D e G, una coppia gay di cui ho parlato la settimana scorsa, sono stati convocati dallo Shin Bet (i servizi segreti israeliani) dopo essere stati fermati mentre camminavano a Gerusalemme, secondo la polizia senza il permesso giusto. L’agente “Alon” ha incontrato D, il palestinese, a Gerusalemme. D è arrivato tardi perché era indeciso se presentarsi o meno e perché ha perso tempo al checkpoint. G, l’israeliano, ha incontrato l’agente “Shavit” a Tel Aviv, ma il colloquio è stato poco significativo.
Alon ha chiesto a D di non raccontare a nessuno i contenuti della loro conversazione, ma lui è stato felice di raccontarmi tutto. “Perché sei in ritardo?”, ha esordito Alon con tono severo. “Dopo tutto quello che abbiamo fatto per te”. D ha capito subito che voleva farlo sentire in colpa. Come prevedibile, l’agente ha proposto a D di ricambiare “l’aiuto” (il permesso di entrare in Israele) fornendo informazioni sulle manifestazioni antisraeliane in Cisgiordania, e soprattutto sui partecipanti. Alon gli ha anche chiesto cosa avrebbe fatto se fosse venuto a sapere di una missione assassina. Per quanto ingenuo, D ha evitato il più possibile le risposte dirette. La sua omosessualità non è stata usata esplicitamente come strumento per convincerlo.
Appesa a un muro della stanza di Alon c’era una foto di una barca a vela in mare. “Che bella”, ha detto D, che non vede il mare da anni. “Hai davvero bisogno di rilassarti. È bella la libertà”, ha risposto Alon.
*Traduzione di Andrea Sparacino.
Internazionale, numero 951, 1 giugno 2012*
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