Questo articolo è uscito il 15 aprile 2016 nel numero 1149 di Internazionale, a pagina 102. L’originale era uscito su Lucky Peach con il titolo “Eat, drink, fuck, die”. © 2016 Anthony Bourdain/Agenzia Santachiara.

Le prime immagini dello splendido Mangiare bere uomo donna di Ang Lee ci presentano quella che è forse la più stupefacente dimostrazione di maestria culinaria nel cinema. Mettendo insieme un “casuale” pranzo domenicale per le sue tre figlie, il signor Chu, chef per banchetti, pulisce un pesce, intacca con precisione il corpo di un calamaro, toglie la pelle argentea dallo stomaco di un pollo, acchiappa un gallo nel cortile, fa il brodo, prepara pancetta fritta e brasata, stende la pasta, riempie ravioli dalla forma perfetta ed esegue circa altre otto operazioni tutte in rapido ordine logico.

Vediamo come ogni ingrediente e ogni gesto porti al successivo, culminando con quello che qualunque frequentatore di ristoranti giudicherebbe uno straordinario pasto cinese. La scena è recitata (in parte) per far ridere. Lo scherzo è che si tratta di quantità e varietà di cibo assurde per un casuale pranzo di famiglia. Ma la preparazione di un pasto non è mai stata descritta così accuratamente dall’inizio alla fine. Sospetto che molti cuochi come me in quei primi minuti abbiano pensato che questo fosse un film sulle gioie della preparazione del cibo.

In realtà, il tema del film è la comunicazione, lo sforzo di ricevere e manifestare affetto. In questo caso, il cibo è usato come un mezzo per persone reticenti, incapaci di esprimersi e comunque disfunzionali, per dirsi l’indicibile.

È un film francamente irresistibile e molto bello. Solo un bastardo senza cuore potrebbe essere immune al suo fascino. Mangiare bere uomo donna sostiene in modo convincente l’idea molto diffusa che il cibo abbia qualità intrinseche e che – a seconda della storia del consumatore con un certo piatto – possa avere un “cuore”, essere un portatore di “amore” o contenere in qualche modo “l’anima” del cuoco che lo ha preparato.

In articoli e libri di cucina troviamo sempre più spesso piatti semplici come il pollo lesso o la verdura al vapore che vengono definiti “appassionati” o cucinati “con il cuore”

Lo sentite in continuazione durante programmi come Top chef. I cuochi dichiarano di cucinare con “amore” (un’affermazione che io, come giudice, ho trovato spesso allarmante, in quanto evoca, di fatto, la possibilità che il concorrente abbia rigirato la salsa con il pisello). In articoli e libri di cucina troviamo sempre più spesso piatti semplici come il pollo lesso o la verdura al vapore che vengono definiti “appassionati” o cucinati “con il cuore”, al punto che questa affermazione diventa quasi priva di senso.

“Non ho ricordi a meno che non gli faccia prendere vita cucinando”, dice una figlia sopraffatta dall’esigenza di cucinare. Un’altra figlia s’innamora su una ciotola di tofu puzzolente. Il signor Chu, tormentato dalla consapevolezza che la nipote a scuola deve mangiare piatti mediocri, segretamente le prepara il pranzo ogni giorno e ben presto riceve ordinazioni da tutta la classe. Quasi ogni passaggio importante del film avviene durante o intorno alla preparazione e alla consumazione di un pasto.

Il primo quarto d’ora del film sottolinea – magnificamente e accuratamente – che
cucinare con amore significa soprattutto fatica e noia.

Se Mangiare bere uomo donna parla di comunicazione e amore, Il pranzo di Babette di Gabriel Axel è tutta questione di sesso. Purtroppo nel film non c’è vero sesso. In realtà, nessuno dei personaggi sembra aver mai fatto sesso (a parte Babette in una vita precedente che non viene raccontata). Il film tratta di due sorelle zitelle sessualmente frustrate che vivono insieme a una setta di fanatici religiosi anziani, infelici e asessuati su una desolata costa danese.

Passano giorno e notte seduti a parlare di dio e di quanto il piacere è poco importante, sbagliato e probabilmente diabolico. Nel flashback vediamo come ogni possibilità di gioia o espressione artistica – ogni occasione per le due zitelle di accennare addirittura a un sorriso – sia repressa. Ovviamente, in questo tetro deserto culturale il cibo è spaventoso.

La simpatia del regista, però, va chiaramente a chi vorrebbe inseguire il piacere. Quando Babette, ex cuoca del leggendario Café Anglais di Parigi, si presenta come una rifugiata e viene incredibilmente accolta dalle sorelle, ha inizio un delizioso processo di corruzione. Babette vince la lotteria. E siccome non ha nient’altro da fare e si trova in un villaggio che fa apparire Salt Lake City come Sodoma e Gomorra decide di spendere tutta la sua nuova fortuna in un solo squisito pasto per il villaggio. Ben presto dalla Francia arriva una cornucopia d’ingredienti. La tavola è apparecchiata. Gli invitati prendono posto. E ai suoi ospiti incompetenti e gastronomicamente analfabeti, Babette serve un pasto sontuoso: prima un vero potage di tartaruga perfettamente chiarificato con Amontillado. Poi blinis demidoff, minuscole focaccine di grano saraceno ricoperte di crème fraîche e caviale beluga, accompagnate da un Veuve Clicquot del 1860. Le cailles en sarcophage – minuscole, succulente quaglie intere imbottite di foie gras e tartufo nero, arrostite in un vol-au-vent di sfoglia con sauce périgourdine – arrivano insieme a numerose bottiglie di un’annata leggendaria di Clos de Vougeot, il 1845. Solo l’ospite d’onore, un generale che un tempo era stato diplomatico a Parigi, riconosce l’eccezionalità del pasto. Che non finisce qui.

Insalata di indivia e noci, formaggio francese, dovizia di frutta esotica d’importazione e, infine, savarin au rhum avec des figues et fruits glacées con alcuni generosi bicchieri di Marc nell’eventualità che i pudibondi zoticoni non siano sufficientemente stroncati. “Illuminati” dai magici poteri dello splendido cibo e del vino, i vecchi rincoglioniti, ottusi e moralisti cominciano ben presto a leccarsi le labbra, a tracannare il vino e a scambiarsi occhiate lascive con il sottinteso: “Diamo il via alle pomiciate”. Finiscono la serata barcollando fino ai loro tuguri, fermandosi per congiungere le mani e lodare dio e scambiando probabilmente gli effetti dell’alcol per un’epifania. Poi arriveranno i femori rotti.

In quest’ottica, quindi, il cibo è sia un piacere di per sé sia un’autostrada verso comportamenti libertini. L’evidente implicazione, dietro una sottile patina di frottole spirituali chiaramente maldestre, è che lo scrupoloso impiego di buon cibo e alcol porta direttamente a lasciarsi andare e probabilmente a sesso non protetto. Il buon cibo vi rende più svegli, apre la mente, sblocca i tubi: è sexy.

Ma lo è davvero? Non sono così sicuro che il cibo sia intrinsecamente sexy, anche se il corpo probabilmente reagisce in modo simile all’attesa del sesso e di un buon pasto. Sono stato in molti posti e ho mangiato molti piatti con presunte qualità afrodisiache, ma non ho mai assaggiato un solo boccone che facesse apparire più attraente qualcuno nel corso di una serata (il liquore e perfino il vino in cartone, invece, possono riu­scirci benissimo).

Mi piace il cibo. E mi piace anche il sesso. Ma non li voglio insieme. Mai. Mi piacciono le cosce di pollo, ma non c’è assolutamente niente di sexy nel portarsi a letto una coscia di pollo. Nella mia mente, la gente che nei siti gastronomici racconta di aver avuto un “ciborgasmo” evoca l’immagine di una persona tragicamente obesa davanti al computer che con una mano si masturba e intanto con le grosse dita unte dell’altra mano schiaccia i minuscoli tasti. Osservare qualcuno che ha un orgasmo può essere interessante. Ma un “ciborgasmo”? È poco allettante anche nelle migliori circostanze. Una signora che squittisce con entusiasmo per una torta al cioccolato con salsa di lamponi a letto dà nuovo significato all’espressione “essere tutta bagnata”.

Eppure Il pranzo di Babette prova (e riesce perfettamente) a conciliare gli opposti. Dice che potete rimanere fedeli ai vostri princìpi religiosi, mangiare davvero bene, essere completamente strafatti di vino e di cibo e tornare a casa per un po’ di devoto sesso anale.

Un classico del cinema “alimentare” sembra es­sere sfuggito alle nostre antenne: Munich, il capolavoro culinario di Steven Spielberg, che ha una sottotrama cibocentrica su cui il noto gastronomo Christopher Walken ha recentemente richiamato la mia attenzione.

Eric Bana interpreta Avner, un ufficiale del Mossad che guida una squadra ultrasegreta incaricata di eliminare i responsabili del massacro degli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco del 1972. Avner è anche un entusiasta cuoco dilettante che ama preparare pasti raffinati per la sua squadra. A quanto sembra sa cucinare un’eccellente punta di petto di manzo e non lesina sui piatti di contorno. Lui e un informatore s’incontrano di buon mattino mentre comprano porri selvatici. Una riunione della sua squadra ispira quello che sembra un tradizionale aïoli provenzale. Tra omicidi, sparatorie ed esplosioni di bombe, c’è cibo, cibo e ancora cibo. Perfino personaggi secondari come Papa, l’ex leader della resistenza che si occupa di informazioni e logistica per chiunque sia disposto a pagare la sua tariffa, appare mentre prepara con cura dei rognoni di vitello. Alla fine di un pranzo sontuoso, si congeda da Avner regalandogli un boudin noir e andouillette artigianale: una scelta bizzarra per un israeliano.

Cosa sta succedendo qui? Qual è il messaggio? Ho visto più volte il film, cercando di individuare un tema, un sottotesto: Spielberg sta forse dicendo che tutto questo cibo dall’aspetto squisito è un balsamo, un mezzo per placare la paura, la tensione e il senso di colpa di un killer professionista? Non si direbbe, perché nessuno sembra trovare particolare conforto negli sforzi di Avner. Tutto questo mangiare è semplicemente carburante, la roba di cui i servi fedeli dello stato hanno bisogno per fare bene il loro lavoro? Oppure il regista mette il grembiule da cucina ad Avner e circonda gli altri personaggi di pasti familiari in un cinico tentativo di rendere umani quelli che altrimenti sembrerebbero assassini privi di rimorsi? E perché il boudin? Perché l’andouillette? Cosa significano queste scelte? Di tutti i grandi film gastronomici, Munich è quello che confonde di più sulle sue vere intenzioni.

Il capolavoro trasgressivo e schizzato di merda di Marco Ferreri, La grande abbuffata, è senza dubbio l’antidoto a tutti gli altri film che ruotano intorno al cibo e alla cucina. Le sue descrizioni del cibo e del cucinare sono impeccabili e infinite: aragoste dalla corazza morbida come primo piatto, manzo charolais, faraona, poulet de Bresse, agnello, gamberoni alla Mozart con sauce Aurore, paté, ostriche, galletto, cinghiale. Tutto finisce gloriosamente in tavola, per lo più dopo essere stato preparato davanti alla cinepresa. Sarebbe difficile pretendere un’esibizione più allettante sia della cucina classica sia della nouvelle cuisine francese. Eppure La grande abbuffata non parla delle gioie della tavola. Il film indignò e scandalizzò la Francia e spinse alcuni spettatori a sputare addosso al regista a Cannes (e si dice che abbia portato Ingrid Bergman, che faceva parte della giuria, a vomitare senza controllo). Il cibo, qui, è un mezzo di distruzione.

Marcello (Marcello Mastroianni), Ugo (Ugo Tognazzi), Michel (Michel Piccoli) e Philippe (Philippe Noiret) sono quattro scapoli di successo che si ritirano in una dimora nei sobborghi parigini per quella che inizialmente sembra una breve fuga epicurea. Diventa subito chiaro dal loro appetito implacabile che hanno un’agenda più fanatica: mangiare a morte. Annoiati, infantili, pieni di disprezzo per se stessi e per il mondo, hanno pianificato di uscire di scena con assoluta grandezza culinaria, ma ben presto si ritrovano (letteralmente) a sguazzare nella loro stessa merda. Mangiare e scopare a morte poteva sembrare una buona idea, ma perfino le puttane ingaggiate per divertirli – che sicuramente devono aver assistito a molti brutti comportamenti nella loro vita – sono troppo inorridite e nauseate da quello che vedono per restare.

I quattro protagonisti regrediscono, con la pancia troneggiante sui pantaloni slacciati, le guance progressivamente più floride ed epici attacchi di flatulenza. Eppure continuano a cucinare – e mangiare – fino a morire in rapida sequenza, uno di loro letteralmente ingozzato a morte sul tavolo di cucina dai suoi servizievoli amici. Non è carino.

Il cibo, per quanto bello o ben preparato, diventa inevitabilmente merda in questa satira raggelante, spietata, il cui odio per il corpo umano e i suoi appetiti fa apparire Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pasolini come un film della Disney. Se vi scoprite a feticizzare il cibo, a passare troppo tempo a pensarci – o se avete mai usato il termine “ciborgasmo” – questo film vi offrirà un’utile prospettiva su cui riflettere.

(Traduzione di Giuseppina Cavallo)

Questo articolo è uscito il 15 aprile 2016 nel numero 1149 di Internazionale, a pagina 102. L’originale era uscito su Lucky Peach con il titolo “Eat, drink, fuck, die”. © 2016 Anthony Bourdain/Agenzia Santachiara.

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