Chi ama De André può riuscire a non ricordare perfettamente parole e melodia di Verranno a chiederti del nostro amore, chi odia Al Bano e Romina sa benissimo come fa Felicità. Il brano di Cristiano Minellono, Dario Farina e Gino De Stefani dura tre minuti e ripete ventisette volte la parola del titolo. A dispetto di questo è una canzone crudelissima: martella un solo concetto e un solo effetto fonetico (taratatà), senza tregua e senza pietà. Prima e ultima parola del testo è felicità e quando non chiude il verso con essa (come accade una sola volta nei primi quindici) ricorre a un che relativo più corta forma verbale in –a (che sa, che fa, che va) o all’avverbio già. Al Bano e Romina ci conducono in una marcia a tappe forzate verso la felicità e non tollerano defezioni. Nei singoli versi s’incontra con frequenza la rima interna (”sguardo innocente in mezzo alla gente”, “bicchiere di vino con un panino”, “biglietto dentro al cassetto”) in modo da accentuare ancora di più il carattere imperativo della ripetizione. Felicità, cantata per la prima volta a Sanremo con due anni d’anticipo sul 1984, è un brano molto orwelliano e si pianta potente nella tua mente… Ecco comincio a scrivere come quella canzone, e tutti dobbiamo riconoscere che, piaccia o non piaccia, una volta ascoltata non la si dimentica più.
Per estremo paradosso quell’ipnotico motivo fece dimenticare, sul palco dell’Ariston 1982, allo stesso Al Bano il testo esatto. Corse in suo aiuto la razionale e dolce Romina, in un momento trottolino amoroso rimasto ineguagliato nella storia di Sanremo. Ieri sera, nella grande reunion che non potevamo lasciare alla sola Russia, ma dovevamo portare anche a Sanremo (così spiega di continuo Carlo Conti), Felicità ha avuto ovviamente la parte regina. Cantata per intero, ha concluso il medley e, giusto per insistere ancora un poco, è stata ripetuta un’ultima volta prima dell’uscita di scena dei due artisti, per i quali la felicità insieme è solo un ricordo. L’organizzazione che paga e tutto il pubblico dell’Ariston che applaude hanno però chiesto con protervia infantile il bacio.
Forse in questo sessantacinquesimo festival verranno a imprimersi nella nostra memoria, volente o nolente, altre canzoni, componendo parole e suoni in un insieme irresistibile. È comunque interessante leggere i soli testi astraendoli dalle performance sul palco, non tanto per dare sfogo alle cattiverie sul poetese, sul linguaggio che mira alla poesia e sbaglia bersaglio, quanto per cercare di capire com’è il mondo di questi brani. Non sarà forse un caso che nelle venti canzoni dei big felicità compaia solo due volte e appunto in forma di memoria. Nina Zilli in Sola confessa autolesionistica “mi piace farmi male e ricordare la felicità cos’è”, mentre Lara Fabian, già sul palco ieri sera insieme ad altri nove artisti, canta affinché si possa “scoprire ancora la felicità chiusa in noi” (Voce).
L’esercizio di lettura dei testi del festival dovrebbe riuscire pure utile se, come amano dire in Rai, Sanremo è lo specchio dell’Italia. E hanno quasi ragione, basta infatti aggiungere una lunga serie d’intermediari, ovvero – perdonate le necessarie contorsioni di questa frase che peraltro semplifica – chi scrive le canzoni per Sanremo si propone di rappresentare quello che immagina che la Rai intenda per “rappresentare l’Italia”. Non è sempre facile: ieri sera, per esempio, la Rai ha mostrato che per rappresentare perfettamente e tipicamente il paese desidera una famiglia con sedici figli. Carlo Conti ne ha esibita una sul palco: la mamma che li ha partoriti con dolore sta zitta e sul palco parla solo il padre (ah sì lui è microfonato, nota Conti) che tiene moltissimo a farci subito partecipi delle sue convinzioni religiose e a suscitare un bell’applauso per esse.
Ma vediamo velocemente qualche altro spunto nei testi. In numerose canzoni troviamo, come avrete forse immaginato, un amore. Un amore che è davvero molto ma molto grande e cerca le parole giuste per dirsi. E spesso ne basta una: amore. Il Volo, giovane trio di “musica pop lirica”, nel brano Il grande amore già nel titolo non corre il rischio di essere frainteso e nel testo spiega: “Senza più timore te lo voglio urlare questo grande amore \ Amore, solo amore [continua]”.
Per cuore che rima da contratto con amore scegliamo invece Moreno in Oggi ti parlo così: “È la passione il pass per arrivare al cuore e tenerlo vivo come un by-pass \ Si frà dai gas abbiamo il telepass”. Con sorpresa si noterà come le metafore tengano e non provochino l’infarto dell’innamorato, viene invece da chiedersi cosa intenda di preciso Lorenzo Fragola in Siamo uguali con “il cuore è il tuo bagaglio a mano perché hai tutti i pregi che odio e quei difetti che io amo”. La parte dopo il perché è limpida, il cuore piccolo trolley e il senso di quel perché un po’ meno, forse.
Con il bagaglio o senza, l’amore del cuore eleva. In Straordinario di Chiara, canzone d’apertura della serata di ieri, abbiamo due innamorati che “a piedi nudi e mano nella mano” salgono “sopra il cielo.” Sin qui tutto bene, siamo in pieno territorio Federico Moccia e ci si orienta senza fatica. Chiara però prosegue con l’ascensore celeste, dritta “fino al paradiso”, e non ci siamo ancora perché bisogna andare “un po’ più su” (dove regna incontrastato Modugno, che ben prima dei tre metri sopra al cielo invitava a volare felice “più in alto del sole ed ancora più su”). Cielo, sopracielo e paradiso non bastano, questo amore è talmente grande e straordinario che ci porta perfino oltre. Ma una volta arrivati scopriamo che andando “dritti fino al paradiso un po’ più su tutto intorno esplode l’universo”. Insomma l’ascesa si conclude in un universo che esplode e questo non parrebbe il luogo ideale per un amore. Ma naturalmente è l’amore a esplodere eccetera.
Meno catastrofici su scala cosmica, ma sempre con la passione dei botti i Dear Jack ieri sera hanno cantato Il mondo esplode tranne noi. E di nuovo incontriamo la fissazione di quello che c’è sopra il cielo, ma qui con bella sorpresa le idee platoniche dell’ora di filosofia sostituiscono il paradiso del catechismo: “Nascosta, tra cielo e terra, diventi aria e cresci fino alle idee”.
Al festival i sentimenti privati dominano, ma non è infrequente che vi sia una singola canzone con il messaggio importante, un brano che ha estratto la pagliuzza più corta e quindi si fa carico per tutti del tema che scotta e scuote la società. Gianluca Grignani, ieri sul palco con Sogni infranti, non si sacrifica, ma nel suo pezzo troviamo comunque una fiera invettiva contro l’infotainment dei Bruno Vespa armati di kalashnikov giocattolo: “Ormai è un po’ che guardo con freddezza e con distanza l’informazione e lo show che fan la stessa danza”. Ma quel testo colpisce soprattutto per uno stranissimo pezzo teologico che, se ho compreso bene, recita: “Io se solo io fossi Dio avrei un sentimento anche io come gli altri”. E insomma, di solito, se uno è Dio non è proprio “come tutti gli altri, uomini o santi ingannati dai troppi sogni infranti”.
Veniamo, in conclusione, a Io sono una finestra, la canzone davvero impegnata. Grazia Di Michele e Maurizio Coruzzi ci si buttano a testa bassa e nella loro esibizione di ieri tutto voleva comunicare l’intensità, l’intimità e la profondità del momento, a cominciare dalla coppia di poltroncine bianche prelevate da un’intervista commovente di Domenica In e piazzate sul palco dell’Ariston. Il testo si preoccupa di mostrare che sa un sacco di parole strane e difficili e così segnala la serietà e artisticità dell’operazione. Niente cuore che rima con amore e dolore, al loro posto troviamo corriva, iconoclasta, lasciva, cangiante, crisalide e guado. Il premio Zingarelli per il linguaggio forbito è quindi ufficialmente già assegnato a questo Io sono una finestra; per apprezzare il linguaggio e l’ideologia occorre però, oltre i singoli termini, leggere i versi. Ecco un ampio estratto.
Ma questo qui è il mio corpo benché cangiante e strano
Di donna dentro un uomo eppure essere… umano
Sfogliando le parole di questa età corriva
Divento moralismo e fantasia lasciva
Crisalide perenne costretta in mezzo al guado
Mi specchio alla finestra e sono mio malgrado
Io non so mai chi sono io per la gente
Coscienza iconoclasta volgare e irriverente
Ma questo è solo un corpo il riflesso grossolano
Di donna o forse uomo comunque essere umano
La mia personale opinione è che questo brano sia un pasticcio formidabile e insomma se proprio devo scegliere una coppia per la serata di ieri, allora sempre viva per Al Bano e Romina. Preferisco Felicità o persino Il ballo del qua qua dove, di nuovo, non manca la felicità: “Prendi sotto braccio la felicità \ basta aver coraggio \ all’arrembaggio \ col qua qua qua”.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it