Sul fronte del clima la notizia più sorprendente degli ultimi giorni non riguarda né la siccità che colpisce la Francia né la successione di canicole che hanno sottoposto per diverse settimane decine di milioni di indiani e pachistani a condizioni al limite dell’invivibile.

No, l’attualità climatica più inquietante delle ultime settimane arriva dalla creazione, all’interno del Forum di Parigi sulla pace, della Commissione mondiale per la gestione dei rischi legati al superamento climatico (cioè della soglia di 1,5 gradi di aumento delle temperature). L’avvio dei lavori, il 17 maggio, è passato inosservato, ma questa nuova istituzione merita invece la nostra piena attenzione.

La quindicina di componenti della commissione – ex commissari europei, capi di stato o ministri dei paesi del nord e del sud, diplomatici di alto livello eccetera – si occuperà di problematiche che finora non sono state mai esaminate a questo livello. Stavolta si parla ufficialmente di pensare alle condizioni di impiego delle tecniche di geoingegneria – ovvero i metodi di modifica climatica su larga scala – non solo in merito alla fattibilità, ai benefici e ai rischi ma anche alla loro gestione.

Un tabù cancellato
Il semplice fatto che queste tecniche siano ufficialmente inserite nel dibattito dovrebbe suscitare una profonda inquietudine. Questo significa prima di tutto che sta svanendo la speranza di impedire che il clima terrestre segua una deriva catastrofica. Inoltre la radicalità di alcune soluzioni ipotizzate per garantire l’abitabilità di una Terra surriscaldata evidenzia la gravità della situazione. Alcune proposte somigliano a un incubo distopico inimmaginabile fino a pochi anni fa. Ora queste tecniche sono prese sul serio: non ancora dalla diplomazia della convenzione-quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici ma da un’istituzione che ne è l’anticamera.

“La riduzione considerevole e rapida delle emissioni dev’essere l’obiettivo centrale di qualsiasi politica climatica, ma l’azione collettiva contro il surriscaldamento deve tenere conto di tutte le possibilità per ridurre attivamente i rischi”, si legge nella presentazione della nuova commissione. “Queste opzioni comprendono misure di adattamento considerevolmente ampliate per ridurre la vulnerabilità climatica, l’eliminazione della CO2 dall’atmosfera ed eventualmente la geoingegneria solare per raffreddare il pianeta riducendo la quantità di raggi solari che lo raggiungono”.

Chi terrà le mani sul termostato del pianeta? Alcuni paesi potrebbero decidere di usare unilateralmente questo tipo di tecnologie?

La sola evocazione della geoignegneria solare cancella un tabù. Il principio, proposto nel 2006 dal chimico dell’atmosfera Paul Crutzen, consiste nell’iniettare nell’alta atmosfera particelle destinate a occultare parte della luce solare, facendo in questo modo abbassare il termometro mondiale.

Ma questa diga artificiale avrebbe un prezzo, dall’invio regolare di decine di migliaia di palloni nella stratosfera per bruciare zolfo e disperdere le particelle di solfati al dispiegamento di una gigantesca flotta di aerei da carico destinati a liberare ogni anno milioni di tonnellate di particelle a oltre dieci chilometri di altitudine. Per non parlare dei possibili effetti collaterali: perturbazione dei monsoni, riduzione delle precipitazioni, alterazione delle correnti marine, inquinamento atmosferico aumentato dalla ricaduta dei particolati dall’alta atmosfera e via dicendo. Questo “scudo”, tra l’altro, non avrebbe alcun effetto contro l’acidificazione degli oceani.

Niente più cielo blu
Soprattutto questa scelta ci metterebbe in una situazione pericolosa. Cosa accadrebbe se dopo qualche decennio, per cause come una guerra o una crisi economica, fosse impossibile proseguire le operazioni complesse e costose di iniezione delle particelle nella stratosfera? A quel punto le temperature tornerebbero immediatamente a salire a una velocità vertiginosa, rendendo illusoria qualsiasi possibilità di adattamento. Il sogno demiurgico di controllare il clima porterebbe di fatto l’umanità in una situazione inedita di dipendenza vitale dalle accelerazioni tecnologiche.

La comunità scientifica discute questi temi ormai da una quindicina d’anni. Il parere dominante è che la geoingegneria solare sia da vietare, ma sia comunque giusto continuare a studiarla nel caso in cui un improvviso peggioramento del riscaldamento climatico renda la situazione invivibile.

Nel dicembre del 2008, in occasione del congresso d’autunno della American geophysical union, è stata organizzata una tavola rotonda di ricercatori di scienze climatiche su questo argomento. Gli esperti hanno parlato della scienza climatica in senso stretto, dei risultati dei modelli climatici che simulano l’uso della geoingegneria solare ma anche dei problemi posti dalla gestione di questi sistemi, ovvero quelli di cui si occuperà la nuova commissione. Chi terrà le mani sul termostato del pianeta? Alcuni paesi potrebbero decidere di usare unilateralmente questo tipo di tecnologie? Come sarebbero risarciti quelli che pagherebbero le conseguenze di una tale volontà di controllare il clima planetario?

Al termine della discussione del 2008 il fisico dell’atmosfera Alan Robock (dell’università di Rutgers, nel New Jersey), uno dei migliori specialisti di questo argomento, aveva sottolineato che la geoingegneria cambierebbe anche il colore del cielo, che perderebbe il suo blu profondo diventando biancastro. “Qualcuno dovrebbe spiegarmi come faremo a risarcire i miliardi di esseri umani che sarebbero privati del blu del cielo”, aveva ironizzato Robock. Chi poteva pensare che quella battuta, appena quindici anni dopo, si sarebbe trasformata in un argomento di riflessione per un gruppo di diplomatici ed ex capi di stato?

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è uscito sul quotidiano francese Le Monde.

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