Ottobre 2000, ore 8.45. Sono ancora ubriaco, non ho neppure cominciato a smaltire la sbornia. Barcollando, scendo per le scale di servizio portando trenta chili di ossobuco ammassati in scatole di cartone. È una routine giornaliera. Il sangue cola sulla mia divisa bianca di assistente cuoco. Verso rumorosamente le ossa in un vassoio per arrostirle.

Quando sono ben rosolate, le rovescio in un pentolone e lo riempio d’acqua. Con un grugnito, e con l’aiuto di un cameriere, lo poggio sui fornelli dove ci sono già il pentolone che ho messo ieri e quello che bolle lì da due giorni. Sono così grandi che un bambino potrebbe farsi un comodo bagnetto tra le ossa.

Fissando i mostruosi pentoloni, mi sembra di stare nella cucina di un gigante zozzone, di quelli che si tolgono i pezzetti di carne dai denti con i ramoscelli di un albero. Prendo la pentola che sta lì da più tempo e passo il sugo, facendolo restringere fino a ottenere due litri di salsa ricca. Carote sfatte e foglie d’alloro si aggrappano alle ossa desolate che rimangono sul fondo. Non considero neanche la possibilità di mangiarle.

Ottobre 2005, ore 20.45. Non sono ubriaco, sto ancora smaltendo una sbornia. “DEVI andare al Blue Ribbon”. “È il locale più in di New York”. “Ci vanno gli chef quando staccano dal lavoro”. “L’ossobuco con la marmellata è strepitoso!”. Durante la tournée negli Stati Uniti sono stato tempestato da newyorchesi che mi consigliavano questo ristorante. Sono curioso. Ma mangiare ossobuco? Possibile che i cani ne sappiano più di me?

Mentre ci illustra il menù, è evidente che il giovane cameriere non solo lo mangia regolarmente, ma è proprio per questo che lavora qui. Mi consiglierebbe l’ossobuco? “Sì”, risponde, “è un’ottima scelta”. Mi arriva segato in tre pezzi e servito con pane tostato. La marmellata sembra la salsa in salamoia che mangiamo a casa mia.

Ne raccolgo una cucchiaiata. Luccicante. Rosa. Gelatinosa. “È veramente ributtante”, commenta l’amica che cena con me. Sembra placenta. Lo spalmo sul pane. Ha un sapore… buono… ottimo. Casereccio e rassicurante. Capisco perché i nostri amici a quattro zampe amano quest’osso, ma non riesco a impedire al mio stomaco di rabbrividire con sospetto.

Internazionale, numero 619, 1 dicembre 2005

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