Quando nel 1999 uscì My beauty, il secondo album solista di Kevin Rowland, già cantante dei Dexys Midnight Runners e una delle voci più amate del post punk britannico, si parlò solo della sua copertina. Rowland appariva con le basette lunghe e i capelli diradati da rocker di mezza età ma truccato, con un filo di perle al collo e un abitino di raso sollevato a mostrare uno slip nero e un paio di calze autoreggenti. Dietro di lui un paravento rosa con un boa di struzzo appoggiato. Non era drag, o almeno non proprio: era solo un uomo non più giovane che ci guardava con l’aria di chi è stato beccato a fare qualcosa che non doveva fare.
My beauty è una raccolta di cover, una serie di canzoni che hanno aiutato Kevin Rowland a uscire da una brutta crisi depressiva. Lui stesso descrive queste canzoni come dei farmaci salvavita, dei barlumi di luce che intravedeva in fondo al tunnel. Visto da fuori, è devastante nella sua banalità: un cantante un po’ ammaccato che torna sulle scene dopo un lungo periodo di disintossicazione con degli standard arrangiati in modo melenso. Per capirci, l’album comincia con una sua versione di The greatest love of all di Whitney Houston: cosa poteva esserci di più urticante alla fine degli anni novanta? Eppure da dentro, My beauty è un album di sconcertante umanità, una confessione di fallimento esistenziale e una straziante richiesta di perdono. E la copertina, spesso citata tra le più brutte della storia del pop, è in realtà una perfetta introduzione al tema centrale del disco: un maschio bianco di mezza età che ha il coraggio di mostrarsi in tutta la sua fragilità agli occhi di un pubblico pronto a farlo a brandelli.
Nel Regno Unito di fine anni novanta, durante il lungo crepuscolo della cool Britannia di Tony Blair e del brit pop, non era facile esporsi come ha fatto Kevin Rowland. I mezzi d’informazione inglesi, soprattutto i settimanali musicali, erano ancora fortemente maschilisti e alla vista dell’icona dei Dexys Midnight Runners, autore di inni generazionali come Geno o Come on Eileen, vestito da donna si è scatenato un linciaggio che alla sensibilità di oggi appare intollerabile. È stato scritto che Rowland era impazzito e che My beauty era la colonna sonora del suo esaurimento nervoso, del suo crollo. Quando è comparso al festival di Glastonbury in abiti femminili e con due ballerine al fianco, è stato coperto di fischi, di insulti e di bottiglie. Per poter arrivare in fondo alla famigerata The greatest love of all ha chiesto alla folla per pietà di smettere di lanciare oggetti sul palco perché la canzone era difficile e lui cercava di renderla al meglio delle sue possibilità. Durante le interviste Rowland cercava di spiegare che My beauty non era l’album del suo esaurimento nervoso anzi, al contrario, era l’album della sua guarigione. Ma nessuno ascoltava. L’album fu un fiasco e Kevin Rowland era spacciato, la sua carriera sepolta sotto un vestitino di raso sintetico, un boa di struzzo spennacchiato e un cumulo di bottiglie vuote.
Risentite oggi, le canzoni di My beauty hanno un’urgenza che il pubblico britannico del 1999 non poteva o non voleva vedere: sono piene di dolcezza e di perfida ironia, di gigioneria e di autocompiacimento ma anche di generosità e di autentica bravura. Rowland non ha paura di nulla: si tuffa nei luoghi comuni della canzone di Whitney Houston e li spoglia di qualunque intento consolatorio: il verso I learned to depend on me, “ho imparato a fare affidamento solo su me stesso”, diventa l’amara presa di coscienza di una solitudine con cui bisogna convivere giocoforza. Tutti gli altri pezzi dell’album parlano di un percorso di riscoperta di sé: alcuni in modo ovvio (The long and winding road dei Beatles), altri, come Rag doll dei Four Seasons, in modo più obliquo ed efficace. Rowland fa sempre delle variazioni, a volte radicali, sui testi originali (soprattutto su Thunder road di Bruce Springsteen) e ottiene in pieno quell’effetto da intrattenitore da crociera che, dietro ad arrangiamenti stucchevoli e sorrisi di circostanza, vive dolorosamente le sue canzoni parola per parola. In fin dei conti è quello che stanno facendo, in modo diverso e con diversi gradi di consapevolezza, Robbie Williams e Morrissey nella fase terminale delle loro carriere.
Con la ristampa (e la cauta rivalutazione) di My beauty nel 2020, Kevin Rowland ha girato un nuovo video per Rag doll in cui a immagini di mascolinità britannica di fine anni novanta (le ultime riviste di tette, tifosi ubriachi, macchinoni e scampoli di brit pop) si alternano documenti di oggi, con uomini (etero o gay) orgogliosamente in gonna. Nel video compare anche Roo, nipote apertamente non binario di Rowland, che ricanta la canzone in playback con un vestito molto più carino di quello che portava il nonno. “Le ridevano sempre dietro quando scendeva in città”, dice la canzone dei Four Seasons, “ma il suo bel visetto meritava pizzi e merletti”. E, a distanza di più di vent’anni, i pizzi e i merletti di Kevin Rowland hanno avuto la loro rivincita.
Kevin Rowland
My beauty
Creation, 1999
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