Serviva una dichiarazione comune, anche se solo di facciata. Serviva perché se il G7 si fosse concluso senza che gli Stati Uniti e i loro alleati fossero riusciti a mettere insieme qualche frase, seppur vaga, avrebbe significato l’avvio di un ciclo di tensioni sempre più grandi. Era meglio mantenere un dialogo, o quanto meno l’illusione di un dialogo.
È sulla volontà (o non volontà) di trovare un’intesa che si sono basate le discussioni. Donald Trump se ne stava seduto, corrucciato, con le braccia incrociate. Gli altri sei – europei, Giappone e Canada – si rivolgevano al presidente statunitense come professori esasperati dallo studente intrattabile che ha cercato di dividerli, ancora prima di arrivare, lanciando l’idea, per l’anno prossimo, nonostante l’Ucraina, di un G8 con la Russia, idea a cui i nuovi leader italiani non potevano che mostrarsi favorevoli.
Cambiamento sismico
Trump aveva scommesso su questo per prendere in mano la situazione, ma non ha funzionato. Davanti al fronte compatto dei suoi partner, il presidente americano è stato costretto ad apporre la firma degli Stati Uniti sotto una frase incredibilmente audace, che ribadisce “la necessità di un commercio libero, equo e reciprocamente benefico” da difendere “sforzandosi di ridurre gli ostacoli tariffari, non tariffari e le sovvenzioni”.
Con il pretesto del suo incontro con il leader nordcoreano in programma il 12 giugno, Trump è partito senza nemmeno aspettare la fine del vertice. Il resto è storia nota.
Dal suo aereo, su Twitter, il presidente ha criticato le dichiarazioni del primo ministro canadese, ha attaccato il comunicato che aveva appena firmato e ha minacciato di tassare le automobili europee. Un dito medio, in sostanza. Un gesto talmente ostile che la Francia parla di “incoerenza” e “inconsistenza”, mentre a Berlino ripetono che bisogna opporre l’Europa unita a “l’America prima di tutto”. Ma cosa sta accadendo davvero?
La risposta è facile. Trump sta lavorando in vista delle parlamentari di novembre e delle presidenziali del 2020 presentandosi come difensore impavido degli operai statunitensi. In questo modo sta compromettendo i rapporti tra gli Stati Uniti e i loro alleati, anche perché l’America non vuole più essere il gendarme del mondo.
Questo cambiamento sismico è la realtà di oggi, una realtà a cui l’Europa vuole reagire accelerando la sua marcia verso una maggiore integrazione e dunque verso un ripensamento della sua evoluzione politica. Questa nuova sfida americana è talmente dura che Angela Markel, ormai diventata quasi francese nelle sue posizioni, ha sottolineato il 10 giugno che l’Europa a questo punto dev’essere “una potenza con una sua cultura strategica”.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it