“Pregate: Ta da ki ma su. Grazie Madre Terra, io accetto e faccio miei i tuoi doni. Fioriranno rigogliosi nel mio corpo”. Ma il mio corpo non sta fiorendo rigoglioso. Mi sono faticosamente seduto a gambe incrociate sul tatami e sono riuscito a incastrare un ginocchio sotto il tavolino. Non mi sento più le gambe. Ho una lapide di plastica conficcata nelle costole. È il menù su cui leggo la preghiera.
Siamo a San Francisco, al Country station sushi café. Il gruppo psichedelico brasiliano Os Mutantes risuona dalle casse. Ci stiamo godendo l’ondata di sangue alla testa provocata dal wasabi. Questo posto non somiglia a nessun altro sushi bar. Non è tutto chirurgicamente allineato e ordinato, c’è solo caos. La confusione, che di solito non si associa ai ristoranti giapponesi, domina ogni angolo del minuscolo locale.
Tutte le superfici del bar sono coperte di roba di ogni genere: conchiglie, poster dei Ramones, Babbi Natale e diavoletti di plastica, pallottolieri e splendidi aquiloni dipinti a mano.
I piatti del giorno sono scarabocchiati su un pezzo di cartone strappato da una confezione di birra Asahi. Ordiniamo alcuni Dizzastro rolls di Madre Terra: Tiffone (salmone e mango), Urgano (caviale di tonno) e La bella e la bestia (anguilla e papaia). A seguire Granchi sgranocchianti (sgusciati, tagliati a metà e fritti) e dentice avvolto nell’avocado.
Ma il piatto forte è l’anguilla – dolcemente annerita e affumicata. Alcune mastodontiche teste d’aglio pendono dallo stipite di una porta, su cui è attaccato un biglietto: “Bagno malato. Piacere no carta. Essere gentili, piacere”. C’è disegnato un gabinetto con un’espressione sofferente. Strumenti a percussione fatti con tappi di bottiglia, perline e strani oggetti che sembrano tumori giganti sono sparsi sul tavolo davanti a noi. Il personale ride nella cucina a vista. Questo posto è intriso di gioia anarchica.
Poi ci ritroviamo di nuovo per strada. Supermercati, negozi di alcolici, cambiavalute e un’agenzia di prestiti dall’aria sospetta. Un tizio in pessimo stato si avvicina sui rollerblade con una chitarra in mano. Canta una disperata interpretazione di Dust in the wind dei Kansas. Sembra una versione da quattro soldi di Seal. L’odore acre dell’edonismo inacidito dal crack copre il delicato profumo d’incenso che arriva dalla porta del sushi bar.
Internazionale, numero 617, 17 novembre 2005
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