Se ci ripenso, la fuga dei taliban e l’arrivo degli statunitensi nel 2001 rappresentavano un’immensa speranza. Anni d’oro. Avremmo finalmente potuto vivere normalmente. Ma oggi questa speranza è svanita. La festa è finita e i taliban sono alle porte.
Ho cominciato a lavorare per l’Afp a Kabul come autista nel 1998. Poi, a partire dal 1998, mi sono lanciato nella fotografia. I taliban detestavano i giornalisti e mi conveniva muovermi con discrezione: sempre vestito con un shawal kharmiz (la lunga camicia tradizionale abbinata a un pantalone largo) lavoravo con una piccola reflex che solitamente nascondevo in una sciarpa arrotolata nella mano. Era proibito, per esempio, fotografare tutti gli esseri viventi, sia gli uomini sia gli animali. Era contrario alla loro concezione dell’islam.
Mi ricordo di un giorno in cui fotografavo le file delle persone in attesa davanti ai forni: la vita era difficile, non c’era lavoro e i prezzi s’impennavano. Alcuni taliban si sono avvicinati, chiedendomi “che fai?”. “Niente”, gli ho risposto. “Fotografo solo il pane”. Fortunatamente era l’epoca precedente al digitale e non potevano controllare lo schermo della macchina fotografica. Di solito, per sicurezza, non usavo il mio nome per il mio lavoro di fotografo, firmandomi “str” per brevità.
Presidiare l’ufficio
All’epoca l’Afp non aveva un ufficio a Kabul. Stava in una villa a Wazir Akbar Khan, lo stesso quartiere residenziale e diplomatico in cui si trova ancora oggi. Gli inviati speciali facevano a turno. Tra loro c’era il gigante neozelandese Terence White. Andavamo regolarmente sulla linea del fronte nella piana di Shomali, a nord di Kabul, dove l’Alleanza del nord combatteva ancora con i taliban.
Tranne la Bbc, rimanevano solo tre agenzie: Afp, Ap e Reuters. Poi, nel 2000, tutti gli stranieri sono stati cacciati. Mi sono trovato a dover presidiare l’ufficio, dal quale trasmettevo le informazioni a quello d’Islamabad, in Pakistan, grazie a un telefono satellitare.
L’11 settembre ho visto sulla Bbc gli aerei che si schiantavano sulle torri gemelle di New York, senza immaginare neanche per un secondo le possibili conseguenze per l’Afghanistan. Una sera mi chiama l’ufficio di Islamabad: “Ci sono voci di un attacco statunitense”. Dalle nostri parti, non si muoveva niente. Qualche ora più tardi, il 7 ottobre, i bombardamenti cominciarono a colpire Kandahar (la grande città del sudest, vicina alla frontiera pachistana).
Stavo per trasmettere le informazioni a Islamabad per telefono, quando ho sentito degli aerei su Kabul. Le prime bombe sono cadute sull’aeroporto. Non ho dormito per tutta la notte e non potevo uscire.
L’indomani mattina, quando sono arrivato nei pressi dell’aeroporto, c’erano alcune decine di taliban vestiti di nero. Uno di loro s’è avvicinato e mi ha detto: “Senti, oggi sono buono, non ti uccido ma levati subito dai piedi”.
Sono tornato indietro e ho lasciato la mia auto vicino all’ufficio. La città era deserta. Allora riavvicinato all’aeroporto con la bicicletta, come una persona comune, con la mano destra sul manubrio avvolta in uno scialle per nascondere la macchina fotografica: ho potuto così scattare sei foto, non una di più! Senza sapere se avremmo potuto trarne qualcosa. Alla fine ne ho inviate due. Solo due.
Poi, un mattino, tutti i taliban sono scomparsi e gli uomini dell’Alleanza del nord sono entrati a Kabul da liberatori. Gli statunitensi, con i loro bombardamenti e le loro forze speciali, avevano portato a termine la loro missione.
Era incredibile vedere così tanti stranieri dopo tutti quegli anni. Arrivavano da ogni parte, al seguito degli americani
Le strade erano piene di gente, le persone uscivano di casa, tornavano a vivere. Ho visto alcune di loro che saccheggiavano l’ambasciata pachistana. È allora che sono cominciati ad arrivare degli elicotteri pieni di colleghi: un rinforzo dell’Afp era entrato con le forze dell’Alleanza del nord, dopo un periplo che da Mosca lo aveva fatto passare per il Tagikistan. Altri sono arrivati in seguito da Islamabad.
Presto ci siamo ritrovati in una decina nella casa di Wazir Akbar Khan. L’ufficio non si svuotava. Kabul era in festa: era diventata il “Giornalistan”. Davo una mano a tutti per trovare un alloggio, un’automobile, un tuttofare, dare dei consigli sulle strade. Il mio migliore amico mi ha proposto di metterci in società per aprire la Sultan guesthouse, la prima del genere a Kabul: avrei dovuto accettare, visto che ha fatto fortuna.
Era incredibile vedere così tanti stranieri dopo tutti quegli anni. Arrivavano da ogni parte, al seguito degli americani. I giovani li seguivano nelle strade. Mi ricordo di un ragazzo che non riusciva a riprendersi dall’emozione: “È il primo dollaro che tengo in mano”, ripeteva.
Tutto tornava a essere possibile, anche le cose più semplici, come andare dal barbiere per farsi radere. Nessun combattimento in città. Dappertutto truppe britanniche, francesi, tedesche, canadesi, italiane o turche. Soldati provenienti da tutto il mondo pattugliavano a piedi le strade della città. Ci presentavamo a loro e io potevo fotografarli, sereni e sorridenti. Si poteva viaggiare liberamente nell’Helmand (una provincia del sud, regno del papavero, oggi infestata di ribelli), nell’est, nell’ovest.
La sicurezza era garantita. E poi…
E poi nel 2004 i taliban sono tornati, prima nella provincia di Ghazni (nel sudest). E poi, nel 2005 e 2006, hanno cominciato a diffondersi, come un virus e a Kabul sono cominciati gli attentati, diretti in particolare verso i luoghi frequentati dagli stranieri. La festa era finita.
Non ho più granché da mostrare e le persone non sono più tanto ben disposte nei confronti delle macchine fotografiche
Oggi i taliban sono nuovamente dappertutto e noi, per la maggior parte del tempo, rimaniamo bloccati a Kabul. Da tre anni in tutta la città si moltiplicano i t-wall (dei blocchi di cemento verticali) per proteggersi dalle autobomba e dai camion-bomba. Non ho più granché da mostrare e le persone non sono più tanto ben disposte nei confronti delle macchine fotografiche, soprattutto quando lavori per un’agenzia straniera. Si chiedono se tu sia una spia.
Naturalmente la città è cambiata dopo il 2001, con la costruzione di edifici nuovi di zecca, l’apertura di grandi viali che hanno sostituito le stradine. Le cicatrici della guerra sono scomparse, basta guardare: a parte il palazzo di Darulaman, l’ex palazzo reale, non vedrete un solo edificio in rovina. I negozi sono pieni e ci si trova di tutto.
Ma non c’è più speranza. La vita mi sembra ancora più dura che sotto i taliban, a causa dell’insicurezza. Non oso portare fuori i miei figli, che passano le loro giornate chiusi in casa. Ogni mattina quando vado in ufficio, ogni sera quando torno a casa, penso all’autobomba o al kamikaze che potrebbe sbucare dalla folla. Non posso far correre a loro un rischio simile. E allora non usciamo. Conservo sempre il ricordo di Sardar, il mio collega ucciso con sua moglie e due dei suoi figli mentre erano all’hotel Serena. Solo il figlio piccolo è sopravvissuto.
Non ho mai sentito di avere così poche prospettive. E non vedo via d’uscita. È il tempo dell’angoscia.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è stato pubblicato sul blog Making-of dell’Agence France-Presse. Nel blog, giornalisti e fotoreporter raccontano il loro lavoro.
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