La scossa che in questi giorni ha rischiato di mandare nel caos il settore bancario statunitense ha raggiunto rapidamente l’Europa. Il caso più eclatante è quello del Credit Suisse. Il 15 marzo le azioni dello storico istituto di credito svizzero hanno perso il 25 per cento alla borsa di Zurigo. Il motivo scatenante sono state le dichiarazioni del suo principale azionista, la Saudi National Bank, che sembravano escludere la possibilità di iniettare ulteriori soldi nel capitale della banca (in realtà il presidente dell’istituto, Ammar al Khudairy, si riferiva al fatto che in caso di aumento di capitale dell’azienda svizzera la sua banca non sarebbe andata oltre la quota attuale, il 9,9 per cento).
Corsa agli sportelli
La notizia ha suscitato tra gli investitori il timore che il Credit Suisse possa restare a corto di liquidità. Alla fine della giornata di ieri la Banca nazionale svizzera, la banca centrale elvetica, è stata costretta a intervenire dichiarandosi pronta a prestare fino a cinquanta miliardi di franchi svizzeri (circa 51 miliardi di euro) all’istituto per fugare ogni dubbio sulle sue condizioni finanziarie. La banca centrale potrebbe anche comprare debiti fino a tre miliardi di franchi.
Sempre il 15 marzo hanno subìto forti perdite le azioni di altre importanti banche europee: i titoli delle francesi Société Générale e Bnp Paribas sono scesi entrambi del 10 per cento; la tedesca Deutsche Bank ha perso l’8 per cento.
Ma cosa lega queste banche a istituti come le statunitensi Silicon Valley Bank (Svb) e Signature Bank, commissariate in fretta e furia dalle autorità il 10 marzo?
Nessuno però può dire con certezza se non siamo agli inizi di una crisi più vasta
Negli Stati Uniti il caso principale ha coinvolto la Silicon Valley Bank (se ne occupa il numero di Internazionale in edicola oggi e io ne ho parlato nella puntata del 13 marzo del podcast Il mondo). L’Svb è un istituto specializzato nel finanziamento delle startup tecnologiche statunitensi. Questa banca di medie dimensioni gestisce i fondi messi insieme dai finanziatori delle startup, in particolare dalle aziende di venture capital, specializzate nel lancio di imprese giovani e innovative. La sua crisi di liquidità è stata provocata da una classica corsa agli sportelli: i clienti della banca hanno cominciato a prelevare in massa i loro soldi.
Da tempo i finanziamenti raccolti dalle venture capital erano in costante calo e, per far fronte alle spese delle startup clienti, la Silicon Valley Bank aveva deciso di vendere i titoli in cui aveva investito parte dei soldi depositati. Il problema è che l’operazione si è rivelata in perdita: in sostanza la banca incassava meno del valore nominale dei titoli, in gran parte obbligazioni a lungo termine. Questo squilibrio ha messo in difficoltà le finanze dell’istituto, e la diffusione della notizia ha fatto il resto, provocando la corsa agli sportelli e quindi il crollo: secondo per dimensioni solo a quello della grande crisi finanziaria del 2008.
Errori gestionali
Nel caso del Credit Suisse la situazione è molto diversa. Come spiega il New York Times, la banca svizzera, un colosso con un patrimonio di 570 miliardi di dollari, è stata indebolita sì da errori gestionali ma soprattutto da anni di scandali, che dal 2020 sono già costati il posto a due amministratori delegati e hanno provocato ingenti perdite.
L’elenco è piuttosto nutrito: il Credit Suisse è coinvolto in casi di riciclaggio di denaro, è al centro di inchieste giudiziarie per aver spiato ex dipendenti, è stato coinvolto in clamorose implosioni dell’alta finanza, come quelle del fondo d’investimento Archegos e della società finanziaria Greensill Capital. La banca ha deciso un severo piano di ristrutturazione, che prevede migliaia di licenziamenti e la vendita di rami aziendali. Inoltre ha cercato di rafforzarsi coinvolgendo nuovi soci: buona parte dei capitali freschi è arrivata dal Medio Oriente ed è così che oggi il suo principale azionista è la Saudi National Bank, con una quota del 9,9 per cento. Nonostante tutto, il Credit Suisse continua ad avere conti in rosso e clienti in fuga: negli ultimi tre mesi del 2022 ha perso depositi per circa 147 miliardi di dollari. Ed ecco perché le dichiarazioni di Ammar al Khudairy, il presidente della Saudi National Bank, hanno fatto salire la diffidenza e il nervosismo degli investitori. Ma, a differenza dell’Svb, non dovrebbe avere problemi di liquidità immediati, aggiunge il New York Times, visto che ha miliardi di dollari depositati presso le banche centrali di tutto il mondo.
Il fattore che mette insieme gli Stati Uniti e l’Europa in questo momento è il rialzo dei tassi d’interesse deciso dalle banche centrali per contrastare il preoccupante aumento dell’inflazione, una sorta di tassa regressiva che colpisce i redditi dei più deboli. Questa svolta ha messo fine a una lunga fase, che va dalla crisi finanziaria del 2008 fino al superamento della pandemia nel 2022, in cui il costo del denaro è rimasto praticamente nullo, perché serviva molta liquidità per evitare il tracollo dell’economia globale.
Come spiega l’analista e investitore statunitense Peter Schiff sul Boston Globe, l’enorme liquidità messa per anni a disposizione degli operatori finanziari ha salvato il sistema nell’immediato, ma ha anche contribuito a creare bolle, come quella delle criptovalute, e a far salire alle stelle le quotazioni di azioni e altri titoli finanziari, creando in parte le condizioni per i crolli di questi giorni. Il rialzo dei tassi, infatti, ha cambiato lo scenario: molti di quegli investimenti hanno cominciato a perdere valore, creando buchi nei bilanci degli operatori.
Ora stanno emergendo i primi problemi, come dimostra il caso dell’Svb. Certo, ogni banca fa storia a sé, potrebbe trattarsi di casi isolati. Di sicuro, inoltre, molte banche hanno effettuato operazioni per proteggersi dal rialzo dei tassi, che era previsto da tempo. Soprattutto quelle più grandi che, tra l’altro, devono rispettare regole e limiti molto più rigidi rispetto agli istituti di medie e piccole dimensioni.
Nessuno però può dire con certezza se non siamo agli inizi di una crisi più vasta.
Di sicuro in questo momento sia il settore bancario statunitense sia quello europeo sono circondati da molta diffidenza. Quella dei clienti, che sicuramente vorranno più garanzie e rassicurazioni, e quella delle stesse banche, che esiteranno un po’ prima di prestarsi denaro tra di loro. In questo contesto, infine, non va trascurato il fatto che nel crollo della Svb e nella bufera che ha coinvolto il Credit Suisse ha giocato un ruolo non secondario la comunicazione. In un mondo in cui ogni parola e ogni immagine fanno il giro del pianeta in pochi secondi grazie al web venendo spesso manipolate e distorte, le dichiarazioni dei vertici della Silicon Valley Bank sul problema dei depositi o quelle della Saudi National Bank forse andavano calibrate in modo più attento.
Internazionale ha una newsletter settimanale che racconta cosa succede nel mondo dell’economia e del lavoro. Ci si iscrive qui.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it