L’enorme cratere di cui vi ho parlato qualche tempo fa, distante due o tre metri dall’edificio dove abito, mi ha aiutato a capire cosa c’è dietro la frase “dobbiamo costruire le nostre istituzioni”, ripetuta spesso dai funzionari palestinesi. La questione non riguarda l’edilizia, ma quelle norme di buonsenso che dovrebbero regolare la vita delle persone.
Sotto la mia finestra tre o quattro operai lavorano giorno e notte stendendo cemento. Solo quando piove ci viene risparmiata la luce potente dei fari e il frastuono incessante delle betoniere e degli altri macchinari. La settimana scorsa, alle dieci e mezza di sera, sono scesa a parlare con gli operai. Ce n’erano due, originari di un villaggio a est di Ramallah. “È dalle quattro del mattino che lavorate”, ho esordito. “Diamo fastidio?”, ha risposto uno di loro con espressione contrita. Gli ho chiesto se ero l’unica a essersi lamentata. “Si, ma io non ho paura di lei. Ho paura della polizia”, ha risposto.
Questo è niente rispetto a quello che è successo un mese fa. Il comune aveva deciso di riasfaltare la nostra piccola strada, ma le piogge intense avevano costretto gli operai a sospendere i lavori. Così la strada si è trasformata in una profonda pozzanghera fangosa e un giorno una mia vicina ha avuto un incidente con la macchina. Uno dei tre figli è rimasto ferito e lei è stata ricoverata in ospedale. Solo allora l’impresa edile si è preoccupata di circondare il cratere con una barriera di legno e alcuni barili pieni di cemento.
Traduzione di Andrea Sparacino
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