Patrick Riley e Alaina Moore si conoscono nel 2008 a un corso di filosofia dell’università del Colorado. S’innamorano e decidono di mollare tutto e di fare una lunga traversata in barca lungo la costa est degli Stati Uniti. Patrick aveva suonato la chitarra in qualche band locale e Alaina aveva studiato pianoforte, ma la musica è l’ultima delle loro preoccupazioni negli otto mesi che trascorrono per mare, innamorati, liberi e felici. Tornati a casa si sposano e, quasi per gioco, cominciano a scrivere canzoni sulle varie tappe della traversata: sensazioni, ricordi, città o porti in cui hanno attraccato. Il duo decide di chiamarsi Tennis, uno sport che vedono come un po’ démodé e perfetto per una coppia dall’aspetto wasp un po’ sgualcito come loro.
Nel 2011 esce Cape Dory, l’album di debutto che prende il nome dal modello di barca su cui veleggiavano ed è, a dieci anni dalla sua uscita, un piccolo classico segreto del pop estivo. Cape Dory è un diario di bordo sotto forma di leggere, ariose canzoni indie pop dal sapore anni sessanta. L’album è brevissimo (dura poco meno di mezz’ora) ed è notevole per equilibrio e asciuttezza di mezzi. Il suono è un mix impeccabile di girl pop anni sessanta, surf rock e indie pop lo-fi. Alaina Moore ha una voce d’altri tempi, dalla dolcezza un po’ aspra e una pronuncia buffa non sempre comprensibile. I suoi “oooooh” e “aaaah”, i suoi battimano e schiocchi di dita riportano alle classiche produzioni di Phil Spector e il suo tono passa dall’estatico al confidenziale nel giro di un paio di versi della stessa canzone. C’è molto stile, molta consapevolezza estetica nel suono apparentemente semplice e accessibile di Cape Dory, ma allo stesso tempo le canzoni hanno una dolcezza e una luminosità che danno un bel senso d’immediatezza e di romantica urgenza.
L’album si apre con Take me somewhere (“Portami da qualche parte”), una canzone-prologo in cui la coppia prende il largo e va incontro al sole: “Io prendo il timone e tu la cima, acque cristalline che splendono come una manta”. Sembra l’antidoto a There is a light that never goes out degli Smiths, pilastro della più depressa e tormentosa estetica indie: “Portami fuori stanotte” supplicava Morrissey pronto a finire, con l’amico alla guida, allegramente schiacciato da un autobus a due piani. “Portami da qualche parte… la scotta ti ricorda me?”, cinguetta invece Alaina al momento di salpare, promettendo che i due, sia come velisti sia come amanti, sarebbero stati imbattibili. Sembra troppo zuccheroso per essere vero, eppure i croccanti arrangiamenti dei Tennis rendono la loro storia d’amore e di mare appassionante e credibile per chi ascolta. Nelle canzoni c’è sempre un filo d’ironia vigile che ci permette di non annegare nella melassa. Marathon comincia come un pezzo a cappella dei Beach Boys per poi aprirsi in un irresistibile ritornello surf rock: la coppia di marinai è arrivata sana e salva in un’insenatura dopo una tempesta e, indovinate? È tutta una metafora dell’amore che, tra i flutti della vita, li ha fatti incontrare: “Le tue rive amabili si aprono per accogliere un navigante che ha passato la notte in mare”, canta Alaina tutta sognante.
Se Cape Dory è la luna di miele, il resto della discografia dei Tennis ha più spigoli: il loro matrimonio prosegue ma gli album successivi registrano i loro alti e bassi di coppia sposata di indie rocker. Quando decidono di fondare un’etichetta discografica la chiamano Mutually Detrimental, che significa “Reciprocamente dannosi” e il loro ultimo album, uscito nel 2020, s’intitola Swimmer, “nuotatore”, ed è basato sulla rivelazione che Alaina, nonostante la sua abilità di velista, non aveva mai imparato a nuotare.
Tennis
Cape Dory
Fat Possum, 2011
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