La faccenda sarebbe passata quasi inosservata se il primo ministro turco non avesse esagerato con le sue richieste agli europei. Dopo la botte piena – cioè il controllo del quotidiano Zaman, ottenuto il 4 marzo, tre giorni prima del vertice sui migranti a Bruxelles – il governo ha voluto anche la moglie ubriaca. Il colpo di mano, o meglio il ricatto, era rischioso.

Ankara, infatti, sembra aver detto agli europei: “Siamo noi a dettare le condizioni e voi dovete accettarle. Vogliamo altri tre miliardi di euro per accogliere i profughi rimandati indietro dalla Grecia, la ripresa dei negoziati sull’adesione della Turchia all’Unione e la soppressione dell’obbligo di visto per lo spazio Schengen per 78 milioni di turchi entro giugno. I diritti umani non ci interessano”.

Gli europei erano già diventati vulnerabili nei confronti della Turchia quando si erano illusi che Ankara potesse fermare il flusso migratorio verso l’Europa occidentale, attraverso la Bulgaria e la Grecia.

Ma tutto era successo nel torpore estivo. E la Commissione, su richiesta di Berlino, aveva finito per piegarsi. Il suo presidente, Jean-Claude Juncker, aveva dichiarato che i profughi erano la priorità: tutto il resto, in particolare le violazioni delle libertà fondamentali in un futuro stato dell’Unione, era secondario.

L’obiettivo era importante e Ankara si è affrettata ad alzare la posta visto che l’Europa aveva bisogno del suo aiuto. Facendo credere che avrebbe fermato le partenze, la Turchia ha illuso gli europei. Ma era evidente che non sarebbe riuscita a fermare nessuno.

Le cifre parlano chiaro. Nel 2015 almeno 885mila profughi hanno attraversato il mar Egeo per raggiungere la Grecia, e nei primi due mesi del 2016 più di 120mila persone sono passate attraverso le maglie troppo larghe dei controlli turchi. Controlli che sarebbero dovuti cominciare dopo il vertice sui profughi del 29 novembre 2015.

Il problema è che è praticamente impossibile fermare una persona che vuole salvarsi la vita e che non si sente sicura nel primo paese in cui arriva, a meno di costruire delle frontiere insuperabili come in Corea del Nord. I siriani, per parlare solo di loro, stanno senza dubbio meglio in Turchia che a casa loro, ma in questo paese non hanno alcun futuro.

Fumo negli occhi

La Turchia non ha praticamente esperienza in materia di politiche di asilo, anche perché applica la convenzione di Ginevra del 1951 con alcune restrizioni geografiche (Ankara concede asilo politico solo ai cittadini dei paesi del Consiglio d’Europa) e non ha istituzioni in grado di gestire arrivi di massa. Inoltre, sulla costa turca si è sviluppata una vera e propria industria del traffico di esseri umani, con un giro d’affari miliardario. Si dice che schiere di lavoratori dell’industria dell’olio abbiano abbandonato il settore per approfittare della situazione. Difficile fermare questo sistema dall’oggi al domani.

Che fare quindi? Le parti in causa si divertono a credere ai miracoli, mentre i profughi continuano ad attraversare l’Egeo. Gli europei si illudono dell’efficienza dei controlli turchi, rafforzandola con pattuglie navali della Nato per scoraggiare non si sa bene chi. E intanto Ankara usa lo slogan “in Europa senza visto” per rafforzare il presidente Recep Tayyip Erdoğan, all’inseguimento del potere assoluto.

Nella loro ostinata ricerca di una soluzione alla crisi dei migranti, quello che gli europei non vogliono vedere è la deriva fascista che è seguita alle proteste del parco Gezi nella primavera del 2013, e che si è accentuata dopo le accuse di corruzione rivolte ai vertici politici nel dicembre dello stesso anno.

Da allora il paese è entrato in una spirale di violenza e di autoritarismo in cui si susseguono violazioni della legge sempre più gravi.

Nascondere in senso figurato ma anche letterale, visto il bavaglio imposto ai mezzi d’informazione. In questo sistema repressivo non c’è posto per la libertà di stampa, e il gruppo editoriale Feza, che pubblica i quotidiani Zaman e Today’s Zaman, è solo l’ultima vittima di una lunga serie di abusi contro giornali, emittenti tv e social network.

Un accordo immorale

La posizione della Turchia nelle varie classifiche internazionali sulla libertà di stampa la dice lunga. L’organizzazione Freedom house inserisce la Turchia nella categoria dei paesi “non liberi” e per la libertà su internet in quella “parzialmente liberi”.

Secondo Reporters sans frontières la Turchia è al 149° posto su 180 paesi, dietro il Niger, la Liberia, la Zambia, il Mali e lo Zimbabwe.

Per quanto riguarda le libertà fondamentali previste dalla convenzione europea dei diritti dell’uomo, la Turchia non è messa meglio: basti pensare alla guerra civile in corso nel Kurdistan turco. Nel 2015 è stata il paese da cui è arrivato il maggior numero di denunce individuali alla Corte europea dei diritti umani.

In conclusione l’immorale accordo che gli europei, primi tra tutti i tedeschi, cercano di concludere con Ankara avrà un solo risvolto “positivo”: far dimenticare per sempre la candidatura e l’adesione della Turchia all’Unione europea. La richiesta turca di rilanciare i negoziati con Bruxelles, infatti, è solo fumo negli occhi, perché il paese non soddisfa più quasi nessuno dei criteri per l’adesione, in particolare in materia di diritti umani.

Ignorare i soprusi commessi dal governo e continuare a discutere con Ankara significa considerare la Turchia come un paese terzo e non come un futuro membro dell’Unione. Per gli europei questa è anche una rinuncia ai loro valori democratici.

L’accordo, piuttosto, porterà con sé altre sorprese: incapaci di fermare i siriani anche chiudendo gli occhi sulle violazioni dei diritti umani in Turchia, gli europei si troveranno presto a dover accogliere anche i profughi turchi e curdi in fuga proprio da quelle violazioni.

(Traduzione di Andrea De Ritis)

Questo articolo è uscito su VoxEurop. Una versione di questo articolo è stata pubblicata l’11 marzo 2016 a pagina 25 di Internazionale, con il titolo “Il ricatto turco e l’ipocrisia di Bruxelles”. Compra questo numero | Abbonati

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