In Un nemico del popolo di Henrik Ibsen (che proprio in questi giorni è in scena al teatro Argentina di Roma) il protagonista, il dottor Tomas Stockmann, un medico integerrimo e brillante, scopre che le acque della sua cittadina, sviluppatasi intorno a una florida stazione termale, sono contaminate da sostanze nocive. Per depurare le acque, bonificare le terme, occorrerà un monte di soldi e la chiusura temporanea delle terme. A osteggiarlo è il sindaco della città, Peter Stockmann, che è anche suo fratello: un uomo altrettanto intelligente ma con pochi scrupoli, che si è arricchito grazie al turismo delle terme, e che non ha nessuna intenzione di dar retta a Tomas né di lasciar divulgare il suo allarme.
Il dottore allora si rivolge all’editore Hovstad e al tipografo Asklasen, responsabili del giornale locale, La voce del popolo: ha in mano le analisi delle acque che possono urlare la verità che il fratello sindaco vuole occultare. Hovstad e Asklasen prima sono entusiasti dell’occasione, poi tentennano e alla fine ci ripensano.
Il fatto è che la proprietà del giornale è dell’unione inquilini della città, la cui fortuna e il cui benessere dipendono totalmente dall’economia delle terme. Dare l’allarme rischia di portare alla rovina tutti quelli che sono diventati benestanti da quando c’è il turismo. Tomas non si dà per vinto, ma la sua battaglia per la verità gli farà guadagnare l’ostilità di tutti gli abitanti, trasformandolo da medico rispettato e benvoluto in nemico del popolo.
Fotografia del mondo contemporaneo
Un nemico del popolo è un capolavoro drammaturgico di quasi centoquarant’anni fa, e le plateali analogie con il contesto contemporaneo che hanno contribuito alla fortuna delle messe in scena recenti, compresa quella di Massimo Popolizio (Ubu per lo spettacolo, Ubu per la migliore attrice Maria Paiato, che interpreta Peter Stockmann), sono riconosciute soprattutto per quello che riguarda i meccanismi della folla che prima esalta e poi ostracizza leader che diventano capri espiatori, nella più clinica fotografia del populismo.
Ma c’è un altro meccanismo svelato da Ibsen che risulta ancora più interessante nel racconto del mondo attuale. La denuncia di Stockmann trova il suo ostacolo più grande nelle paure dell’unione inquilini, i piccoli proprietari di case diventati borghesi attraverso la valorizzazione degli immobili.
Roma diventa una città merce, un osso da spolpare per turisti famelici
Uno dei saggi più interessanti usciti nel 2019 in Italia l’ha scritto Sarah Gainsforth per DeriveApprodi e racconta in parte la stessa trama, scrivendo la storia della nascita e dello sviluppo di Airbnb e del modo in cui sta modificando le città contemporanee. Airbnb città merce. Storie di resistenza alla gentrificazione digitale ricostruisce e decostruisce l’aura mitizzante intorno alla nascita dell’azienda fondata da tre poco più che ragazzi, Brian Chesky, Joe Gebbia e Nathan Blecharczyk, nel 2007; e poi esamina come casi studio l’impatto di Airbnb in varie città del mondo, da San Francisco a Parigi, da New York a Venezia.
I due capitoli dedicati a Roma sono particolarmente avvincenti perché disegnano la vicenda recente della resa dell’amministrazione e della politica a un processo collettivo di speculazione. Roma diventa una città merce, un osso da spolpare per turisti famelici come la cittadina di Un nemico del popolo, per la smania di profitto di una folla di inquilini che – con addosso ancora la paura della povertà – diventano invece i veri unici padroni della città e della sua nuova rappresentazione.
Già, la crisi, la paura della povertà: “La proliferazione di Airbnb è avvenuta in un contesto di recessione economica, di precarizzazione del lavoro, di contrazione dei salari, di aumento del costo della vita e di finanziarizzazione della casa su scala globale”, scrive Gainsforth. Airbnb è riuscita a monetizzare l’interesse degli affittuari, dei microspeculatori, di chiunque si trovasse senza lavoro e magari volesse fare cassa con il suo ultimo bene disponibile. L’azienda è riuscita a estrarre valore dalle strategie di cooperazione, poi è riuscita a mettere a frutto anche le strategie di marketing con le campagne copiate ai movimenti, mobilitando in suo favore gruppi di elettori-consumatori. “E quando Airbnb non riesce a cambiare le regole, fa causa alle città che approvano norme a tutela del diritto all’abitare”.
Il sacco di Roma
Quale dottor Stockman potrà contrapporsi? Il risultato evidente è la distruzione della comunità. I sistemi di rating permettono ai partecipanti allo scambio di non sentirsi in dovere di continuare a interagire dopo la transazione economica. La sfera privata divora quella pubblica. L’imprevedibilità, il conflitto, che sono l’anima della vita urbana sono cancellate. E al tempo stesso si scrivono nuove norme di fatto che regolano l’uso delle città, esautorando l’amministrazione pubblica dal loro governo.
Secondo i sostenitori delle piattaforme digitali come Airbnb i sistemi di rating online giustificherebbero una totale deregolamentazione del settore in nome dell’innovazione. ‘Il motivo principale per regolamentare gli alloggi brevi turistici è la protezione dei consumatori, e i sistemi di reputazione potrebbero svolgere questo compito molto meglio dei governi delle città’, ha dichiarato Chesky, svelando la vera natura dello scambio che la piattaforma intermedia.
Roma è una dimostrazione plastica di questa strategia:
Quaranta milioni di turisti visitano ogni anno il centro storico di Roma, patrimonio Unesco dal 1980. Con una permanenza media di sole 48/72 ore, i flussi in crescita del turismo stanno rimodellando la città. Nella zona urbanistica del centro storico di Roma il 19 per cento degli appartamenti è in affitto su Airbnb. A Roma il numero di alloggi su Airbnb ha toccato quota 29.436. Di questi oltre la metà sono interi appartamenti: si tratta di quasi 19mila case sottratte al mercato ordinario degli affitti. Oltre la metà degli annunci su Airbnb è concentrata nel centro storico – nel primo municipio sono 10.497 le case affittate a turisti di passaggio.
La capitale è sempre stata la preda preferita di palazzinari e speculatori; ma da quando la popolazione non aumenta e il mercato immobiliare è in crisi, l’unico modo di saccheggiare una città sempre più povera è quello di garantirsi un posto migliore al banchetto della spoliazione.
In pochi anni la presenza di Airbnb a Roma ha permesso a pochi intermediari di gestire centinaia di appartamenti. Gli host con più di una inserzione, ovvero il 22 per cento del totale, ripartiscono la quota maggiore del mercato generato dall’affitto su Airbnb: il 58,8 per cento complessivamente. Chi governa la città?
Da un lato la retorica della condivisione scompare di fronte alla realtà di una distribuzione estremamente diseguale dei ricavi. Dall’altro la saturazione dell’offerta di case su Airbnb ha completamente sfasciato il mercato degli affitti. Host che gestiscono fino a quattromila alloggi, la percentuale di appartamenti interi aumentata al 76 per cento, Airbnb diventa il terzo locatore della città dopo i due pubblici:
A Roma l’intero mercato degli affitti viene stimato da Istat in 210.000 alloggi. Il primo gestore di alloggi è l’Ater Roma, con 48.000, l’Azienda Territoriale che gestisce le case popolari della Regione. Il secondo è il Comune, che detiene 28.000 alloggi pubblici. Il terzo, poiché di fatto è un gestore immobiliare, è Airbnb, con quasi 19.000 alloggi interi, ma se contiamo anche le singole stanze arriviamo a 30.000, tanto per farne capire il peso specifico.
Roma diventa una città in affitto per turisti mordi e fuggi. Spariscono le attività commerciali non legate al turismo, salgono i prezzi delle case per chi è residente, e questo processo diventa irreversibile. Se nell’era del lavoro precario la casa è l’unica forma di sicurezza economica, Airbnb funziona da divaricatore sociale, impedendo l’accesso alla casa a chi non ce l’ha e cerca un affitto.
C’è qualche forma di resistenza a questa involuzione? È utile accanto al libro di Gainsforth leggersi un altro libro uscito da poco da Donzelli, Città fai-da-te. Tra antagonismo e cittadinanza. Storie di autorganizzazione urbana dell’urbanista Carlo Cellamare. Anche il suo racconto è globale, ma poi si concentra su casi studio, e Roma è un osservatorio privilegiato nella progressiva privatizzazione delle città.
Non soltanto la politica ma le stesse istituzioni risultano progressivamente più distanti dai territori, tanto da interrogare sulla reale e piena cittadinanza degli abitanti di molte periferie urbane. Essi non trovano più ascolto, e non hanno neanche più un interlocutore riconoscibile che risponda alle loro esigenze, compito ordinario del ‘soggetto pubblico’ all’interno della democrazia. Da qui una profonda sfiducia, oltre che disillusione, nei confronti dell’amministrazione pubblica e delle istituzioni in genere, acuita dai ripetuti comportamenti corrotti e corruttivi che di volta in volta vengono rivelati, e che sarà assolutamente difficile recuperare. D’altronde è proprio il senso delle istituzioni dentro un modello neoliberista che è oggi messo in discussione.
Cellamare ci mostra che abbiamo di fronte due alternative di modelli urbani.
Da un lato una città senza legge, in mano ad attori privati e predatori, rappresentata simbolicamente dai tavolini che occupano le strade dei centri storici. Anche Cellamare sottolinea il carattere “estrattivista” del capitale nelle politiche urbane, che sussume tutte le attività sociali e umane, le mette a valore, le sfrutta, se ne appropria, le rende funzionali agli interessi di mercato. La gentrificazione che cos’è se non ridurre la socialità a merce?
Dall’altro lato c’è una città sociale, resistente, informale, partecipata. La diffusione di controculture e alternative sociali, fortemente caratterizzate da un punto di vista politico, hanno dato vita a conflitti importanti: i centri sociali di ieri, le occupazioni di oggi. A Roma questo fenomeno comincia a essere storicizzato: il Teatro Valle Occupato, il cinema America, Oxigene, la scuola Di Donato e la sua associazione di genitori, il Nuovo cinema palazzo a San Lorenzo, le esperienze di agricoltura periurbana, il condominio solidale alla Collina dei Barbagianni.
Questa seconda città resiste, ma soffre, combattuta e spesso sconfitta dall’aggressione speculativa: gli sgomberi, la trasformazione di spazi autorganizzati in privati, la retorica della legalità che si impone a distruggere sistematicamente l’informalità sociale.
Ma le pagine più importanti sono quelle in cui Cellamare ci tiene a ribadire una verità che non sembra più ovvia: senza una città formale, senza una politica, la città informale, la città fai-da-te non allarga lo spazio pubblico ma diventa il luogo dello scarto. L’arte dell’arrangiarsi non riesce a essere nemmeno una strategia di sopravvivenza.
Se dalla partecipazione dal basso non si passa a una fase costituente il rischio non è solo quello di disperdere l’energia politica, ma di abdicare ancora di più a una gestione apolitica della città, di arrendersi alla città anomica, senza regole né senso comunitario.
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