Il 4 ottobre a Bruxelles gli ambasciatori dei diversi paesi europei hanno trovato un accordo sull’ultima parte del Patto europeo sulle migrazioni per fornire una risposta a un’eventuale nuova crisi, cioè a un afflusso massiccio di persone alle frontiere europee come quello del biennio 2015-2016.

Dopo uno stallo, soprattuto dovuto alle divergenze di Germania e Italia sul ruolo delle organizzazioni non governative, i 27 paesi dell’Unione hanno trovato un compromesso che è stato approvato con la maggioranza ponderata, e a cui si sono opposti Polonia e Ungheria. Austria, Repubblica Ceca e Slovacchia si sono astenuti.

La scorsa settimana al consiglio dei ministri dell’interno dell’Unione europea non era stato possibile approvare il testo perché l’Italia non era d’accordo con un passaggio introdotto dal governo tedesco, in cui si difendeva il ruolo delle operazioni umanitarie delle ong nel mar Mediterraneo. Quel paragrafo è stato spostato dal testo alle premesse dell’accordo, senza modificarlo: “Secondo gli standard europei, le operazioni di aiuto umanitario non dovrebbero essere considerate come una strumentalizzazione dei migranti, quando non vi è l’obiettivo di destabilizzare l’Unione o uno stato membro”.

La presidente del consiglio Giorgia Meloni ha presentato l’accordo come una vittoria italiana, ma molti analisti fanno notare che il testo continua ad avere diverse criticità per i paesi di frontiera come l’Italia. Il più vistoso è il fatto che non sia stato toccato il principio cardine del regolamento di Dublino, che fa ricadere l’onere dell’esame della domanda d’asilo al primo paese d’ingresso in Europa.”È una forma che penalizza l’Italia su quasi tutta la linea”, ha commentato Matteo Villa dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi).

“Gli stati europei fanno concessioni su un nuovo sistema di ricollocamenti, che con ogni probabilità resterà sulla carta. In cambio chiedono a Roma di rafforzare le procedure d’identificazione e di esame delle domande d’asilo alle frontiere. Questo avrà conseguenze molto negative per l’Italia. Velocizzare e inasprire le regole sull’asilo non fa che aumentare la probabilità che i migranti diventino irregolari”, spiega il ricercatore.

Inoltre, si allungano i tempi in cui i richiedenti asilo che sono andati in altri paesi possono essere rimandati in Italia, se sono entrati in Europa dalla frontiera italiana: “Prima Roma era costretta ad accettare un trasferimento di un richiedente asilo entro 18 mesi, ora dovrà farlo entro 36 mesi”.

Quali erano i punti in discussione?

Il regolamento stabilisce delle norme comuni, che saranno applicate in situazioni d’emergenza, come nel caso di un arrivo improvviso e massiccio di migranti. Per fronteggiarlo, gli stati possono applicare misure più severe, come trattenere i richiedenti asilo alla frontiera per un massimo di venti settimane.

La detenzione dei migranti respinti potrebbe anche essere estesa da dodici settimane a un massimo di venti, fino al completamento del processo di rimpatrio. Le organizzazioni umanitarie ritengono che questa deroga potrebbe portare alla detenzione su larga scala dei richiedenti asilo, peggiorare la qualità delle procedure e aumentare il rischio di respingimento (mandando le persone in paesi che non sono sicuri).

La Germania aveva espresso preoccupazioni simili, in particolare per quanto riguarda i diritti dei minori, e aveva bloccato il testo, scegliendo di astenersi.

Nella versione originaria, il regolamento prevedeva anche la possibilità di accelerare le richieste d’asilo di chi fugge da una situazione di pericolo, come un conflitto armato. Il regime speciale avrebbe garantito ai rifugiati un accesso più rapido alla residenza, al lavoro, all’istruzione e all’assistenza sociale. Tuttavia, nel compromesso approvato il 4 ottobre, quell’articolo è stato modificato e non si trova alcun riferimento alla “protezione immediata”.

I tempi di approvazione della riforma

Il Patto europeo sulle migrazioni è stato presentato dalla Commissione europea nel settembre 2020 per sostituire il regolamento di Dublino. La riforma in cinque punti traccia una linea controversa tra solidarietà e responsabilità. Il suo elemento centrale è un sistema di “solidarietà obbligatoria” che offre ai paesi due diverse opzioni per gestire i flussi migratori: accogliere un certo numero di richiedenti asilo oppure versare in un fondo comune per i rimpatri ventimila euro per ogni migrante che non accolgono.

Questo sistema, concordato in via preliminare lo scorso giugno, dovrebbe funzionare sempre, mentre quello per gestire le crisi verrebbe attivato solo in situazioni d’emergenza. Quest’ultimo regolamento si applicherebbe anche quando la migrazione è “usata come arma” da un governo straniero nel tentativo di intromettersi negli affari interni di un altro paese, com’è successo nel 2021 al confine tra Polonia e Bielorussia.

L’impasse sul regolamento ha rischiato di minare la riforma e creare tensioni nel parlamento europeo, che il mese scorso ha deciso di sospendere i negoziati su due punti fino a quando gli stati non avessero sbloccato l’ultima parte.

Dopo l’accordo, i complicati negoziati all’interno del parlamento europeo riprenderanno con l’obiettivo di approvare tutti e cinque i punti del nuovo patto prima delle elezioni europee del giugno 2024, obiettivo che potrebbe non essere semplice da raggiungere.

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