Se da qualche parte in cielo c’è un santo protettore dei coristi e delle coriste quello non può essere che Luther Vandross (1951-2005). Vandross è stato uno dei più grandi cantanti soul della sua generazione, una voce capace di dare senso a ogni sillaba di ciò che cantava con calore, eleganza e con un virtuosismo strabiliante. Eppure ha rischiato di rimanere tutta la vita nelle retrovie, a fare il corista e l’arrangiatore vocale per altri artisti. Un documentario del 2013, 20 feet from stardom (“A cinque metri dalla celebrità”), ha raccontato bene il mondo di quelle cantanti e di quei cantanti che, nell’ombra, facevano i cori alle più grandi rockstar del mondo. Dietro a ognuno di quegli anonimi coristi (nessuna delle persone intervistate è mai diventata propriamente famosa) c’era un artista, una voce e soprattutto una complicata storia di ambizioni e di compromessi.
Luther Vandross, un ragazzo newyorchese timido, sovrappeso e fan di tutte le grandi dive del soul, ha cominciato proprio così. Grazie al suo talento naturale e una prodigiosa musicalità, ha cominciato facendo da corista per il duo Roberta Flack & Donny Hathaway nel 1972. Nel 1974 la sua vita cambia grazie a David Bowie che prende un pezzo scritto da lui, Funky music (is a part of me), e la trasforma in Fascination. L’intera fase Young americans di Bowie è stata in parte dovuta all’incontro con questo impacciato ragazzone che diventerà suo corista in quel tour, insieme ad Ava Cherry, che avrà una breve storia con Bowie ma che rimarrà fino alla fine amica di Vandross.
Per tutti gli anni settanta la voce di Luther Vandross era ovunque, sia negli album delle superstar del momento (dagli Chic a Donna Summer) sia nei jingle pubblicitari che si sentivano alla radio. La sua era una delle voci più famose d’America, ma quasi nessuno conosceva il suo nome. Luther sentiva che dentro di lui c’era un grande performer, ma per insicurezza quella grande stella non aveva il coraggio di venire fuori. David Bowie lo incoraggiava a intraprendere una carriera solista e Roberta Flack era arrivata a licenziarlo da un suo tour per costringerlo a fare un disco da solo. Lo ha sentito ricantare tutte le canzoni della scaletta del concerto da solo, durante il soundcheck, mentre credeva di essere non visto. Lo ha preso da una parte e gli ha detto: “Se ti devo licenziare per convincerti a cantare da solo lo farò”. E così ha fatto.
Il critico musicale Craig Seymour nella sua biografiaThe life and longing of Luther Vandross scava a fondo nella complicata personalità del cantante: il suo problema di fondo era un’omosessualità repressa che lo ha condannato a una vita di solitudine, di fantasie e di desiderio mai soddisfatto. La musica della sua formazione non era il gospel, con la sua carica spirituale e potenzialmente liberatrice, ma il pop lussuoso e tirato a lucido dei grandi gruppi vocali della Motown. Il Vandross musicista è nato sognando l’impossibile, e lui stesso ha ammesso che tutta la sua carriera è stata “una fantasia”. Diana Ross e le Supremes, Gladys Knight e soprattutto Dionne Warwick erano schermi su cui proiettare i suoi sogni di glamour, di bellezza e di successo. Lui viveva la sua esistenza di uomo e di artista attraverso le loro canzoni, collaborare con queste dive come arrangiatore e come corista significava vivere attraverso di loro quello che non poteva vivere in prima persona, esprimere quello che non poteva esprimere.
Il debutto solista di Luther Vandross avviene in modo molto cauto e quasi in sordina. E avviene lontano da casa sua, in Europa, e più precisamente in Italia. Quando viene contattato da due produttori disco, il franco-italiano Jacques Fred Petrus e l’italiano Mauro Malavasi, per cantare in due pezzi che avevano realizzato per il loro progetto Change. Luther Vandross fa, inaspettatamente, la diva: vuole che il suo nome compaia e soprattutto chiede una quantità spropositata di soldi. Petrus e Malavasi, dopo qualche tentennamento, accettano le condizioni e il risultato sono due pezzi di luminosa bellezza: The glow of love e Searching, entrambi registrati a Bologna con Vandross che incise la parte vocale a New York. The glow of love in particolare diventa un classico: è un pezzo a metà strada tra la disco e il quiet storm, l’r&b notturno e piacione delle radio afroamericane di fine anni settanta. Senza The glow of love non avremmo mai avuto Get lucky dei Daft punk e soprattutto Pharrell Williams non l’avrebbe mai cantata così. Vandross, in una delle sue ultime interviste, l’ha ricordata come una delle canzoni più belle che avesse mai registrato. E non è difficile capire perché: The glow of love è una fantasia di amore ricambiato e vissuto alla luce del sole.
Forte di quel primo successo che finalmente portava il suo nome, Vandross decide di fare il grande passo e di uscire con il suo primo album negli Stati Uniti: il 21 aprile del 1981, a trent’anni, firma il contratto con la Epic e il suo singolo di debutto Never too much è un miracolo di leggerezza funky. Vocalmente, nel verso, suggerisce appena il ritmo sincopato del rap per poi sciogliersi in un cantato melodico senza l’ombra di scuciture o di ibridi artificiosi. Never too much è il debutto di un cantante già completo, anzi è il debutto di un artista al massimo delle sue capacità tecniche ed espressive.
Tutto l’album è un susseguirsi di pezzi funk-pop perfetti per le radio, sia bianche sia nere, dei primi anni ottanta. Nelle programmazioni radiofoniche del 1981 Luther si muove con la classe di un veterano tra superstar come Michael Jackson, Diana Ross, Lionel Richie e Chaka Khan. E anche per il pubblico diventa un loro pari. Scrivere pezzi pop gli viene facile: ascoltate I’ve been working e She’s a super lady, catturano l’orecchio immediatamente e fanno battere il piede con le loro linee di basso micidiali.
Eppure Vandross conclude quello che a tutti gli effetti è un leggerissimo album pop con un colpo di teatro: una cover di A house is not a home, canzone scritta dal duo Burt Bacharach e Hal David e resa famosa da Dionne Warwick nel 1964. È una canzone sulla solitudine, una meditazione sugli spazi lasciati vuoti da chi ci abbandona: sedie, stanze e case che ci sembrano sempre abitate dal fantasma di una felicità passata. Vandross trasforma la canzone in una confessione e quando implora “Ho bisogno che tu mi ami, che mi dica che mi ami ancora” canta la propria insanabile e divorante solitudine. Ma lo fa con l’eleganza del consumato intrattenitore, con la leggerezza del grande virtuoso capace di rendere vellutata e quasi affascinante la confessione di uomo che non ha mai amato.
Durante una cerimonia di premiazione nel 1988 Luther Vandross ha ricantato quella canzone davanti a Dionne Warwick, ormai da decenni sua grande amica. La estende a più di sette minuti, la arricchisce di cadenze e di abbellimenti vertiginosi. È in una sala piena di gente famosa ma la canta solo per lei, guardandola negli occhi per tutto il tempo. Si specchia in lei come quando da ragazzino cantava le sue canzoni davanti allo specchio e mette in scena per l’ennesima volta quello che per lui è sempre stata la più impossibile delle fantasie: quella di amare e di essere amato.
Luther Vandross
Never too much
Epic, 1981
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it