggior accesso alle lenti correttive (Naidoo fa parte del consiglio d’amministrazione del Vision impact institute della Essilor a Parigi). Il budget dell’azienda per la ricerca e lo sviluppo, di duecento milioni di euro, è il triplo di quello di tutte le altre aziende del settore messe insieme. L’azienda francese ha una sezione chiamata 2.5 New vision generation, un’allusione ai 2,5 miliardi di persone che attualmente avrebbero bisogno di occhiali ma non li hanno.
Ad aprile la Essilor si è impegnata a fornire duecento milioni di lenti da vista ai novecento milioni di persone che vivono nei paesi del Commonwealth e non hanno gli occhiali. In alcuni dei mercati meno serviti del mondo la Essilor è praticamente l’unica presenza. Nel 2016 ha aperto una sede nella Repubblica Democratica del Congo, un paese con 78 milioni di abitanti e solo duecento negozi di ottica. L’anno scorso ha comprato un laboratorio in Etiopia, dove c’è in media un oculista ogni milione di persone (nei paesi europei il rapporto è uno ogni diecimila). In posti come questi gli attivisti non possono fare altro che stare a guardare e sperare. “Se dopo la fusione diminuiranno gli investimenti, sarà una tragedia”, dice Naidoo. “E il rischio c’è. Possiamo solo sperare che la nuova azienda si renda conto che è un’opportunità di crescita”.
Nel ruolo di titani
Alla Luxottica nessuno ha voluto parlare in dettaglio dei piani della nuova azienda. Le cose sono andate diversamente alla sede centrale della Essilor, che si trova in una stradina tranquilla di Charenton-le-Pont, nella zona sudest di Parigi. I manager dell’azienda francese sono in genere molto più secchioni e meno ben vestiti dei loro colleghi italiani, ma sono molto più a loro agio nel ruolo di titani nell’industria ottica globale. Sagnières ha 62 anni e l’ingenua allegria di un professore di geografia delle superiori la cui classe ha appena superato gli esami a gonfie vele. “Io ho vinto!”, dice a proposito dell’accordo con la Luxottica. “Qualunque cosa succeda io ho già vinto. Voi avete vinto, e i vostri figli! Sul serio, è proprio così”.
Come mi ha spiegato Sagnières, l’azienda ha calcolato – partendo dal presupposto che un paio di occhiali costa cinque euro – di poter fornire il mondo di lenti per circa cinquecento milioni di euro all’anno per i prossimi trent’anni. Ma la cosa altrettanto importante è che qualsiasi investimento la EssilorLuxottica deciderà di fare nella fascia più bassa del mercato probabilmente alla fine pagherà. “Sappiamo che fra tre, cinque o dieci anni la vita di quelle persone cambierà e si potranno permettere di pagare cinquanta euro per lenti migliori o altrettanto per una montatura firmata”, ha detto Sagnières. “Possiamo aspettare”.
Qualche giorno dopo sono andato a visitare uno dei centri di ricerca della Essilor, in una ex fabbrica di lenti di Créteil, alla periferia sud di Parigi. In una stanza piena di mobili dai colori vivaci, ho incontrato il dottor Norbert Gorny, il responsabile del settore di ricerca e sviluppo. Gorny, un tedesco alto e dai modi diretti che lavora da anni in questo campo, mi ha spiegato che da una decina d’anni la Essilor sta cercando di allargare quello che chiama il “corridoio dell’acuità visiva” delle sue lenti progressive. L’obiettivo è permettere alle persone di leggere sui congegni digitali mentre sono in movimento, e non più nel modo statico in cui si leggono libri e giornali. Ma l’azienda è sempre più ansiosa di raggiungere quelli che chiama i suoi “consumatori della prossima generazione”: gli abitanti dei paesi in via di sviluppo che ancora non portano occhiali. Gorny li chiama “i non corretti”.
“Lavoriamo per i 2,5 miliardi di non corretti”, mi ha detto. “Ma anche per soddisfare bisogni che non sono ancora stati espressi”. Nel pomeriggio mi ha mostrato le stanze in cui i ricercatori indossano sensori di movimento, come se fossero in uno studio di Hollywood, per misurare la profondità di visione necessaria per le attività quotidiane. Gorny mi ha parlato anche in tono scherzoso delle nuove lenti che sta sviluppando in collaborazione con misteriose aziende tecnologiche per prendere il posto del fallito progetto degli occhiali di Google di una decina d’anni fa. Ora l’idea è proiettare informazioni prese da internet – mappe, messaggi e tweet, suppongo – direttamente sul fondo degli occhi delle persone.
Ho chiesto a Gorny se pensava che nel ventunesimo secolo, con i suoi cambiamenti demografici, l’epidemia di miopia e la forte richiesta di informazioni digitali, ci sarebbe stata una seconda rivoluzione dell’ottica, come quella provocata dall’introduzione della stampa nel quattrocento. “Non so se stiamo dando il via a una rivoluzione, se stiamo assistendo a un cambiamento importante come quello di cinquecento anni fa”, ha detto. “Ma penso che stiamo lavorando nel settore giusto al momento giusto”.
Il problema è se c’è qualcuno, a parte i suoi azionisti, che potrà obbligare la EssilorLuxottica a rendere conto di quello che fa. E non sono sicuro che ci sia.
Gorny mi ha dato un passaggio alla stazione dove mi aspettava il treno per Londra. “Una volta combinate le due cose, nessuno ci può fermare”, ha detto. “Possiamo coprire tutto il mondo. Giocare in tutti i campi”. E ho pensato che una delle cose più strane per chi porta gli occhiali è che ci aiutano a vedere tutto quello che abbiamo intorno, ad accorgerci di come è realmente il mondo, ma è solo ogni tanto, a causa di un riflesso casuale, o se ci fermiamo un attimo a guardare, che vediamo quello che abbiamo sul naso.
(Traduzione di Bruna Tortorella)
Questo articolo è uscito il 22 giugno 2018 nel numero 1261 di Internazionale. L’originale era uscito sul quotidiano britannico The Guardian, con il titolo The spectacular power of Big lens.
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