Quando mi è stata affidata questa rubrica, volevo dedicarla a Franco Battiato. Pensavo di chiamarla “Segnali di vita” e “Un auto da fè dei miei innamoramenti”. Questi titoli erano sentieri in cui perdersi, e ogni lettore lo avrebbe fatto a modo suo, perché Battiato era un sentiero: borgesiano, multiforme e infinito. Ho preferito tenerli per me, tracce fantasma di una rubrica in cui avrei voluto raccontare chi è stato questo straniero arrivato un giorno nella mia vita attraverso due formati perfetti: la canzone alla radio e la musicassetta di una persona appena conosciuta.

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Ognuno di noi ha un Battiato del suo tempo: prima di fare un’immersione nel suo catalogo, c’è stato il disco uscito proprio nel mezzo di una giovinezza innamorata e fertile. Il mio Battiato più vivo è stato quello di Gommalacca. Grazie a Shock in my town ho scoperto i Velvet Underground, e questa è la dedica d’amore più grande che possa fargli, perché mi ha permesso di far battere due cuori insieme, dando riparo a un’adolescenza marziana e trasformista, curandola come facevano David Bowie e Lou Reed. Lo ascoltavo su una cassetta dai titoli scarabocchiati insieme alla persona con cui sono cresciuta. Guidando per i sentieri assolati e monoteisti del sud, è stato sconvolgente imparare che si poteva parlare così: che ci si potesse esprimere nel modo terrorista e mistico dei personaggi di DeLillo, in uno spazio rischioso e virtuoso dentro cui si scivola da ragazzi, se fortunati, e non si risale più. È stato l’uomo di molti mondi, tutti amati, per cui non è mai bastata una lingua.

Questo articolo è uscito sul numero 1410 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati

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