(Grigorios Moraitis, Getty Images)

Si può pensare tutto il male del mondo di Marcello Dell’Utri, o tutto il bene, o non pensarne un bel nulla (è grosso modo il mio caso); ma dover sottoporre la propria libridine alle restrizioni di un regolamento carcerario, esiste incubo più spaventoso per un bibliomane? Sul razionamento dei libri in carcere ha ragionato Adriano Sofri in due articoli recenti, il primo sul Foglio, il secondo su Repubblica. Non illudiamoci che il discorso non ci riguardi.

Tutto sta a non finire in prigione, dirà qualcuno, e non è così difficile: in fondo, la bibliomania è una perversione socialmente innocua. Ed è qui l’errore. Serva da monito il caso miserando del teologo e pastore protestante Johann Georg Tinius (1764-1846), che per appagare la sua fame di libri si mise prima a rubare soldi dalle casse della chiesa, poi a uccidere ricche e attempate signore con un martello appuntito, il tutto per procacciarsi soldi, soldi, soldi e ampliare la sua già smisurata biblioteca.

Tsundoku è un demone non meno sanguinario ed esigente del Pazuzu dell’Esorcista, e quando lo avremo capito sarà troppo tardi, e saremo già in una cella di due metri per due. Che fare, allora? Supponiamo che il regolamento carcerario consenta di tenere solo tre libri in cella. Il cattolicissimo Gilbert K. Chesterton stupì un suo intervistatore dicendo che su un’isola deserta, più che la Bibbia, una persona assennata avrebbe voluto con sé il Thomas’s Guide to Practical Shipbuilding, un manuale per costruire imbarcazioni. Allo stesso modo, la nostra prima scelta potrebbe cadere su una delle tante rassegne di evasioni celebri nella storia (ce n’è una recente di tale Paul Simpson, The Mammoth Book of Prison Breaks, Running Press 2013). Ma figuriamoci se il bibliomane medio - gracile, allampanato, poco scaltro e a forte rischio di goffaggine autolesionistica - può tentare un’eroica fuga da Alcatraz o dai Piombi.

L’evasione non è tra le opzioni, se non quella che si pratica per vie fantastiche. Ecco dunque l’occorrente:

Jack London, Il vagabondo delle stelle (Adelphi 2005)

Basterà riportare un passo dalla quarta di copertina: “All’inizio siamo infatti nel braccio degli assassini di San Quentin, in California, dove il protagonista viene regolarmente sottoposto alla tortura della camicia di forza. Ma in quella condizione disperata, con feroce autodisciplina, riuscirà a trasformarsi in un moderno sciamano che attraversa le barriere del tempo come muri di carta. Amato da lettori fra loro distanti come Leslie Fiedler e Isaac Asimov, Il vagabondo delle stelle, ultimo romanzo di Jack London, è anche il suo libro più originale, estremo – che si colloca in una regione di confine del firmamento letterario, fra Stephen King e Carlos Castaneda“… E David Lynch, aggiungerei. Non è all’incirca la stessa idea di Strade perdute (1997), o almeno di una delle possibili ricostruzioni di quel garbuglio narrativo? Tutto sta a diventare allegri sciamani e non schizofrenici che partoriscono un Doppio infernale. È appena il caso di sottolineare che un’istituzione stupida come il carcere tende a produrre in serie casi del secondo tipo.

Ioan Petru Couliano, I viaggi dell’anima (Mondadori 1991)

Non è il libro migliore di Couliano, ma se avessi proposto il suo gemello più affascinante, Uscite dal mondo di Elémire Zolla (Adelphi 1992) mi sarei attirato accuse di monotonia e di monomania. In cella, I viaggi dell’anima si può leggere come l’equivalente soprannaturale di un dépliant turistico. Tra le destinazioni offerte ci sono la quarta dimensione, il mondo ultraterreno mesopotamico, i Sette Palazzi della Kabbalah. Anche solo a scorrere i titoli dei capitoli, poi, si capisce che i mezzi di trasporto sono perfino più allettanti delle mete: “Cavalcate a dorso di gru, evocazione dell’anima e spose fantasma nella Cina taoista”; oppure, “Viaggi interplanetari. Lo spaceshuttle platonico, da Plotino a Marsilio Ficino”. Qualcosa mi dice che un detenuto, salito a bordo dello spaceshuttle platonico, potrebbe incappare in una variante del paradosso dei gemelli e uscire di cella miracolosamente ringiovanito, dopo aver visto appassire ad uno ad uno i suoi carcerieri.

Luigi Pirandello, Mondo di carta (1909)

Sono poche pagine, ma per leggerle in cella bisogna mettere in bisaccia tutte le Novelle per un anno, e non dico che sia un male. Se il romanzo di Jack London sembrava anticipare il film di Lynch, questa novella di Pirandello è la perfetta prefigurazione di uno degli episodi più celebri di Ai confini della realtà, Tempo di leggere, scritto da Rod Serling a partire da un racconto di Lynn Venable. Il bibliomane Balicci vive tra i suoi libri, e “come quegli animali che per difesa naturale prendono colore e qualità dai luoghi, dalle piante in cui vivono, così a poco a poco era divenuto quasi di carta: nella faccia, nelle mani, nel colore della barba e dei capelli”. Un giorno, però, perde la vista. Il medico gli comanda di stare quaranta giorni al buio, e lui si reclude intristito nella sua biblioteca: “Eccolo lì, tutto il suo mondo! E non poterci più vivere ora, se non per quel tanto che lo avrebbe aiutato la memoria! La vita, non l’aveva vissuta: poteva dire di non aver visto bene mai nulla: a tavola, a letto, per via, sui sedili dei giardini pubblici, sempre e da per tutto, non aveva fatto altro che leggere, leggere, leggere. Cieco ora per la realtà viva che non aveva mai veduto; cieco anche per quella rappresentata nei libri che non poteva più leggere”. Anche una biblioteca può trasformarsi in un carcere, a quanto pare.

“Ma tutto questo non ci riguarda!”, penserete voi. D’accordo, ma prima leggete qui e meditate ancora sulle sventure del povero bibliomane pirandelliano: “La grande confusione in cui aveva sempre lasciato tutti i suoi libri, sparsi o ammucchiati qua e là sulle seggiole, per terra, sui tavolini, negli scaffali, lo fece ora disperare”… Devo proprio evocarlo, il nome del demone da cui Balicci era posseduto?

Guido Vitiello insegna alla Sapienza di Roma. Oltre che con Internazionale, collabora con il Corriere della Sera, il Foglio e il Sole24Ore. Ha un sito: UnPopperUno

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