Secondo un canovaccio che era in qualche modo prevedibile, ma con una forza d’urto del tutto inattesa, il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca sta sconvolgendo le dinamiche della politica internazionale, creando insicurezza e alimentando instabilità. E sta anche facendo tornare di attualità un argomento che ciclicamente emerge nel dibattito pubblico europeo e di cui si era parlato già negli anni del primo mandato dell’imprenditore statunitense: la necessità di dar vita a una difesa comune europea.

Il tema è chiaramente osservabile da prospettive diverse, ed è una specie di cartina di tornasole per esaminare le incomprensioni sulla questione della sicurezza, e non solo, che ancora esistono nel rapporto tra l’Europa occidentale e buona parte di quella che è spesso chiamata Nuova Europa, formata dai paesi ex comunisti entrati nell’Unione tra il 2004 e il 2007. Si tratta, in sintesi, delle divergenze nell’analisi – e nella percezione pubblica – della minaccia militare rappresentata dalla Russia di Vladimir Putin, e quindi delle differenti valutazioni politiche (per esempio sul ruolo della Nato, sull’appartenenza all’Unione europea, sulla sovranità e l’identità nazionale) che sono il risultato di queste divergenze, e soprattutto delle loro radici storiche e politiche.

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In qualche modo è inevitabile che oggi i paesi del fianco occidentale dell’Unione abbiano una visione dell’espansionismo russo diversa da quella degli estoni o dei polacchi, per fare solo due esempi. E in fondo, come spiega Ivan Krastev, “la frattura tra est e ovest è sempre stata essenziale per l’idea di sé che ha l’Europa. In ogni momento storico, dall’illuminismo in poi, l’Europa ha definito se stessa attraverso il suo rapporto con l’est. Nel settecento andare dalla Prussia alla Polonia significava passare il confine che divideva l’Europa civilizzata da quella dei barbari. E dalla seconda guerra mondiale in poi l’opposizione tra liberaldemocrazie e società socialiste, poi postsocialiste, è stato il paradigma politico dominante nel continente”.

Ma a tratti, specialmente in occasione delle crisi politiche che hanno coinvolto la Russia negli ultimi vent’anni, i grandi paesi dell’Europa occidentale si sono spinti anche oltre la semplice constatazione di queste differenze. Per usare le parole del quotidiano francese Le Monde, “accecate da una certa arroganza, le potenze europee hanno più volte mostrato un cortese disinteresse verso gli allarmi dei paesi baltici sulle minacce in arrivo dalla Russia, nonostante il fatto che per motivi storici e geografici queste nazioni siano delle fonti preziose di intelligence su Mosca”.

Nel dibattito pubblico occidentale questa incomprensione di fondo a volte ha alimentato un’immagine distorta delle repubbliche baltiche e della Polonia (i paesi che con più convinzione da anni denunciano il rischio rappresentato dal regime di Putin), dipinte come nazioni guerrafondaie e paranoicamente ossessionate dalla paura del vicino russo.

Se però si prova ad andare oltre questi cliché e a ragionare in termini davvero europei, ricordando che le frontiere orientali del continente sono condivise con quelle della Russia di Putin e della Bielorussia di Aleksandr Lukašenko, suo stato vassallo, se insomma ci si proietta in quell’universo di confine, bisognerà riconoscere che per i piccoli e medi paesi dell’Europa centrorientale la vicinanza russa porta con sé la promessa di una minaccia costante. In questi stati il neoimperialismo di Mosca non è un fenomeno politico che si consuma a migliaia di chilometri di distanza, ma un fattore che è percepito come un rischio per l’esistenza stessa delle proprie comunità nazionali.

Oggi la guerra in Ucraina ha fatto tornare d’attualità il dibattito su nuove possibili aggressioni, ma per questi paesi il rischio di essere annessi o cancellati dalle mappe geografiche è vecchio di secoli. Basti pensare alle spartizioni della Polonia, che di fatto non è esistita come entità sovrana per circa 130 anni, ma anche alla sorte degli altri paesi (repubbliche baltiche e Cecoslovacchia) che diventarono indipendenti dopo la fine della prima guerra mondiale, per poi finire sotto il controllo sovietico tra il 1940 e il 1948. E non va nemmeno sottovalutata la storica fragilità politica, demografica, territoriale e istituzionale delle altre nazioni entrate in Europa nel primo decennio degli anni duemila, cioè Ungheria, Bulgaria e Romania.

Questo senso di vulnerabilità è ulteriormente amplificato dall’incertezza causata dalle ultime mosse degli Stati Uniti – che sembrano sempre meno interessati a quello che succede in Europa e attenti soprattutto a non metter troppo i bastoni tra le ruote a Mosca – e dalla piega che stanno prendendo i negoziati per raggiungere un cessate il fuoco in Ucraina. Si è scritto che dei populisti vanno giudicate le azioni e non i proclami. È vero. Ma nel caso di Donald Trump – che prima ha insultato Volodymyr Zelenskyj e ha addossato le colpe del conflitto all’Ucraina, e poi è passato alle vie di fatto, smarcandosi dall’impegno a favore di Kiev – le prime sono la perfetta continuazione dei secondi.

La paura dei paesi dell’Europa dell’est di finire abbandonati dal loro principale protettore militare in un momento di grande instabilità internazionale sembra quindi tutt’altro che paranoica. Quanto a Mosca, per capire i suoi veri obiettivi non serve prendere sul serio i deliri dei propagandisti del Cremlino, che alle otto di sera sulla tv russa spiegano quanti secondi ci vorrebbero per seppellire di bombe Varsavia o Berlino.

È invece utile ricordare la ferocia del conflitto ceceno, l’aggressione alla Georgia del 2008 e tenere a mente che quella contro l’Ucraina è cominciata il 24 febbraio 2022, due giorni dopo le rassicurazioni di Putin sul compito “puramente difensivo” delle truppe dislocate ai confini ucraini. E, venendo all’oggi, osservare come anche in questi ultimi giorni di incontri diplomatici i missili e i droni di Mosca non hanno mai smesso di colpire le città ucraine. Certo, immaginare che dopo i tre anni di guerra in Ucraina, estremamente costosa sotto il profilo economico, delle risorse militari e delle perdite umane, la Russia possa subito impegnarsi in un altro conflitto è al momento respinta da molti analisti. Ma è difficile escludere che nell’arco di qualche mese o qualche anno le cose possano cambiare.

Ucraina, una guerra tardocapitalista
A differenza dei conflitti del novecento, lo sforzo bellico dell’Ucraina è sostenuto in gran parte da logiche di mercato e donazioni private.

Che le lezioni della storia siano essenziali per la formazione dei giudizi sulle vicende attuali appare evidente dai contenuti del giornalismo e della saggistica, specialmente in Polonia, come conferma per esempio questo commento sugli ultimi sviluppi nei rapporti tra Stati Uniti e Russia, pubblicato a metà marzo dal quotidiano Gazeta Wyborcza: “Nel 1939 la Germania e l’Unione Sovietica erano nemiche della Polonia e avevano cinicamente concordato la sua invasione e spartizione, oltre alla libertà di azione nei conflitti europei. Oggi l’asse Trump-Putin rappresenta un improvviso e radicale sconvolgimento delle alleanze storiche della Polonia. È, da parte degli Stati Uniti, un esempio perfetto di tradimento”.

A est evidentemente certe ferite non sono ancora rimarginate, anche per la mancanza di un’elaborazione pubblica e collettiva, in epoca comunista e forse anche nel periodo della transizione, delle vicende della seconda guerra mondiale e dei loro strascichi. E quindi continuano ad aver un peso rilevante nel dibattito pubblico e nella definizione dell’identità nazionale.

Questa consapevolezza e questa sensibilità riguardano molti dei paesi che in passato hanno conosciuto la dominazione russa e sovietica, e che oggi sono esposti alle minacce di Mosca, ma non danno certo patenti di superiorità politica o morale. Negli ultimi vent’anni, in diversi di questi stati, più che a un tentativo di consolidare la cooperazione politica e strategica, si è infatti assistito all’affermazione di un nazionalismo ultrareazionario e di un crescente sentimento di ostilità verso il progetto comunitario. È successo nella Polonia sovranista di Jaroslaw Kaczinski fino al 2023, in parte nella Slovacchia di Robert Fico, e sicuramente nell’Ungheria di Viktor Orbán, che oggi si ritrova a fare la cassa di risonanza della propaganda putiniana e a mettersi di traverso a ogni iniziativa di Bruxelles a favore dell’Ucraina.

Ma la maggior parte delle reazioni è stata di segno diverso. Le continue operazioni di guerra ibrida condotte dalla Russia, i ciberattacchi, i sabotaggi, la disinformazione, le ingerenze nei processi elettorali, e infine l’aggressione a tutto campo contro l’Ucraina, hanno riportato a galla in molti paesi della regione – soprattutto nelle repubbliche baltiche – una matura coscienza della loro vulnerabilità e del loro ruolo internazionale.

Questo ha consolidato l’idea che ci si debba preparare al meglio, anche sotto il profilo militare, ad affrontare una possibile operazione ostile di Mosca, e che sia necessario intensificare la collaborazione e il dialogo a livello regionale ed europeo. Un piccolo aggiustamento di rotta nelle priorità delle repubbliche baltiche, soprattutto dell’Estonia, se si pensa che – come ricorda il quotidiano Postimees – “in passato Tallinn si era sempre opposta a un rafforzamento della difesa europea, preferendo invece affidarsi all’unità della Nato”.

Oltre ai seimila militari di professione, oggi in Estonia ci sono circa 30mila volontari che fanno parte della Lega di difesa estone. In un paese con 1,3 milioni di abitanti, che ha riconquistato l’indipendenza da appena una generazione, più che una manifestazione di “furore bellicista” quest’impegno è il frutto della consapevolezza della propria debolezza, amplificata dal progressivo disimpegno statunitense e dalle crescenti perplessità su un eventuale intervento della Nato in caso di aggressione esterna.

È la paura esistenziale per la sopravvivenza della propria comunità, una paura diffusa tanto in Estonia, che nel 1940 fu inghiottita dall’Unione Sobietica in virtù dei protocolli segreti del patto Molotov-Ribbentrop, quanto negli altri paesi, che nel novecento hanno sofferto non solo le violenze del nazismo ma anche gli abusi del sistema totalitario sovietico e staliniano: l’Ucraina, la Polonia e la Lituania, per stare ai casi più evidenti.

“Se gli Stati Uniti, la Cina e la Russia decideranno di spartirsi il mondo in sfere d’influenza”, ha osservato Delya Grybauskaite, ex presidente lituana ed ex commissaria europea, “allora la Lituania rischierà di diventare di nuovo una preda”. D’altra parte, è anche evidente il rischio che la minaccia russa possa essere usata come grimaldello per far passare misure pericolose e in netto contrasto con i valori a cui l’Europa e questi paesi dicono di ispirarsi, come il ritiro dalla convenzione di Ottawa sulla messa al bando delle mine antiuomo, annunciato il 18 marzo da Varsavia e dai paesi baltici. A ben vedere, però, anche in questo caso quanto più i partner europei si mostreranno in grado di capire le vere preoccupazioni di queste nazioni, tanto più saranno capaci di scoraggiarle dal fare scelte così avventate e pericolose.

Tornando al discorso più generale, c’è un fatto cruciale che rimane evidente: in questa parte d’Europa l’incertezza dei confini, le deportazioni e le occupazioni hanno plasmato l’identità collettiva, facendo sì che oggi diversi di questi stati abbiano una visione della storia novecentesca e una valutazione delle urgenze in parte divergenti rispetto a un buon numero di paesi e opinioni pubbliche occidentali.

Per i polacchi, i baltici, i cechi, i romeni, l’ingresso nella Nato non è stato il frutto dell’espansionismo aggressivo degli Stati Uniti, ma un processo d’integrazione di cui sono stati protagonisti. L’alleanza è stata per i paesi dell’est un fondamentale fattore di stabilizzazione, modernizzazione, non solo militare, e ovviamente di sicurezza. E, insieme all’integrazione nell’Unione, ha impedito il possibile sviluppo di rivendicazioni territoriali e revanscismi vari. Insomma, è difficile immaginare quale sarebbe stato il grado di sicurezza e di reale indipendenza dei paesi dell’est al di fuori dell’alleanza atlantica.

Tutto questo influisce inevitabilmente anche sull’interpretazione della guerra in Ucraina. Se infatti si ritiene che l’ingresso nella Nato dei paesi dell’ex patto di Varsavia (non di quelli dell’ex Urss, perché il caso dei baltici è particolare, in quanto la loro annessione all’Unione Sovietica non era mai stata riconosciuta a livello internazionale) sia stato deciso per dare garanzie difensive ai nuovi entrati, allora viene meno l’idea del conflitto come reazione russa all’espansionismo occidentale. Un’idea, questa, che è infatti cara ad analisti e opinionisti specializzati nell’arte del cosiddetto westsplaining, una parola coniata nel 2017 ma diventata popolare con l’aggressione russa contro l’Ucraina, che i politologi polacchi Jan Smoleński e Jan Dutkiewicz spiegano così: “L’attività di un incessante flusso di esperti occidentali che si degnano di spiegare la situazione in Ucraina e nell’Europa centrorientale agli stessi europei dell’est”.

Questi westsplainer sono sempre pronti a considerare l’Europa dell’est come una pedina in un gioco le cui regole e mosse sono decise altrove, nelle grandi capitali dell’occidente o al Cremlino, a capire le ragioni di Mosca e a sorvolare su quelle degli abitanti dell’Europa orientale. Una forma di pensiero che di recente si è incarnata nell’atteggiamento aggressivo e irridente di Trump verso il presidente ucraino Zelenskyj, impegnato a cercare di rappresentare il suo paese e i suoi concittadini come portatori di istanze, idee ed esigenze.

Eliminata questa postura mentale, che inquina ogni tentativo di capire quello che davvero succede nell’Europa dell’est, appare immediatamente chiaro che la Nato è stata semplicemente un alibi per la guerra di aggressione che Mosca ha dichiarato all’Ucraina, con l’intento di cancellarne l’esistenza come nazione sovrana e indipendente, e al cosiddetto “occidente collettivo”, che per i propagandisti di Mosca sarebbe da anni una minaccia esistenziale alla Russia di Putin e al suo sistema di valori.

Al di là del caso ucraino, quello che emerge da queste riflessioni è soprattutto che spesso la cosiddetta vecchia Europa occidentale non capisce, forse anche perché non vuole farlo, i paradigmi storici e le psicologie collettive che sono alla base del sentire comune degli stati dell’Europa centrale e dell’est, e che ovviamente contribuiscono a modellare le loro scelte politiche. Non è la prima volta che succede. Ma se l’Europa vuole davvero arrivare ad avere una politica estera e di sicurezza comune e autonoma, dovrebbe innanzitutto superare questo tipo di incomprensioni.

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