Paolo Squillacioti sta curando per Adelphi la pubblicazione dell’opera completa di Leonardo Sciascia. Il primo volume è uscito nel 2012, il secondo nel 2014, il terzo uscirà nel 2018. Questo libro “fuori serie” intitolato Fine del carabiniere a cavallo raccoglie una scelta degli articoli non ancora raccolti in volume che Sciascia ha scritto in un arco di tempo che va dalla metà degli anni cinquanta al 1989, l’anno della morte.
Per chi non conosce Sciascia questo non è forse il libro da cui partire, perché, come spiega Squillacioti, la prospettiva dell’antologista è stata intenzionalmente parziale: “La scelta che qui si propone [è] ristretta a testi di argomento letterario […], e non pretende dunque di restituire un’immagine a tutto tondo dell’attività saggistica di Sciascia”. Per chi lo conosce (ed è sperabile che siano tanti, sempre di più: Sciascia essendo, mi pare, uno scrittore con le cui idee un italiano colto deve avere dimestichezza), questo libro è una piccola miniera di meraviglie e di occasioni per riflettere.
Il saggio che dà il titolo (felicissimo) al libro è anche il più remoto nel tempo. Uscito nel 1955 su Il Caffè politico e letterario, fa il punto sulla letteratura del decennio appena trascorso e conclude che quel desiderio d’ordine che ispirava i narratori degli anni venti e trenta (e che si coagulava appunto nella figura solenne e comica del carabiniere a cavallo) è ormai passato di moda: i libri di Vittorini, Pavese e degli americani hanno fatto maturare “una diversa concezione della letteratura, più aderente al reale e in cui semmai l’ordine costituito viene contestato. Una letteratura, va da sé, di cui lui stesso [Sciascia] si sentiva parte” (Squillacioti).
Sciascia trova poi la sua voce vera, unica – diventando, da buon saggista, saggista straordinario – dopo i quarant’anni
I saggi che seguono sono stati raccolti dall’editore in tre sezioni: Resoconti singolarmente militanti (recensioni uscite tra il 1957 e il 1961, cioè tra Le parrocchie di Regalpetra e Il giorno della civetta: tra i recensiti c’è anche la prima traduzione italiana dell’Ulisse di Joyce); Divagazioni sulla storia e la cultura europea (saggi stesi per lo più negli anni settanta e ottanta, su autori adorati come Stendhal e Pirandello, ma anche di discussione e critica delle idee correnti: un articolo su Marcuse, uno su Bernard-Henri Lévy); Ritratti complici di contemporanei (quasi tutti degli anni ottanta: Borgese, Longanesi, Savinio, Montale, Bufalino tra gli altri).
La raccolta migliora, mi pare, a mano a mano che si procede nella lettura, il che vuol dire che Sciascia è un buon saggista prima dei quarant’anni, quando molto di ciò che scrive sta ancora nel cono d’ombra della prosa d’arte assimilata in gioventù (a questo, diciamo, primo periodo, 1956, risale l’unico saggio deludente del libro, La sesta giornata, sulla poesia italiana degli anni quaranta: deludente ma non privo d’interesse perché apre uno spiraglio su uno Sciascia singolarmente dogmatico, uno Sciascia che scrive cose come “il popolo non è e non può essere arretrato relativamente al cammino della poesia (non delle mode), a patto che la poesia dica il mondo umano, di tutti gli uomini”). Ma Sciascia trova poi la sua voce vera, unica – diventando, da buon saggista, saggista straordinario – dopo i quarant’anni. A questo secondo periodo di piena maturità non solo anagrafica risalgono le pagine più belle del libro: l’articolo su Unamuno, il ritratto di Borgese, quello di Longanesi, lo splendido elzeviro Lacrime per Orlando.
Nella nota al testo Squillacioti scrive che chi ha familiarità col pensiero di Sciascia riconoscerà in questo libro “i temi e le ricorrenze cari all’Autore”. È così, infatti; ma più ancora che un ricorrere di temi, il lettore apprezza il ricorrere di uno sguardo, di un modo di porsi davanti ai libri e a chi li ha scritti, e di quell’equilibrio od onestà intellettuale che – per fare un solo esempio, per dire solo di una delle tante “ricorrenze” che si lasciano isolare nel libro – permette di giudicare con equanimità, e di capire e amare, con pari calore, tanto l’antifascista Borgese quanto i fascisti Longanesi e Pirandello.
L’esperienza del fascismo, infatti, cioè “il travaglio delle coscienze nell’accettarlo o nell’avversarlo, nell’averlo vissuto con spensierato o doloroso compromesso, il dovere di giudicarlo o di giudicarsi in esso” (così scrive nel saggio su Brancati), è uno dei Leitmotiv della riflessione di Sciascia, non solo negli anni del dopoguerra: e qui attraversa appunto molti dei “ritratti complici di contemporanei” che chiudono il libro.
Ho fatto quattro domande a Paolo Squillacioti.
Mi ha molto meravigliato il giudizio riduttivo sul Gattopardo. Credevo di sapere, di ricordare che Sciascia fosse un estimatore del romanzo di Lampedusa. Invece qui (1959) scrive: “A noi pare che De Roberto e Forster servano a motivare un giudizio negativo sul Gattopardo: un libro come I viceré per scoprire quel che Il gattopardo non è; un libro come Casa Howard per esemplificare quel che Il gattopardo avrebbe potuto essere”. Puoi dirmi cosa ne pensi?
Ricordi bene, ed è quel che si percepisce leggendo i libri di Sciascia, soprattutto per le numerose allusioni o le citazioni esplicite che riserva al Gattopardo e al suo autore; tanto che io stesso mi sono avvicinato a Sciascia, ormai qualche anno fa, soprattutto per capire come mai uno scrittore come lui, che mi pareva dovesse apprezzare senza riserve quel romanzo, ne avesse potuto dare un giudizio negativo.
Il fatto è che io, studente a Pisa, ho letto Il Gattopardo con la mediazione di Francesco Orlando, mentre Sciascia l’aveva letto appena pubblicato, e aveva esposto pubblicamente le sue riserve ideologiche al Circolo di cultura di Palermo nel gennaio del 1959, poche settimane dopo l’uscita in libreria, alla presenza della vedova di Lampedusa, Alessandra Wolff Stomersee, e del figlio adottivo Gioacchino Lanza Tomasi (è il testo ristampato nel volume Pirandello e la Sicilia del 1960).
Il romanzo gli appariva allora come un affascinante e ben scritto alibi di classe per chi voleva mantenere in Sicilia le condizioni sociali, politiche ed economiche che lui voleva contribuire a modificare. Non gli piaceva l’idea di Sicilia sottratta alla Storia che parrebbe emergere da alcune pagine del romanzo, dei siciliani incapaci di cambiare, lo stesso distacco ironico di Lampedusa che da “gran signore” si era divertito a definire Marx “un ebreuccio tedesco del quale non ricordo il nome”.
Per Sciascia, che aveva letto e meditato Marx e Gramsci senza mai diventare organicamente comunista, l’imperativo era cambiare le condizioni della Sicilia, denunciare il degrado e il sottosviluppo con i mezzi propri dell’intellettuale, in modo che i paesi dell’interno venissero risanati, i contadini potessero usufruire delle terre incolte dei grandi latifondi, si sviluppasse nel contempo l’industria, crescesse la cultura e migliorasse l’istruzione scolastica, venisse svelato il vero volto reazionario e violento della mafia. E Il Gattopardo gli pareva stesse, di fatto e ben oltre le intenzioni del suo autore, dall’altra parte rispetto a questo percorso di progresso.
C’era poi il piano letterario, come emerge anche dal brano che hai citato, perché Sciascia vedeva nei Viceré il modo più giusto ed esteticamente più convincente di rappresentare le contraddizioni del risorgimento in Sicilia e il trasformismo delle classi dirigenti isolane, e considerava il romanzo di Lampedusa un regresso anche da questo punto di vista. Il fatto poi che Vittorini avesse “rifiutato” Il Gattopardo (e poco importa se oggi sappiamo, grazie agli studi di Gian Carlo Ferretti, che le cose sono assai più sfumate) aveva ancor più radicato Sciascia nelle sue convinzioni.
Una volta Sciascia scrisse che non poteva né voleva apprezzare tutta la letteratura
Poi il tempo, le delusioni delle “forze del cambiamento”, le riletture del libro, il riconoscimento che Il Gattopardo non racconta l’immobilismo ma il cambiamento profondo e irreversibile che lascia immutati i nomi delle cose, delle persone, delle classi sociali, dando l’illusione che tutto sia davvero rimasto com’era, la comprensione piena della stessa personalità di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, del suo stendhalismo in particolare, tutto questo lo portarono a rivalutare il romanzo, e a usare la frase di Tancredi Falconeri (”Se vogliamo che tutto rimanga come è…”) come chiave interpretativa della realtà e del terrorismo in principal modo. Fino all’affermazione più esplicita, datata 1979, che storicizza senza rimozioni la presa di posizione di vent’anni prima: “Chi, come me, avanzò allora delle riserve sui contenuti del romanzo, sull’idea che lo informava, oggi è portato a riconoscere che quello che allora parve inaccettabile e irritante nel libro, s’apparteneva a delle costanti della nostra storia che allora era legittimo ricusare o tentare di ricusare, come legittimo era per Lampedusa riconoscerle e rappresentarle. Certo, mancherebbe molto, alla letteratura italiana di questi anni, se il libro non fosse stato pubblicato. E credo sia venuto il momento di rileggerlo; e per i giovani di conoscerlo”.
Nella nota al testo, per spiegare perché hai accolto nel libro anche recensioni a libri che Sciascia non ha particolarmente amato, come l’Ulisse di Joyce o Lolita di Nabokov, scrivi: “Quando si è intellettualmente onesti (ed è indubbio che Sciascia lo fosse), la giustificazione delle proprie idiosincrasie estetiche e ideologiche può rivelare aspetti della visione del mondo che la dichiarazione diretta delle predilezioni e delle idee condivise rischia di lasciare impliciti”. Molto giusto. Ma queste idiosincrasie rispecchiano anche un gusto, un’idea della letteratura. Guardando un po’ agli amori e ai disamori di Sciascia, ti sembra eccessivo dire che Sciascia aveva un’idea tutto sommato ottocentesca della narrativa, e che – salvo numerate eccezioni – i grandi autori sperimentali del novecento non sono stati mai i suoi autori, che insomma lo “strano”, in letteratura, o almeno il linguisticamente strano lo lasciava freddo? O semplifico troppo? O le cose cambiano con gli anni, come nel caso del giudizio sul Gattopardo?
Sì, un po’ semplifichi, ma cogli comunque il bersaglio. I suoi autori erano per lo più ottocenteschi (Stendhal, Manzoni, Tolstoj, e i primi due radicati nel secolo precedente), questo è indubbio, e del novecento gli interessavano gli scrittori che avevano scavato nelle sue inquietudini più che gli sperimentalisti (una volta gli chiesero se gli interessasse il lavoro di Balestrini; rispose seccamente: “No, non mi interessa”). Nel 1986, quando gli fu affidato il discorso celebrativo ufficiale in occasione del cinquantenario della morte di Pirandello, tracciò perfino un canone novecentesco molto ristretto che comprendeva, oltre allo stesso Pirandello, Kafka e Borges: tre scrittori dai cui nomi erano derivati degli aggettivi adatti a evocare, appunto, le inquietudini del secolo. E scartò volutamente Proust, con un’argomentazione che non mi ha mai convinto.
D’altro canto, una volta Sciascia scrisse che non poteva né voleva apprezzare tutta la letteratura, e che per esempio di Céline non voleva leggere nemmeno i grandi romanzi degli anni trenta, dopo che aveva avuto da giovane tra le mani Bagatelle per un massacro. Ma amava gli scrittori inclassificabili, come Savinio, che negli anni della formazione (in Sicilia durante il fascismo!) aveva rappresentato la vetta di modernità europea fruibile in Italia.
E quando poi arrivarono gli americani (che per lui, grazie a un professore disobbediente alle direttive autarchiche del regime, erano arrivati prima del luglio 1943) il libro che lo impressionò di più fu Il 42° parallelo di Dos Passos, costruito con uno sperimentalismo abbastanza spinto (piani narrativi paralleli, inserti poetici e documentari, stile secco e nessi non sempre esplicitati, almeno a giudicare dalla traduzione di Cesare Pavese di cui entrambi abbiamo fruito).
Poi indirizzò le sue predilezioni verso forme di narrazione più fluide, ma pienamente novecentesche (Steinbeck, Faulkner e, soprattutto, Hemingway), e verso i gialli, che si adoperò – anche come autore – perché non fossero considerati mera letteratura d’evasione.
Del romanzo poliziesco apprezzava la “leggibilità”, il fatto che dovessero essere ben scritti per avvincere il lettore, ma anche, e forse soprattutto, la possibilità di sperimentare tecniche narrative e combinazioni tematiche innovative in un contenitore tradizionale. Di qui l’interesse costante per il Gadda del Pasticciaccio e per il Dürrenmatt dei capolavori degli anni cinquanta (Il giudice e il suo boia, Il sospetto, La promessa), ma anche dei Fisici, pièce teatrale del 1962, precedente dichiarato della Scomparsa di Majorana.
La realtà si adeguava alle sue disforiche costruzioni romanzesche e lui non voleva passare per profeta
E proprio il libro su Majorana sta all’inizio del percorso più “novecentesco” di Sciascia, quello dei racconti-inchiesta che ha caratterizzato gli ultimi due decenni della sua attività. Il modo in cui ci arriva può apparire contraddittorio, visto che pochi anni prima aveva polemizzato in privato con i dirigenti dell’Einaudi perché aveva colto il crescente disinteresse della casa editrice torinese (dell’editoria italiana in generale, ma l’Einaudi era allora la sua casa editrice) per la narrativa. Si parlava di “morte del romanzo”, e la cosa lo irritava, perché considerava coloro che la evocavano più i boia che i medici legali.
Poi però, dopo Il contesto (1971) e Todo modo (1974), anche lui smise di scrivere romanzi nel senso tradizionale del termine, offrendo motivazioni extraletterarie: la realtà si adeguava puntualmente alle sue disforiche costruzioni romanzesche e lui non voleva passare per profeta o peggio per istigatore a delinquere. E quando, alla fine degli anni ottanta, tornò alla narrativa d’invenzione (o fiction, se si preferisce), propose con Il cavaliere e la morte (1988) un romanzo che se forse è troppo definire postmoderno, è certamente pienamente “novecentesco” e mostra in controluce le tante letture fatte nel corso del decennio, seguendo in particolare le variegate e spesso poco convenzionali proposte dell’Adelphi di Roberto Calasso.
Ma anche quando ricostruiva gli intrighi nella Palermo postunitaria nei Pugnalatori (1976) o rifletteva in presa diretta sul rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, o scriveva del maxiprocesso a cosa nostra, manteneva costantemente una propensione narrativa. E ha sempre provato fastidio per le teorie letterarie e per l’idea che il romanzo fosse morto o moribondo. Così in un intervento del 1984 sulla rivista Sigma, in un numero monografico sullo stato della narrativa italiana: “Savinio diceva di aver visto, nel corso della sua vita, la scienza mutare opinione sul pomodoro per ben quattro volte. Io credo di aver visto almeno altrettante volte mutare opinione sul romanzo, sulla narrativa. Ma il romanzo, il racconto, stanno ancora qui, come il pomodoro. E direi che sono ingredienti di vita allo stesso modo necessari che il pomodoro in cucina”.
Tra le cose che mi hanno colpito (sfavorevolmente) nel libro c’è l’accenno molto rapido, quasi liquidatorio a Lolita. Mi è venuto in mente quello che Sciascia ha detto una volta (non ricordo dove) intorno alla serenità – credo fosse questa la parola – che gli era venuta dalla scelta di sposarsi molto giovane, a 23 anni. Serenità da intendersi anche in senso sessuale. Manzoni diceva che di amore ce n’è anche troppo nel mondo, e che gli scrittori devono semmai cercare di mettere in circolo altri sentimenti e altre idee. Mi domando se Sciascia non sottoscrivesse questo parere: di fatto, mi pare che di amore e di sesso si parli molto di rado, nei suoi libri, o sbaglio? E mi domando se al fondo (e per esempio nel giudizio inadeguato su Lolita) non ci fosse anche un po’ di pruderie, comprensibilissima del resto in un uomo nato in Sicilia nel 1921.
Il giudizio su Lolita è del 1959, quando la pruderie era una caratteristica della società italiana oltre che un fatto individuale; vent’anni dopo, a chi gli chiedeva come mai un suo racconto fosse apparso su Playmen rispose di non avere riserve su quel genere di riviste e anzi che lo aveva divertito pubblicare, anche su Playboy, dei racconti che “rivoltano gli intendimenti stessi delle riviste stesse”. I due racconti sono Apocrifi sul caso Crowley (pubblicato su Playmen nel 1968) e Processo per violenza (uscito su Playboy nel 1972), entrambi raccolti in Il mare colore del vino (1973): non hanno nulla di pruriginoso e trattano il sesso con un taglio ironico il primo, come effetto collaterale di una perversione il secondo.
Se passo mentalmente in rassegna le occasioni – non molte, hai ragione – in cui Sciascia ha parlato di temi sessuali, ritrovo altre rappresentazioni divertite del gallismo siciliano (il Bandiera di Ritratto di un capo, per esempio, racconto del 1956) o inquisizioni su forme di trasgressione perversa (l’incesto vagheggiato come un’utopia da Casanova nel saggio del 1978 raccolto in Cruciverba), ma anche qualche colloquio amoroso ben scritto, come quello tra De Blasi e la contessa di Regalpetra nel Consiglio d’Egitto (1963).
Non so se ci sia un nesso tra la limitatezza del tema erotico e la sua condizione familiare: stando alle dichiarazioni pubbliche, a quelle che mi vengono in mente, è certo che la serenità (il termine è proprio quello) fosse per lui la precondizione della scrittura. “La famiglia mi ha dato un equilibrio, una serenità”, dichiarò nel 1976, “una regola di vita, non ho sofferto, non ho avuto molte felicità. Ma sono diventato scrittore anche per questo”. E sai dove lo dice? In un’intervista a Playboy, nel numero di agosto.
Ma lo ha ribadito in altre occasioni. Ne ricordo una di qualche anno prima, quando fu intervistato dal Corriere della Sera insieme con la moglie e le figlie: “Come scrittore non credo d’aver dato a mia moglie dei problemi particolari […]. Paradossalmente è meno borghese lo scrittore che vive in famiglia, non tradisce la moglie, si comporta come un impiegato di banca… Io, in famiglia mi ci trovo bene”.
E potrei ricordare altre interviste a rotocalchi femminili come Amica o Grazia curiosi del suo privato; in una rilasciata a Grazia del 1976 espresse una sorta di auspicio: “Una volta o l’altra scriverò una storia d’amore, ma proprio d’amore, non di erotismo senile, come a tanti scrittori della mia età capita”. Forse quella storia d’amore è Candido ovvero Un sogno fatto in Sicilia (1977), dove l’iniziazione sessuale di Candido Munafò è vista come un atto semplice e naturale (”E tutto avvenne così semplicemente, così naturalmente, che lo spogliarsi, il mettersi a letto, il fare all’amore fu nell’ordine delle cose, nell’ordine dell’esistere, dell’esser vivi”) e poi il sesso diventa, nel rapporto tra Candido e Francesca, uno dei modi della liberazione e della felicità.
Insomma, credo che a Sciascia non sfuggisse l’importanza del sesso come vettore narrativo (cosa conduce alla morte in A ciascuno il suo il professor Laurana se non l’idea di poter intrecciare una relazione erotica con la sensuale vedova Roscio?), ma aveva una tastiera tematica piuttosto ampia, e credo condividesse la frase manzoniana che hai ricordato. La sottintende, mi pare, in un breve intervento apparso sull’Europeo nel novembre 1979, in occasione dell’uscita di Innamoramento e amore di Alberoni:
Non ho letto nulla di quel che sull’amore è venuto fuori in questi ultimi anni: non so se rispondendo al fatto che di amore ce n’è poco o che ce n’è molto. Forse poco, se mi viene immediata l’analogia con la moltiplicazione e il successo dei libri sul giardinaggio. Ce ne sono tanti, e a quanto pare molto letti: mentre i giardini si riducono al terrazzo di casa o ai due metri quadri davanti la porta.
Nella nota al testo parli di più di 1.400 articoli sparsi in giornali e riviste (e altrove?). Mi puoi raccontare come hai lavorato, materialmente (biblioteche, archivi, contatti coi famigliari di Sciascia)? E mi puoi dire (o ripetere, dato che un po’ lo spieghi nel libro) come hai selezionato il materiale? E resta fuori qualcosa/molto di molto bello?
Sciascia è stato un autore particolarmente prolifico e versatile, e non ha mai disdegnato sedi di pubblicazione anche molto defilate, e per esempio di presentare libri di autori poco noti o di offrire testi a cataloghi di mostre in gallerie d’arte tirate in poche copie.
Perciò non solo i suoi scritti dispersi sono numerosi, ma anche di difficile individuazione e reperimento. L’assenza di una bibliografia sistematica ha fatto il resto, impedendo sinora la ricostruzione finanche delle raccolte di saggi e racconti approntate dallo stesso Sciascia (sempre parco di riferimenti bibliografici), e in generale della vicenda editoriale delle sue opere.
Sarei però disonesto se dicessi che non mi sono stati utili i repertori bibliografici esistenti: ma essendo per lo più lacunosi e scorretti o – quelli buoni – settoriali e parziali, ho dovuto svolgere un ingente lavoro preliminare soprattutto nelle biblioteche pisane e fiorentine. Un lavoro che sono riuscito fortunatamente a completare prima che a Pisa la biblioteca Universitaria fosse dichiarata inagibile e che quella provinciale (dotata di una emeroteca utilissima a chi studi la cultura italiana del secondo novecento) si preparasse a una prossima, incomprensibile chiusura, e che il Forte Belvedere della Nazionale di Firenze fosse inattingibile.
Molto materiale l’ho trovato alla fondazione intitolata allo scrittore nel suo paese natale, Racalmuto in provincia di Agrigento, ma anche lì non mancano i problemi per la carenza di fondi e quindi di personale: i due addetti danno il massimo, ma il materiale più prezioso della fondazione, le migliaia di lettere inviate allo scrittore, resta per la gran parte non catalogato. È andata meglio con gli archivi delle case editrici Laterza, Einaudi, Bompiani e Adelphi (da Sellerio invece non ci sono andato, ma lì Sciascia era di casa e lavorava direttamente con la redazione e poi, evidentemente, faceva sparire le sue tracce), e con altri archivi del novecento (l’archivio A. Bonsanti al Vieusseux di Firenze, l’archivio E. Linder alla fondazione Mondadori di Milano).
Sciascia è uno scrittore che suscita ancora forme di venerazione
E ancora meglio è andata (e va) con la famiglia Sciascia, che custodisce ancora intatta la biblioteca dello scrittore e una buona parte dei suoi scritti (ma non tutti e non del tutto catalogati: molto lavoro l’ha fatto nei vent’anni di vedovanza la moglie Maria Andronico): ho “scoperto” così un gran numero di scritti, poco noti o addirittura sconosciuti, anche agli specialisti e agli appassionati. Sciascia è uno scrittore che suscita ancora forme di venerazione, con punte di maniacalità, ma le persone che amano e ne collezionano gli scritti sono in genere ottime persone, generose e disponibili nei miei confronti da quando, 6-7 anni fa, ho avviato una raccolta sistematica dei suoi scritti e delle interviste, oltre che dei materiali necessari all’indagine filologica.
Il libro è nato da una drastica selezione degli scritti dispersi che mi ha portato a escludere innanzitutto la produzione anteriore alla metà degli anni cinquanta, ovvero degli anni che l’autore stesso considerava di preparazione all’attività matura. Ho inoltre scartato tutto ciò che non riguardasse la letteratura e fosse stato già raccolto in volume dopo la morte di Sciascia; ho infine limitato al massimo i temi siciliani e privilegiato quelli europei. Pur con questi criteri restavano un centinaio di saggi su cui operare una scelta che avesse un senso, e che non superasse i 40 pezzi.
Non è stato facile, ma non ho lavorato da solo, come è giusto che sia. Mi piace ripetere quello che ha scritto Mauro Bersani, dirigente dell’Einaudi, in un saggio apparso nel numero monografico curato da Paola Italia e Giorgio Pinotti di Studi (e testi) italiani (2014, 33) dedicato a Editori e filologi. Per una filologia editoriale:
Tre sono gli attori in commedia nella gestione filologica dei classici sotto diritti: gli eredi, la casa editrice e gli studiosi. In ordine decrescente di importanza, giacché gli eredi possono decidere di cambiare sia la casa editrice sia gli studiosi che si occupano delle edizioni dell’autore in questione, mentre la casa editrice può decidere, in concerto con gli eredi, di cambiare gli studiosi. Questi ultimi possono decidere come impostare l’edizione solo quando ne ricevono mandato dall’editore con l’approvazione degli eredi. Uno studioso, per quanto geniale, non può pubblicare nessuna edizione di autore sotto diritti se non ricade nelle condizioni sopraddette.
Tutto il mio lavoro su Sciascia si svolge tenendo conto, a ogni passaggio, delle condizioni evocate da Bersani; e se in Fine del carabiniere a cavallo qualcosa di significativo che avevo pensato di inserire è rimasto fuori (penso a un paio di articoli su Pasolini del giugno 1974 e del gennaio 1975, a un ampio intervento su García Lorca apparso su Mondo Nuovo nel 1960) la scelta è, per me, quella più giusta.
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