Il fiume, placido e grigio-azzurro, è stata l’ultima cosa a svanire. Prima erano scomparse le foglie gialle sul marciapiede, con il loro crepitio sotto i nostri passi. Ero così presa dai racconti di Abu Youssef sui suoi vent’anni in carcere, in clandestinità e nei campi profughi, sulla prima intifada e le sue conseguenze, che il magnifico paesaggio autunnale di una piccola cittadina norvegese, a sud di Oslo, si è gradualmente dileguato, lontano dalla mia attenzione.

Ho già scritto di Abu Youssef, che ha ricevuto asilo politico in Norvegia dopo la vittoria di Hamas. La settimana scorsa ho incontrato lui e la sua famiglia nella loro nuova casa: Youssef ha saltato una lezione di norvegese per accompagnarmi in giro, mentre la moglie ha saltato il corso obbligatorio di ginnastica e si è unita a noi per il pranzo. I figli, da otto mesi in Norvegia (loro e la madre sono arrivati un anno dopo Youssef) e già perfettamente padroni della lingua, mi hanno assicurato che la decisione dei genitori di andarsene è stata la migliore.

“Ho combattuto tutta la vita per la nostra libertà e i nostri diritti umani”, spiega Youssef. “Ma quando ho capito che i nostri leader non rispettano nessuno di questi due valori, ho deciso di cercare una società diversa”. È consapevole del prezzo che sta pagando per il bene dei suoi figli: un uomo affermato di 55 anni, al centro di una nuova e importante organizzazione sindacale a Gaza, deve fare i conti con una lingua sconosciuta, con scarse possibilità di trovare un lavoro adatto a lui, con il suo passato anonimo e irrilevante nel nuovo ambiente.

Ma non è stata la nostalgia l’argomento principale della nostra camminata lungo il fiume. Youssef e sua moglie sono pieni di energia e trovano modi ingegnosi per guadagnarsi da vivere e per sfruttare al meglio il loro tempo libero. La possibilità di fare programmi: la maggior parte degli abitanti della Striscia di Gaza non sa più cosa sia. Li ho lasciati a cuor leggero. La loro vita non è facile, ma sono felici e pieni di speranza.

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