Sabato scorso un amico mi ha portata a Jenin, in Cisgiordania. Voleva andare a trovare la sua famiglia estesa, i Jarrar, che avevano perso un figlio e quattro case in un raid israeliano due giorni prima. Io sono andata per raccogliere testimonianze. La stampa israeliana, affidandosi alle fonti militari, si è limitata a parlare della demolizione di una casa perché i soldati non riuscivano a trovare Ahmed Nasser, sospettato di aver ucciso un colono israeliano. In realtà si è trattato di un’operazione nota come “pentola a pressione”: i soldati circondano la casa, invitano gli abitanti a uscire e, se la persona che stanno cercando non è tra quelle che tremano in strada per il freddo, lanciano un razzo sulla casa. Se neanche questo convince tutti a uscire, i bulldozer cominciano ad abbattere i muri.
Un cugino del sospettato, Ahmed Ismail, è stato ucciso durante l’operazione, a quanto pare in uno scontro a fuoco con i soldati, due dei quali sono rimasti leggermente feriti. Per la famiglia sarebbe un motivo di orgoglio, ma non credono che ci sia stato uno scontro a fuoco. Ismail non aveva mai mostrato interesse per le armi. Oltre alla sua casa sono state abbattute altre tre abitazioni della famiglia, tra cui una con sei inquilini ancora dentro (il più piccolo di appena sei anni).
L’ultima casa demolita era abitata da ricordi, non da persone. Le ultime a viverci erano state due vecchie sorelle, da cui andavano a giocare i bambini della famiglia Jarrar, compreso il mio amico che oggi ha 55 anni.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Questa rubrica è stata pubblicata il 26 gennaio 2018 a pagina 27 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati
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