È il 2019. Otilia Martínez Cruz e il figlio ventenne Gregorio Chaparro Cruz fanno parte della comunità indigena tarahumara, in Messico. Si battono da tempo per fermare la deforestazione illegale nelle loro terre ancestrali sulla Sierra Madre. Chi trae profitto dalla deforestazione illegale cerca di impedirlo a tutti i costi e assume dei sicari. Pochi mesi dopo, madre e figlio vengono trovati morti davanti alla loro casa a El Chapote, nel nordest del paese.
L’anno dopo, Óscar Eyraud Adams, della comunità indigena Kumiai, viene assassinato a Tecate, ancora una volta in Messico, per aver difeso l’acqua del territorio, che cominciava a scarseggiare a causa della crescente siccità. Eyraud Adams voleva che tutta la comunità potesse avere accesso all’acqua, e lavorava per chiedere il permesso alle autorità per creare nuovi pozzi d’acqua, ha raccontato la madre Norma Adams Cuero. Raramente questo diritto gli è stato concesso. “Le grandi aziende hanno un accesso molto più facile all’acqua. Non è giusto: noi ne abbiamo bisogno per sopravvivere”, aveva detto Eyraud Adams.
Gli omicidi dei “difensori della terra e dell’ambiente” non si fermano: dal 2012 la ong Global witness raccoglie documenti, testimonianze e dati su queste storie e in un rapporto recente ha concluso che negli ultimi dieci anni sono state uccise più di 1.700 persone. Solo nel 2021, ne sono state uccise quasi quattro ogni settimana, dal Messico al Brasile, dalle Filippine alla Repubblica Democratica del Congo.
Poche indagini
Lo sfruttamento degli ecosistemi, che contribuisce in gran parte a causare la crisi climatica, guida anche la violenza contro coloro che si battono per proteggere il clima e il pianeta. E secondo Global witness quello che sappiamo della crisi climatica rispecchia ciò che è alla base di queste violenze: i suoi impatti sono diseguali, alcune grandi aziende sono responsabili, i governi contribuiscono alle cause, senza riuscire a prevenirle in alcun modo.
Così come Global witness, altre organizzazioni per la difesa dei diritti hanno documentato negli anni come aziende e istituti finanziari continuino a operare nella quasi totale impunità, puntando al profitto e ignorando o, peggio ancora, nascondendo le violazioni dei diritti umani e lo sfruttamento degli ecosistemi.
“Le uccisioni di difensori sono molto raramente oggetto di indagini. In alcuni casi, i governi le ostacolano perché c’è collusione con l’azienda al livello locale o regionale e questo diventa un fattore chiave,” ha spiegato a Internazionale Ali Hines, senior campaigner di Global witness. “Se nessuno è ritenuto responsabile, si dà il via libera ad agire con impunità”.
Le violenze contro i difensori della terra e dell’ambiente si concentrano nei paesi del sud del mondo e nelle comunità marginalizzate
Poiché l’equilibrio di potere è a favore delle aziende e non delle persone o delle comunità, raramente un’azienda è tenuta a rispondere delle conseguenze delle proprie attività.
E altrettanto è raro che qualcuno sia arrestato o portato in tribunale per l’uccisione di difensori della terra e dell’ambiente: nel 2021, più di un quarto è stato associato a estrazione mineraria e attività di disboscamento e agroalimentare su larga scala. Tuttavia, sostiene l’ong, è probabile che questa cifra sia più alta, proprio perché gli attacchi spesso non sono adeguatamente segnalati, denunciati e investigati. Nella maggior parte dei casi in cui non è stato possibile identificare un settore specifico come causa diretta delle violenze, il conflitto per il controllo delle terre risulta un fattore scatenante.
Global witness sottolinea che risulta evidente come molte aziende siano impegnate “in un modello economico estrattivo che privilegia in modo preponderante il profitto rispetto ai danni agli esseri umani e all’ambiente. Sono sempre gli stessi i settori coinvolti che abbiamo individuato nel corso degli anni e, al livello generale, si tratta dell’estrazione di risorse guidata dal profitto che diventa prioritaria rispetto alle tutele sociali”, ha detto Hines.
Le problematiche alla base di tutto riguardano le diseguaglianze strutturali, economiche e sociali. Infatti, le violenze contro i difensori della terra e dell’ambiente si concentrano nei paesi del sud del mondo e nelle comunità marginalizzate. Nel 2020, tutte le 227 uccisioni di difensori registrate da Global witness (tranne una) sono avvenute nel sud globale. Tra il 2015 e il 2019 più di un terzo di tutti gli omicidi ha riguardato le comunità indigene, che rappresentano solo il 5 per cento della popolazione mondiale ma preservano l’80 per cento della biodiversità globale.
Far tacere chi denuncia
Quando non arrivano all’omicidio gli attacchi consistono in minacce di morte, criminalizzazione, stupri o persecuzione.
In Papua Nuova Guinea, Cressida Kuala, fondatrice dell’Associazione delle donne del Porgera Red Wara, lavora per aiutare le donne indigene che sono state sfollate a causa delle operazioni minerarie o abusate sessualmente dai dipendenti delle compagnie. Dopo aver denunciato l’impatto devastante dell’attività mineraria nella sua comunità, Kuala ha ricevuto minacce ed è stata stuprata nel 2019. Nonostante i pericoli che corre, continua a battersi per il riconoscimento dei diritti delle donne.
In alcuni casi, l’obiettivo è quello di mettere a tacere chi solleva critiche o fa luce su attività illegali e abusi, costringendo le persone a spendere tempo e denaro per difendersi da diffamazioni e attacchi. In Sudafrica, Lucky Shabalala ha guidato una protesta della comunità contro una miniera di carbone gestita dall’azienda mineraria Ikwezi. Shabalala è stato accusato di aggressione e intimidazione e trascinato in tribunale. L’azienda ha ritirato la causa nel luglio del 2019, ma l’uso di tattiche simili contro gli attivisti ambientali è sempre più comune, sottolinea Global witness.
Inoltre, nei paesi dove la società civile è indebolita, con alti livelli di corruzione alle prese con conflitti interni, gli omicidi di chi cerca di difendere l’ambiente possono essere più frequenti.
In Brasile, dove con la presidenza Bolsonaro la deforestazione ha raggiunto livelli record, grandi aziende internazionali come la Ferrero, la Hershey’s, la Kellogg, la Mondelez, la Nestlé, la PepsiCo, la Unilever, la Adm, la Bunge, la Cargill, la Danone e altre, continuano ad acquistare olio di palma dalla Brasil biofuels (Bbf) e dall’Agropalma. Secondo Global witness quest’attività contribuisce alla violenza, all’accaparramento illegale di terre e allo sgombero forzato delle comunità indigene locali, ma entrambe le aziende negano le accuse, nonostante
le popolazioni indigene che vivono nell’area abbiano condiviso testimonianze di intimidazioni, torture e abusi fisici commesse da guardie di sicurezza armate e milizie che sembrano essere state assunte dalla Bbf.
Le elezioni presidenziali in Brasile, che vedono l’attuale presidente Jair Bolsonaro al ballottaggio contro Luiz Inácio Lula Da Silva, avranno delle conseguenze importanti anche per la tutela delle comunità indigene e la salvaguardia degli ecosistemi. “Le elezioni in Brasile sono state descritte come l’ultima possibilità di salvare l’Amazzonia,” ha detto Hines. “Abbiamo visto come il governo Bolsonaro negli ultimi quattro anni non solo non abbia affrontato la violenza, ma abbia messo attivamente a rischio i diritti e la sicurezza delle popolazioni indigene”. Secondo Hines, il Brasile è l’esempio perfetto di come la crisi climatica e i rischi che corrono i difensori siano interconnessi. I difensori della terra e dell’ambiente non si battono solo contro lo sfruttamento degli ecosistemi e le attività inquinanti, ma guidano anche l’azione contro l’emergenza climatica.
Negli anni ci sono stati anche risultati positivi. Dopo una delle più grandi proteste del Sudafrica postapartheid nel dicembre 2021, le comunità indigene della Wild coast nel Capo Orientale hanno ottenuto un importante risultato legale contro il gigante petrolifero Shell. La vittoria è stata un passo cruciale nella lotta al cambiamento climatico, in particolar modo dopo la decisione storica di un tribunale olandese che nel 2021 ha richiesto alla Shell di ridurre le sue emissioni del 45 per cento entro la fine del 2030.
“I difensori sono in prima linea nella crisi climatica, sono loro a risentire degli impatti peggiori dell’alterazione del clima e degli eventi meteorologici estremi, che si tratti di incendi in Amazzonia o di inondazioni nelle Filippine”, ha dichiarato Hines, “ma sono anche loro che lottano contro le industrie che distruggono il clima e il pianeta, sia che si tratti di disboscamento o di industrie del petrolio e del gas”.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it