Nel parlamento israeliano (la Knesset), ci sono 120 seggi, e mercoledì sera Benjamin Netanyahu ha annunciato la formazione di una coalizione di governo che potrà contare su 61 deputati. In altre parole ci sono voluti quasi due mesi di trattative prima che le elezioni del 17 marzo partorissero una maggioranza di appena un seggio, dominata da un partito di centrodestra, dalla destra, dai religiosi e da un partito nazionalista religioso, la Casa ebraica, ostile a ogni ridimensionamento dei territori occupati.

Netanyahu si trova dunque alla mercé dell’estrema destra, in un momento in cui i suoi rapporti con la Casa Bianca si sono deteriorati e non ha più molti amici in Europa, nemmeno nelle capitali più legate alla difesa di Israele. Uscito vincitore dalle ultime legislative, il primo ministro è in una situazione di stallo e senza margini di manovra sulla scena internazionale. Coalizione o meno, per Israele è un momento di crisi, e le ragioni di questa evoluzione sono molteplici e profondamente pericolose per il paese.

Prima di tutto il sistema israeliano, proporzionale integrale, favorisce la frammentazione delle forze politiche, ostacola la formazione di maggioranze stabili e costringe ogni governo a dipendere da piccole formazioni che finiscono per imporre la loro volontà. È il cancro della politica israeliana, aggravato negli ultimi due decenni dal male comune a tutte le democrazie, ovvero la crisi dei partiti tradizionali.

La sinistra laburista, fondatrice del paese, è ormai l’ombra di se stessa, perché non è riuscita a costruire la pace con i palestinesi né a difendere i più deboli davanti alle catastrofi sociali causate dalla liberalizzazione dell’economia cavalcata dalla destra negli anni novanta.

La destra, dal canto suo, può vantarsi di aver impresso un ritmo eccezionale all’economia israeliana, che negli ultimi anni è diventata una della più innovative del mondo nel campo delle tecnologie. Tuttavia molti elettori provenienti dalla classe popolare le rimproverano il loro impoverimento. Oggi esiste una spaccatura tra la destra e il suo elettorato, e questa crisi di destra e sinistra è alla radice dell’apparizione regolare di nuovi partiti centristi che si sgonfiano rapidamente, ma anche della costante progressione dell’estrema destra nazionalista.

Il terzo motivo del malessere israeliano è che la società è divisa in due, da una parte le classi medie urbane che vivono come a New York e dall’altra il popolo sempre più religioso. Il quarto motivo, infine, è che Israele aspira alla pace, ma ha troppa paura dei suoi rischi, quindi si abbandona a uno status quo sempre più suicida. “Avremmo bisogno di un de Gaulle”, si sente dire spesso in Israele. È vero, ma di nuovi de Gaulle non se ne vedono all’orizzonte.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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