Samovar d’argento su tappeti kilim, dervisci mulinanti e danzatrici balinesi, l’Egitto prima delle sabbie e il governatore della Libia in un tintinnare di sistri, di crotali e cavigliere del Katakali. La cifra del Battiato anni ottanta, del suo pop di ricerca e di successo, è l’esotismo. Un esotismo parcellizzato, elencatorio ed evocativo più che descrittivo, un esotismo postmoderno ancora debitore di una certa fricchettoneria anni settanta. In certi versi di quel Battiato sentivo il profumo familiare della tolfa consumata della babysitter gruppettara che mi portava al parco da bambino; le sue ampie gonne a fiori, i sandali di cuoio, il balsamo di tigre e gli incensi di Sai Baba che in quella borsa senza fondo si mescolavano alle Camel, a delle caramelle Charms pietrificate e magari a un tocchetto di fumo. Un esotismo hippy fuori tempo massimo e una new age all’amatriciana di cui Battiato era molto cosciente. È l’esoterismo un tanto al chilo che lui descrive così bene in Magic shop (dall’Era del cinghiale bianco). Eppure nel Battiato anni ottanta non c’è solo quell’ironica consapevolezza, c’è anche la coscienza di ricollegarsi a una tradizione molto più antica e sedimentata.

Fin dal settecento l’esotismo è stato una fuga dell’europeo bianco verso un altrove misterioso e carico di promesse estetizzanti ed elettrizzanti; dalle cineserie dei salottini di madame du Barry, tutti ninnoli e boiserie laccate, alle turcherie e ai serragli di Mozart. E poi tucani, pappagalli e scimmie che venivano dipinti ovunque, su ventagli, su paraventi e su tazzine, chicchere, tabacchiere e scatoline. Un esotismo grazioso e libertino, quello del settecento; più crudele e apertamente erotico quello dell’ottocento romantico: dalla Morte di Sardanapalo, che il pittore Eugène Delacroix ambienta in un harem in cui le schiave nude vengono trucidate mentre Sardanapalo aspetta la sua morte, alla Spagna moresca, tutta sangue e arena, della Carmen di Bizet, fino all’oriente sempre più rarefatto e quasi liberty delle opere di Camille Saint-Saëns e Léo Delibes. L’orientalismo del secondo ottocento francese è una fuga molto borghese in un altrove fantasmagorico, in cui profumi e colori promettono un mondo selvaggio e sensuale lontano dal caos e dal grigiore dei boulevard di Parigi. È comunque e sempre un invito al viaggio, una fuga centrifuga da un dentro soffocante verso un fuori carico di bellezze che sono lì per essere afferrate e godute dall’uomo bianco.

È con il surrealismo e con le avanguardie storiche che esotismo e orientalismo smettono di essere necessariamente legati all’altrove e al viaggio, e quindi inevitabilmente al colonialismo e al saccheggio, ma diventano qualcosa di più introspettivo, una sorta di orientalismo dell’inconscio. André Breton, il principale teorico del surrealismo, nel libro L’arte magica così parla di Paul Gauguin e della sua pittura: “La sua opera, specialmente la sua opera polinesiana, dà prova di una perpetua trascendenza dei fini plastici, semplici mezzi per lui, interamente informati dal fine vero di ogni attività artistica, la poesia. Gauguin è, prima delle promesse immediate del surrealismo, il solo pittore che si sia accorto di portare dentro di sé un mago”.

La musica pop diventava per lui una forma personalissima di esplorazione interiore e di continua sperimentazione esoterica

Anche il Franco Battiato della fine degli anni settanta deve essersi accorto di portare dentro di sé un mago. Come Gauguin, che pur vedendo davanti a sé la Polinesia vera ha scelto di guardare quella che era dentro di lui, fatta di mari gialli e di giardini blu, così Battiato ha scelto di usare l’esotismo per viaggiare non fuori di sé ma sempre più dentro al proprio essere. Erano gli anni in cui si avvicinava alla meditazione e tornava, dopo anni di sperimentalismo estremo, alla musica pop. Ma ci è tornato non come cantautore, legato per forza al filo di una storia da raccontare, ma come mago. Scegliendo, come dice Aldo Nove nella sua biografia non biografia di Franco Battiato, “l’evocazione al posto della narrazione”. È qui tutto il paradosso della “trilogia del successo” (L’era del cinghiale bianco, Patriots e La voce del padrone): la musica pop, quella che allora veniva ancora chiamata canzonetta, diventava per lui una forma personalissima di esplorazione interiore e di continua sperimentazione esoterica.

Su Google Maps esiste Mappiato, una mappa del mondo creata da Alessio Arnese con (più o meno) tutti i luoghi, lontani o vicini, citati da Franco Battiato nelle sue canzoni. Basta cliccare sul puntatore rosso per scoprire un luogo e la canzone in cui è evocato. Si viaggia da Tozeur a Tripoli, da Cartagine a Baghdad e si arriva fino alla Siberia e al Giappone. Ogni luogo è un nome e ogni nome è un grimaldello per forzare una serratura dell’inconscio.

Quell’esotismo fatto di parole, di elenchi infiniti di città, di oggetti e di persone così pieni di fascino è sì l’esotismo del viaggiatore, ma di un viaggiatore dell’interiorità. È oltre a tutto l’esotismo di un siciliano, di un uomo che in un luogo considerato esotico ci è nato. Franco Battiato dunque si mette in viaggio ma non per andare a fare un safari tra i “selvaggi” o per scoprire una natura incontaminata, ma parte per un’avventura nella giungla della propria stessa anima.

Marcel Proust descrive bene il potere evocativo delle parole, in particolare quello dei nomi dei luoghi. “A Firenze pensavo come a una città miracolosamente profumata e simile a una corolla, perché la chiamavano città dei gigli, e la sua cattedrale Santa Maria del Fiore”, scrive nella Recherche. E poi c’è Parma che sente come “compatta, liscia, mauve e dolce” e naturalmente Balbec, luogo per eccellenza del sogno proustiano: “Uno di quei nomi sui quali, come una vecchia terracotta normanna che conserva il colore della terra da cui deriva, si vede ancora profilarsi l’immagine di qualche usanza abolita, di qualche diritto feudale, d’un antico stato dei luoghi, d’una pronuncia desueta”.

Battiato riconosce alle parole la stessa carica d’incanto e di magia: Tozeur, Tripoli, Baku e Baghdad non sono città, sono varchi per immergersi in un sogno senza fondo. Franco Battiato è morto il 18 maggio nella sua casa di Milo, in Sicilia. C’è chi si consola scrivendo che si è solo addormentato, che è passato da un piano dell’esistenza a un altro, che è partito per uno dei suoi mondi lontanissimi, come il compositore jazz e mistico Sun Ra che, dicono i suoi adepti, non è morto nel 1993 ma si è solo spostato in un’altra dimensione. In realtà, per me, è come se Shahrazad, la narratrice delle Mille e una notte, quell’antico scrigno di esotismi meravigliosi, fosse rimasta senza più storie da raccontare al suo crudele signore e che quella morte che era riuscita a eludere, notte dopo notte con i suoi racconti, fosse alla fine riuscita a prenderla.

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