Camminando per le strade del centro di Kiev, in Ucraina, prima o poi è inevitabile imbattersi nel palazzo dello Tsum, i grandi magazzini di epoca sovietica, che da anni ospitano negozi di lusso, con tanto di portiere in livrea all’ingresso. Nel periodo natalizio, durante i blackout programmati che ogni giorno duravano fra le quattro e le otto ore, un quarto della popolazione di Kiev e altri milioni di persone nel paese restavano al buio, spesso senza riscaldamento. Eppure la facciata dello Tsum continuava a risplendere di migliaia di luci dorate, che illuminavano le vetrine addobbate per Natale.
In quei giorni era facile cedere alla tentazione d’interpretare questo spettacolo come la prova della corruzione diffusa o della profonda disuguaglianza che regna nel paese, soprattutto considerato che le luci non erano alimentate dal generatore privato del grande magazzino e che il suo proprietario è Rinat Achmetov, uno dei più ricchi oligarchi ucraini, al controllo anche della Dtek, il più grande distributore privato di energia elettrica del paese. Ma continuando a camminare s’incontravano molti altri negozi che restavano illuminati durante le interruzioni di corrente. Lo Tsum era solo una delle tante eccezioni alle regole, in teoria uguali per tutti, sul razionamento dell’energia in un paese in guerra.
In Ucraina molte persone – dagli economisti ai politici, fino ai cittadini comuni – credono che dietro queste scintillanti decorazioni natalizie si nasconda qualcosa di più che il semplice piegarsi dello stato agli interessi del capitalismo. La percezione diffusa, infatti, è che esistano motivi economicamente razionali per giustificare la decisione di tenere accese le luci decorative mentre milioni di persone sono costrette al buio. L’idea è che, restando aperti e illuminati con luminarie da festa e ricche decorazioni natalizie, i negozi di lusso sulla strada principale della capitale possono continuare a incassare guadagni preziosi e a pagare le tasse, sostenendo così la difesa del paese.
Dopo aver vissuto più di un anno in Ucraina e aver visitato molte regioni, e quasi tutte le linee del fronte della guerra, ho potuto toccare con mano quanto sia diffusa questa idea e come la mentalità consumistica e i meccanismi del mercato siano spesso considerati degli strumenti dello sforzo bellico dell’Ucraina.
Una delle mie prime interviste in Ucraina è stata con Artem Denysov, fondatore di Veteran hub, la più grande ong privata che sostiene gli ex militari. Psicologo militare con una lettura estremamente lucida del conflitto, Denysov non è affatto turbato dal fatto che dopo un decennio di operazioni militari nell’est del paese e tre anni di guerra totale, l’impegno dello stato per sostenere i veterani sia ancora largamente insufficiente, con leggi risalenti all’epoca sovietica che offrono aiuti ormai obsoleti, come la concessione di una linea telefonica e nuove radio ai soldati feriti. “Gli stati sono intrinsecamente incapaci”, mi ha detto. “È meglio lasciare che di queste cose si occupino i privati, in particolare i più ricchi”.
Uno degli esempi più stupefacenti della privatizzazione della guerra si può osservare nelle stazioni della metropolitana di Kiev. Mi riferisco alla campagna di marketing della Terza brigata d’assalto, il braccio militare del movimento di estrema destra Azov. Gli annunci della campagna comprendono immagini accattivanti di ragazze che abbracciano o osservano sensualmente robusti soldati in divisa e con equipaggiamenti militari di ultima generazione. La pubblicità è stata criticata per l’immagine sessista che offre, ma ancora più emblematico è il fatto che sia stata finanziata e prodotta interamente dall’unità Azov. Il sito a cui fa capo non appartiene all’esercito o al ministero della difesa, ma è il portale privato della Terza brigata d’assalto, usato per reclutare nuovi soldati, raccogliere fondi e condividere video e altro materiale promozionale.
Dato che i volontari possono scegliere l’unità di cui far parte e i coscritti possono richiedere il trasferimento in pochi passaggi attraverso l’app ufficiale dell’esercito, le unità militari si fanno concorrenza per attirare le reclute migliori e più adatte. La Terza brigata d’assalto è solo l’esempio più evidente di questo impegno nelle campagne pubblicitarie. Oggi quasi tutte le unità cercano di seguire lo stesso percorso.
I meccanismi del mercato regolano anche i processi di selezione dei soldati. Più è alto lo stipendio di un civile e meno probabile è il suo arruolamento, grazie a esenzioni formali e informali. I salari, infatti, sono spesso considerati un indicatore dell’utilità di una persona per l’economia nazionale e, di conseguenza, per lo sforzo bellico. In sostanza, le tasse pagate da un cittadino sono ritenute più importanti del suo potenziale contributo sul campo di battaglia. In parlamento sono state presentate diverse proposte per formalizzare questo principio, collegando ufficialmente il reddito di una persona ai motivi di esenzioni dall’arruolamento. Questi tentativi hanno suscitato forti critiche, ma nascono da una prospettiva che resta largamente diffusa tra le élite e gli economisti ucraini.
Le unità militari competono anche per i finanziamenti privati. Quasi tutte le brigate sono in parte finanziate grazie a donazioni di civili o altre entrate, come gli stipendi e i patrimoni personali dei soldati. I negozi di attrezzature militari, che vendono ogni tipo d’abbigliamento, dalle giacche invernali ai giubbotti antiproiettile, stanno vivendo un vero e proprio boom, al punto che nelle strade dei villaggi vicino al fronte non è raro incontrare bancarelle improvvisate con prodotti del genere.
Il ruolo dei privati
Il denaro, del resto, è necessario per diversi scopi: dall’acquisto di abbigliamento militare a quello di droni, all’affitto. I soldati sono spesso costretti a coprire da soli i costi dell’alloggio, che al fronte possono essere alti quanto nel centro di Kiev. A Kupjansk, centro abitato lungo la linea del fronte nordoccidentale, ho incontrato Tuareg, un tenente di 44 anni che comanda una flotta di droni per la 92ª brigata.
Tuareg mi ha spiegato che nella sua unità nove droni su dieci sono stati donati dai civili o comprati grazie al loro contribuito. Un modo efficace per assicurarsi una maggiore dotazione è quello di dimostrare la capacità di usare al meglio gli strumenti ricevuti. Il video di un drone che colpisce un carro armato russo, condiviso sul canale Telegram della brigata, può generare migliaia di dollari in nuove donazioni. Questo fa sì che le unità militari siano incentivate a compiere azioni che possano essere filmate e mostrate alla popolazione.
Un’unità con bravi piloti di droni e armi di ultima generazione corre meno rischi di essere sacrificata come carne da cannone in trincea. Tuttavia, la Terza brigata d’assalto – con il suo sito ammiccante, i centri di reclutamento privati e i soldati dotati degli equipaggiamenti più avanzati – è un’eccezione. La maggior parte delle brigate, infatti, è composta da coscritti con più di quarant’anni, addestrati in modo molto superficiale prima di essere inviati al fronte con equipaggiamenti inadeguati. Queste unità raramente possono permettersi di fare campagne pubblicitarie e di solito si affidano alla beneficenza. Alcune non hanno nemmeno abbastanza uomini per occuparsi delle pratiche burocratiche necessarie per ottenere i finanziamenti dei privati.
In primavera ho fatto visita a una di queste unità – una compagnia della 57ª brigata – nei pressi di Vovčansk, nel nord del paese. I militari mi hanno spiegato che solo uno di loro aveva più anni del cannone semovente che avevano in dotazione, costruito nel 1976 nella vicina Charkiv. Avevano dovuto comprare da soli la maggior parte dei vestiti che indossavano e raccogliere fondi per pagare la benzina e riparare i veicoli.
In una situazione del genere si potrebbe pensare che lo stato stia disperatamente raschiando il fondo del barile alla ricerca delle risorse da spedire al fronte. In effetti i tagli alla spesa decisi dal governo hanno sacrificato tutto ciò che era ritenuto sacrificabile. Il sistema scolastico è al collasso, mentre le imposte indirette sono state aumentate. Eppure, per quanto riguarda il resto, lo stato ha adottato un approccio schiettamente liberista alla guerra, anche se con generosi finanziamenti da parte dei paesi stranieri, che oggi coprono circa metà del bilancio complessivo dell’Ucraina.
Diversamente da quanto successo in passato durante le lunghe guerre di logoramento – che costringevano gli stati a trasformarsi in mastodontici apparati di pianificazione bellica con ampi poteri d’intervento in tutti i settori – in Ucraina sono stati del tutto assenti il razionamento dei beni di consumo, le nazionalizzazioni e la coscrizione dei lavoratori. Il settore della difesa è passato dai 120mila dipendenti del 2014 ai 300mila di oggi, una crescita considerevole, ma non enorme se si considera che il paese è in guerra sostanzialmente da dieci anni. L’apparato della difesa è composto da circa cinquecento aziende, di cui un centinaio controllate dallo stato, che coprono quasi la metà della produzione totale. Tuttavia, i privati spesso la fanno da padrone, come il marchio d’abbigliamento militare M-Tacm, che fornisce al presidente Volodymyr Zelenskyj la sua caratteristica divisa mimetica.
Nel frattempo il governo ha portato avanti piani di privatizzazione tipici dei periodi di pace e ha ridotto la burocrazia (o almeno sostiene di averlo fatto) con l’obiettivo di attrarre investimenti internazionali. Il sistema fiscale è stato riformato appena un paio di mesi fa. Questo significa che, nei tre anni di una guerra considerata come “cruciale per l’esistenza del paese”, le tasse sono rimaste ai livelli precedenti al conflitto. Gli economisti di Kiev (e non solo) sostengono che un intervento più invadente avrebbe favorito l’economia sommersa o allontanato i capitali ostacolando gli sforzi per creare nuove entrate per le casse pubbliche.
Quello che sta succedendo non è solo un’applicazione della curva di Laffer (che registra la correlazione tra pressione fiscale e gettito fiscale, basata sull’idea che l’aumento delle tasse può generare una diminuzione delle entrate fiscali). La preoccupazione delle autorità ucraine è che questo approccio liberista sia l’unica opzione praticabile. Secondo questa tesi, se lo stato dovesse aumentare eccessivamente le imposte o costringesse i negozi di lusso a spegnere le luminarie, magari nazionalizzando i generatori per sostenere lo sforzo bellico, le vendite crollerebbero e le aziende si trasferirebbero all’estero, portandosi dietro i clienti e privando il governo di ingenti entrate fiscali. Allo stesso tempo gli investitori internazionali e i partner stranieri potrebbero criticare queste misure, definendole ostili al mercato o autoritarie, cosa che danneggerebbe i rapporti internazionali da cui Kiev dipende per la sua stessa sopravvivenza. Oggi molti sono d’accordo con questa lettura.
In epoca moderna la guerra è stata fatta generalmente dai poveri, mentre le classi superiori hanno sempre trovato il modo di evitare l’arruolamento. Tuttavia, quello che sta succedendo in Ucraina rappresenta un’anomalia in termini sia di scala sia di obiettivi, a cominciare dal fatto che il sistema attuale è presentato come razionale e utile, e non semplicemente tollerato come il male minore.
In Ucraina la corruzione nell’esercito e nel campo degli appalti pubblici sta crescendo. Gli imprenditori che approfittano della guerra e restano coinvolti in scandali finiscono al centro delle critiche, ma poi succede spesso che i mezzi d’informazione e buona parte della popolazione tendono a incolpare il governo e “l’eredità sovietica” più che il sistema attuale.
La Russia è molto meno dipendente dalle reti internazionali rispetto al suo avversario, ed è anche molto più autoritaria. Questo permette alla leadership politica del Cremlino d’intervenire senza limiti sull’economia e la società. Il sociologo ucraino Volodymyr Iščenko ha parlato di un “keynesianismo militare” russo, in cui la necessità di raccogliere fondi da parte dello stato ha prodotto una reale redistribuzione della ricchezza, con un movimento delle risorse dal vertice della società verso il basso, soprattutto verso i lavoratori del settore della difesa e i soldati impegnati nella cosiddetta operazione militare speciale.
Detto questo, le differenze tra i due paesi nel modo di condurre la guerra sono più quantitative che qualitative. Anche le brigate russe organizzano campagne pubblicitarie, competono per le donazioni e cercano di “vendere” al pubblico le loro azioni militari. Come ricorderete, è stata una compagnia militare privata russa, la Wagner, ad arrivare al punto di ammutinarsi contro il governo, sospendendo (solo momentaneamente) il monopolio dello stato sulla violenza.
Nel frattempo l’economia russa è gestita scrupolosamente per fare in modo che resti il più possibile civile e orientata verso i beni di consumo. Sul tema della gestione dell’economia in tempo di guerra la governatrice della banca centrale russa Elvira Nabjullina e i vertici economici del paese agiscono in modo simile agli economisti di Kiev. Chi chiedeva una mobilitazione totale e il lancio di un’economia di guerra è stato emarginato, almeno per il momento. Anche se Putin continua a presentare il conflitto come una battaglia esistenziale e di civiltà contro l’occidente, le luci dello Tsum devono restare accese anche a Mosca, esattamente come a Kiev.
Una prova di questo fenomeno sta nel fatto che, secondo alcuni studi preliminari, la guerra in Ucraina è la prima da un secolo in cui nell’elenco dei morti i russi sono sottorappresentati rispetto alla loro percentuale nella società, mentre i soldati delle minoranze povere e meno istruite sono sovrarappresentati. Nonostante questo conflitto sia per molti versi più russo rispetto alla seconda guerra mondiale o alla guerra in Afghanistan, è anche una guerra in cui i cittadini di etnia russa, in proporzione più ricchi rispetto a quelli delle minoranze nazionali, soffrono molto meno degli altri. “Qui non ho mai visto nessuno di Mosca”, mi ha confidato una guardia di un campo per prigionieri di guerra in Ucraina.
La verità è che sia la Russia sia l’Ucraina operano in contesti simili e tra mille vincoli. Che si parli del finanziamento delle unità militari equipaggiate male, degli sforzi per evitare la fuga di capitali o della possibilità d’imporre sanzioni per bloccare le esportazioni dei prodotti militari, nessuno dei due paesi sembra poter sfuggire alla morsa del tardo capitalismo e della globalizzazione.
Questa guerra, cominciata con l’invasione dell’Ucraina voluta da Putin, rappresenta una novità storica. Non si tratta in nessun modo di un’operazione controrivoluzionaria per sgominare una milizia ribelle né di un conflitto tra nazioni povere con istituzioni fragili. Al contrario, è il primo scontro tra due grandi paesi quasi equiparabili in epoca tardocapitalistica.
L’ultima volta che abbiamo assistito a un conflitto di queste proporzioni è stato con la seconda guerra mondiale, quando gli stati imperiali e totalitari della prima metà del novecento hanno scatenato una guerra totale che ha mobilitato popolazioni intere, fatto entrare nuovi gruppi sociali nel mondo del lavoro e generato enormi aspettative di cambiamento nel modello sociale. Ma gli scontri di quel conflitto hanno anche causato una devastazione mai vista prima, spingendo diversi paesi sull’orlo del collasso.
Oggi, invece, quando una nazione tardocapitalista e liberista affronta per la prima volta una nazione con caratteristiche simili e di potenza paragonabile, cerca di mantenere il più possibile intatte le sue strutture economiche e sociali, e combattendo con un occhio al fronte e l’altro rivolto all’umore degli investitori e ai mercati. Può sembrare cinico, ma è innegabile che questo atteggiamento abbia prodotto una guerra che, per quanto terribile e sanguinosa, è stata molto meno apocalittica rispetto ad altri conflitti simili scoppiati in passato.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it