Mentre tutti cercano di riprodurre l’essenza degli anni ottanta, chi ricreando in varie forme i Goonies, chi rispolverando vecchie drum machine e total look di Versace, o bamboleggiando con la pixel art, muore Pete Burns e con lui, silenziosamente, se ne va un pezzo dello spirito di quegli anni che sarà impossibile riprodurre o rispolverare.
Pete Burns non era solo una one hit wonder, una meteora. Pete è stato un tipo di popstar che oggi nessuno sarà più in grado di ricreare, perché era parte di un mondo che non esiste più.
Anzitutto era un autentico outsider, l’erede consapevole di una tradizione britannica di eccentrici e di dandy che si è riversata, tra gli anni sessanta e settanta, nella cultura pop britannica. Effeminatezza esibita, grandi gesti teatrali, ma anche una pinta di lager in mano, una lingua tagliente e la possibilità sempre in agguato di poterti mollare un bel cazzotto in faccia. Nei suoi momenti migliori Pete è stato un teppista intrappolato in un kimono da giapponesina. È stato un punk, un postpunk, un goth, un new romantic e un mutante postumano. Al di là delle mode e dei tempi che cambiavano il suo obiettivo è sempre stato la diversità.
Nel 1985, quando sulla scena pop è esplosa You spin me round (like a record), Pete Burns aveva già subìto varie trasformazioni. Da cocco di mamma isolato e sognatore (sua madre era austriaca e aveva un nome fassbinderiano, Evelina Maria Bettina Quittner Von Hudec) era diventato un commesso di dischi punk e notoriamente sgarbato a Liverpool e il leader della band gotica Nightmares in Wax (nessuna parentela con il dj Nightmares on wax).
You spin me round è la “one hit” che ha oscurato tutto il resto della produzione della sua stessa band, i Dead or Alive, e buona parte del dance pop uscito in quegli anni. Solo in questo senso Pete Burns è stato una one hit wonder. Il pezzo era una produzione hi-nrg del trio Stock, Aitken & Waterman, gli stessi di Venus delle Bananarama, di Rick Astley e dei primi singoli di Kylie Minogue. You spin me round sembra l’evoluzione di un altro pezzo hi-nrg, Shake it up di Divine, prodotto nel 1983 da Bobby Orlando.
L’androginia era una regola, una divisa, e in quegli anni non scandalizzava nessuno
Divine era un leggendario travestito, la star dei film trash di John Waters e la sua voce sgraziata e, per mancanza di altri aggettivi, punk, graffia il ripetitivo groove della canzone. Anche Pete è un travestito, o meglio una specie di travestito: ha una vestaglia di seta viola, una massa di capelli cotonati ed è molto truccato. Ma a differenza di Divine non è una drag queen, un’attrazione da cabaret o il personaggio di un film. È una meravigliosa, iridescente popstar.
“Se solo potessi scoprire come ti chiami o rintracciare il tuo numero privato”, canta Pete Burns con solida voce tenorile e inequivocabilmente maschile. You spin me round è la classica canzone da colpo di fulmine in discoteca, da rimorchio in una pista da ballo appiccicosa di sudore e di birra versata, con un sentore nell’aria di etere e di popper. Come Madonna in Into the groove, uscita nello stesso anno, anche Pete guarda negli occhi l’oggetto del suo desiderio mentre balla e si propone senza inibizioni: “Ne voglio, ne voglio”.
Successo mai eguagliato
Solo i Frankie Goes to Hollywood con Relax, altro classico da gay disco anni ottanta, si erano spinti a suggerire l’eiaculazione in un pezzo pop. Pete in You spin me round fa molto di più, ti tiene in sospeso in attesa di un cum shot (l’inquadratura dell’eiaculazione nei porno) che non arriverà mai: “Watch out here I come”… attento che arrivo, ma anche attento che vengo. Il pezzo è incalzante e i doppi sensi sessuali li vede solo chi li vuole vedere: il risultato è un successo mondiale e una canzone che nessuno riuscirà mai eguagliare. Compreso lo stesso Pete Burns.
Nel video Pete gira su se stesso, agita drappi colorati e ventagli, sfoggia cotonature vertiginose e sguaina artigli che ricordano tanto una danzatrice giavanese quanto Wolverine. Il suo look è figlio dei travestimenti di Paul Bowery e di Lindsay Kemp, fratello dei vestaglioni di Boy George e cugino dello stile tra David Sylvian e la commessa di profumeria di Nick Rhodes dei Duran Duran. L’androginia era una regola, una divisa, e in quegli anni non scandalizzava nessuno.
Pete finiva sulle copertine delle riviste per teenager e nelle interviste parlava di tutto. E, a differenza dell’allora asessuato Boy George e dell’allora represso George Michael, parlava anche di sesso. In una famosa storia di copertina di Smash Hits dell’ottobre del 1985, Pete Burns e Morrissey degli Smiths raccontano come si sono conosciuti: “Pete mi ha mandato 26 rose rosse per il mio compleanno”, dice Morrissey. “E io gli ho mandato 48 marinai nudi”. La differenza con le popstar di oggi è palese: Pete Burns era già una superstar prima di essere famoso, faceva parte di una scena musicale, usciva di casa e prendeva l’autobus vestito così. Le sue canzoni pop erano studiate a tavolino e promosse da una major, ma il personaggio c’era ed era molto autentico. Anche troppo.
Passione aggiornata
Il successo a un certo punto si è affievolito ma non certo la voglia di distinguersi. All’inizio del nuovo millennio Pete comincia a sottoporsi a una serie di interventi di chirurgia estetica. Vuole più zigomi e più labbra: quello che prima faceva con il trucco ora lo fa modificando il suo viso. In più si dà al body building e ai tatuaggi. Sui giornali cominciano a uscire di nuovo le sue foto e quando, nel 2003 esce un remix di You spin me round con un video in cui per la prima volta mostra la sua trasformazione, si è cominciato a dire: “Pete Burns è un transessuale”.
In realtà Pete Burns non è mai stato un transessuale. Ha semplicemente aggiornato la sua passione per il travestimento e per il travestitismo secondo un’estetica postumana e postgender. Il suo corpo era più che mai mascolino, muscoloso e tatuato, la sua voce profonda e il suo accento di Liverpool sempre più pesante. Il suo viso invece era diventato un incrocio tra Alba Parietti e Cher.
Pete Burns ha fatto, in chiave pop e senza alcun intellettualismo, quello che nell’arte contemporanea ha fatto Orlan e nella musica d’avanguardia Genesis P-Orridge. Si è plasmato fino a diventare la sua stessa arte. E visto che l’industria musicale era cambiata e che non è mai stato un artista concettuale o d’avanguardia, il suo palcoscenico è diventato quello dei reality show.
Nel Celebrity Big Brother 4, andato in onda su Channel 4 tra il 2006 e il 2007, Pete Burns è esploso una seconda volta nell’immaginario britannico. Non era lì nei panni patetici della ex popstar. Era lì in quanto freak, anzi in quanto Freak unique, come ha poi intitolato la sua autobiografia. Non era né uomo né donna ma nessuno si azzardava a prenderlo in giro o fargli domande sul suo aspetto e la storia del “rapimento” della sua pelliccia di gorilla è diventata una pagina di storia dei reality e un capitolo della storia del camp, se mai qualcuno ne scriverà una.
Il 2016 è stato un annus horribilis nella cultura pop. Abbiamo perso artisti come David Bowie e Prince e pionieri come Alan Vega. Con Pete Burns abbiamo perso qualcosa di meno importante ma solo perché meno afferrabile: abbiamo perso l’ultimo, vero eccentrico inglese. E persone come lui non ne nasceranno più.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it