Prince (1958-2016) ha avuto un rapporto notoriamente burrascoso con l’industria musicale: ha firmato il suo primo contratto giovanissimo con la Warner Bros. che lo presentò come una sorta di nuovo Stevie Wonder, un ragazzo prodigio capace non solo di scrivere e produrre la sua musica, ma anche di suonare tutti gli strumenti esistenti. Sotto quel contratto Prince è diventato una superstar: ha prodotto hit radiofoniche, album di successo, film, video e colonne sonore a getto ininterrotto, guadagnando ma soprattutto facendo guadagnare molti soldi a discografici e manager.
Nel corso della sua lunga carriera Prince ha rinegoziato contratti, ha cambiato nome, ha rivendicato il possesso dei suoi master originali ed è andato in giro con la scritta Slave (schiavo) sulla guancia in segno di protesta, ha cercato di usare la rete per distribuire da solo la propria musica, ma soprattutto ha prodotto un numero enorme di canzoni, per sé e per altri artisti, molte delle quali giacciono ancora inedite in un archivio. L’unica costante della sua vita musicale è stata quella di suonare dal vivo: Prince si è esibito quasi ogni sera della sua esistenza dall’inizio degli anni ottanta fino a pochi giorni prima di morire, il 21 aprile del 2016. Non importa che si trattasse di arene, stadi o palazzetti; Prince suonava a tarda notte anche in piccoli locali o, se era a casa, a Minneapolis, suonava sul palco privato del suo complesso, i Paisley Park studios. Prince praticamente ogni sera ha imbracciato una chitarra o un basso, si è seduto a un pianoforte, a un organo Hammond o a una tastiera elettronica e ha fatto musica. Con altri o anche da solo.
È strano quindi che, con un’attività live così intensa, nella sterminata discografia di Prince ci siano così pochi album dal vivo ufficiali. Al momento se ne contano “solo” cinque (di cui tre usciti dopo la sua morte). Negli anni ottanta o si aveva la fortuna di vederlo dal vivo o ci si svenava acquistando bootleg, registrazioni pirata spesso di qualità mediocre. Esistevano anche registrazioni più ufficiali, legate a dirette televisive o radiofoniche, come la serata finale del Purple rain tour a Syracuse, negli Stati Uniti, il 30 marzo del 1985, o la data di Dortmund, in Germania, del Lovesexy tour (9 settembre del 1988); ma in linea di massima ci si doveva affidare a fonti non ufficiali.
Questi show estemporanei, accessibili a pochissimi fan, erano un elemento fondamentale della mistica di Prince
Tra i bootleg più desiderati e favoleggiati della fine degli anni ottanta c’era una registrazione intitolata Small club - Second show that night: una registrazione pirata, ma di ottima qualità, di un concerto a sorpresa che Prince tenne il 19 agosto 1988 al Paard van Troje, un minuscolo jazz club dell’Aja, nei Paesi Bassi. Era tipico di Prince: finito lo show ufficiale, fatto l’ultimo bis e presi gli ultimi applausi, si trasferiva in gran segreto in un piccolo locale con alcuni componenti della band per continuare a fare musica e a improvvisare fino alle prime luci dell’alba.
È meno strano di quello che possa sembrare: non dev’essere facile essere Prince per tre ore e poi spegnere l’interruttore, farsi una tisana al tiglio e andarsene a letto. Questi show estemporanei, accessibili a pochissimi fan fortunati e bene inseriti, erano un elemento fondamentale della mistica del Prince degli anni d’oro, il supereroe del funk che non dormiva mai. Per lui erano momenti di relax e di sperimentazione, spesso occasioni per lanciare nuove canzoni che il pubblico non aveva mai sentito o per eseguire cover di pezzi altrui.
In Small club, dopo una lunga intro strumentale Prince si rivolge al pubblico e dice: “Alzate la mano: chi è ubriaco qui dentro?”. Un’entrata molto diversa da quella dei concerti ufficiali di quel periodo, in cui arrivava in scena con uno svolazzante completo à pois su una Cadillac bianca scortato dalla ballerina Cat e dalla batterista Sheila E.
Nel 2007, quando Prince annuncia una serie di ventuno date alla O2 arena di Londra (una residency, come si direbbe a Las Vegas) è un uomo molto diverso dal genio che per un decennio ha inanellato successi pop e tour mirabolanti. Fisicamente sembra senza età, ma nella sua vita si sono susseguite due mogli, un figlio morto poco dopo la nascita, liti epocali con le case discografiche e una gran quantità di album che, per quanto geniali (almeno alcuni), faticano a restare al passo con i tempi. Nel 2004 aveva avuto una rinascita commerciale con l’album Musicology, un disco edito in proprio e solo distribuito dalla Sony Music che aveva accettato, a malincuore, che lui lo regalasse a chi comprava un biglietto per i suoi concerti. La stampa descriveva Musicology come un come back, un grande ritorno, ma lui, nelle frequenti interviste che concedeva in quegli anni di improvvisa loquacità, s’indignava: “Ma quale ritorno? Non sono mai andato via!”.
Le 21 serate alla O2 arena di Londra sono dunque il coronamento di un successo ritrovato per Prince, che finalmente, dopo decenni di carriera, sente di non dover più dimostrare nulla dal punto di vista commerciale. Ha capito che l’industria discografica che aveva passato la vita a combattere si stava sgretolando e a lui, un artista ricchissimo grazie all’intensa attività live e a contratti continuamente rinegoziati, non resta che fare la cosa che sa fare meglio: essere Prince.
I concerti londinesi (di cui non esistono registrazioni ufficiali se non qualche spezzone video) sono il trionfo dell’“essere Prince”: scalette eclettiche e capricciose che non sempre prevedono le hit che il pubblico si aspetta, continue improvvisazioni in cui lui cambia l’atmosfera della serata in base al suo umore e soprattutto, dietro alla sua disinvoltura sul palco, un controllo marziale della migliore band che abbia mai avuto. Tra i musicisti sul palco spiccano Cora Coleman-Dunham alla batteria, il tastierista jazz brasiliano Renato Neto e soprattutto il leggendario sassofonista funk Maceo Parker, già colonna portante di varie band di James Brown e di George Clinton. Prince fa in modo che un concerto non sia mai uguale all’altro e diversi fan arrivano a indebitarsi pur di assistere a tutte e 21 le serate.
Il giornalista e scrittore britannico Matt Thorne, autore del libro più esaustivo mai pubblicato sulla produzione di Prince, ha assistito a ben venti dei ventuno concerti (l’unico che ha saltato per cause di forza maggiore se l’è fatto descrivere minuziosamente) e soprattutto è entrato nel tunnel degli aftershow, gli spettacoli segreti che Prince teneva (o improvvisamente decideva di non tenere) alla fine di ogni esibizione ufficiale.
Thorne dedica un intero capitolo del suo libro all’esperienza e lui stesso si scusa per la ripetitività degli appunti che prendeva: “Ecco, stasera c’è stato il concerto migliore di tutti” è una frase che ricorre con allarmante frequenza, fin dalla terza data. A metà residency Thorne capisce che non ha senso fare una classifica di concerti così idiosincraticamente diversi uno dall’altro e soprattutto capisce che non ha senso cercare una logica nei capricci di Prince. Un’altra cosa che capisce è che il vero show era quello che si teneva per pochi fortunati, dopo le due di notte, all’Indigo, una piccola sala adiacente alla brutta ma funzionale arena londinese.
La cosa più difficile era capire se Prince si sarebbe presentato all’Indigo o no: a volte capitava che, dopo file interminabili per comprare biglietti non esattamente a buon mercato, i fan si trovassero davanti solo un dj o magari solo qualche componente della band di Prince, con o senza comparsate di artisti locali più o meno famosi. Quando arrivava, non mancavano le sorprese: la sera del 22 settembre, per esempio, apparve Amy Winehouse per cantare con Prince Love is a losing game (una canzone che lui ha sempre amato moltissimo). Qui, volendo, c’è un audio.
Eppure Prince molto spesso c’era e appariva sorridente sul palco, alle due o alle tre del mattino, fresco come una rosa e pronto a far ballare la gente fino all’alba. Matt Thorne, giornalista metodico e razionale, capisce subito che deve rinunciare a cercare una logica nei comportamenti di Prince, ma di una cosa è certo: la musica registrata in Indigo nights, l’unico album live ufficiale di quel periodo, uscito come gadget di un voluminoso libro fotografico, non è la migliore che si sia sentita in quel mese frenetico. A noi comuni mortali che non abbiamo visto Prince per venti sere di seguito resta però solo quello, e vi garantisco che non è affatto male.
Le tracce di Indigo nights sono tratte da due show segreti diversi, quello del 17 settembre e quello del 22 settembre 2007. Love is a losing game cantata con Amy Winehouse manca, forse per ragioni di permessi delle etichette discografiche, che in quel periodo non erano in rapporti idilliaci con Prince. La registrazione live, dettagliatissima anche nei suoni più sporchi (rumori del pubblico, risate, strumenti che vengono spostati sul piccolo palco), parte con una lunga party-jam basata sul pezzo 3121, in cui Prince inserisce interpolazioni da vecchie canzoni sue (D.M.S.R) e da classici del jazz (The entertainer di Scott Joplin, del 1902).
Difficile non farsi trascinare dall’entusiasmo: Prince non è solo un eccezionale bandleader, è anche uno strumentista, un cantante, un corista, un Mc e un capocomico. E quando parte Girls & boys, uno tra centinaia di singoli un po’ dimenticati che Prince può pescare dal suo sconfinato repertorio, il pubblico reagisce come se avesse attaccato Purple rain o Little red Corvette. Astutamente Prince mette in scaletta anche The song of the heart, una piccola, deliziosa canzone pop che lui ha regalato alla colonna sonora del film a cartoni animati Happy feet.
Risentire oggi questo documento ci fa riflettere su cosa abbia significato perdere così presto il suo talento
Tra un pezzo e l’altro abbondano i monologhi, tra lo spoken word e la stand up comedy, sempre sul beat prolungato del pezzo precedente. In uno skit intitolato Just like U Prince si ricorda quando era una persona normale, quando poteva cioè uscire di giorno senza essere riconosciuto. “Prima uscivo tranquillamente a comparare le sigarette e i tampax per mia madre” – un’accoppiata di oggetti decisamente Prince – “e ora invece mi trovo davanti un cretino, seguito da altri sei cretini che mi supplica: Prince, ehi Prince, se solo potessi fare una foto di te con Michael Jackson mi sistemerei, me ne andrei in pensione”. Nel suo skit paragona l’essere famoso a un animale allo zoo che tutti vogliono fotografare per poi riprendere le proprie faccende. E poi torna la musica: Beggin’ woman blues è il riadattamento princiano di un classico blues del 1947 di Cousin Joe e Rock steady è la cover di un incalzante pezzo di Aretha Franklin degli anni settanta qui cantato da un’eccezionale artista inglese che Prince ospita sul palco: Beverley Knight. Sentire Knight cantare il funk con una band di questo calibro fa capire quanto il suo talento sia stato poco valorizzato dalle etichette che si sono limitate a venderla come risposta britannica a Beyoncé quando invece poteva essere molto, molto di più. L’intercapedine tra funk e rock si dissolve quando Prince, imbracciando la chitarra, sulla linea di basso di Rock steady fa partire Whole lotta love dei Led Zeppelin. Se non è un tour de force questo…
Sul finale inganna il pubblico suggerendo l’accordo iniziale di The question of U per poi lanciarsi in un altro pezzo più recente, The one. Arriva l’alba che il pubblico dell’Indigo sta ancora ballando: All the critics love U in New York (uno dei pezzi più sperimentali del suo vecchio album 1999) si trasforma in All the critics love U in London, in un tripudio di botta e risposta col pubblico su una delle linee di basso più funky della sua carriera.
Risentire oggi questo documento in cui Prince è al massimo della sua maturità musicale e della sua capacità di performer ci fa riflettere su cosa abbia significato perdere così presto il suo talento. La morte di Prince è stata soprattutto l’interruzione di un discorso che si stava evolvendo e tutti i dischi inediti che stanno uscendo e continueranno a uscire non potranno mai raccontarci quello che sarebbe successo se lui fosse ancora vivo.
Prince
Indigo nights
Npg, 2007
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