Gli U2 erano una mia certezza di liceale. E il 1983-87, da War a The joshua tree, era stato un’escalation di crescita loro e mia. Poi nell’88 io smisi di dedicare soldi e orecchie alla musica pop, eRattle and hum mi fece pensare che anche Bono e soci si erano un po’ seduti, e non si sarebbero più meritati troppa attenzione. Così quando spuntò Achtung baby, nel 1991, lo presi, lo sentii, ma non gli volli mai davvero bene.
Ora mi sono preso la ristampa in cd (anche perché fino al 1994 il mio pop era strettamente in vinile, che è più scomodo e giace a Milano). L’ho messa nelle miecuffione da lavoro. E la track one, Zoo station, mi è letteralmente esplosa in testa. I primi 45 secondi di sto pezzo sono la cosa più avanti che mi venga in mente in assoluto del mondo pop mainstream degli ultimi trent’anni.
Secondo la bella voce di wikipedia, l’idea era di far pensare all’ascoltatore che arrivava a casa con l’album che, per errore, gli avevano dato il disco sbagliato, o che il giradischi era rotto. Funziona: se fosse possibile fare un blind test con Where the streets have no name, che apre Joshua tree, e Zoo station, vorrei sapere in quanti indovinerebbero che sono gli stessi musicisti.
Io ci passai su distratto: ero più piccolo e scemo di quel che il mio scaffalone di lp a casa mi facesse credere. Ora sono più vecchio e gli U2 mi annoiano blandamente da anni. Mi ero semplicemente fermato troppo presto. Ma la guerra che mi è scoppiata in testa stamani lascerà il segno.
Sarà vero che da dieci anni il pop si suona addosso, tra vecchi e vecchiumi. Ma tre quarti di minuto di Zoo station mi bastano come lezione per la vita: non perdere mai la speranza. Mai. Le cose capitano.
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