Madonna. A rebel life è un nuovo libro su Madonna scritto dalla giornalista Mary Gabriel, già finalista al premio Pulitzer nel 2012 per una biografia del filosofo Karl Marx e di sua moglie Jenny. Il lavoro di Gabriel non ha il taglio delle solite biografie non autorizzate delle celebrità e più che cercare il dettaglio torbido ricostruisce con rigore giornalistico e storico la genesi culturale di quel complesso prodotto pop che è Madonna.

Di solito nelle biografie delle pop star i primi capitoli, quelli dedicati all’infanzia e all’adolescenza, sono i meno interessanti, quelli che si saltano per correre a leggere dei primi successi e dei primi scandali. In Madonna. A rebel life succede il contrario: i primi capitoli, ambientati tra Pontiac e Ann Arbor nel Michigan, tra la fine degli anni cinquanta e i primi anni settanta, sono pieni di dettagli che illuminano diversi aspetti fondamentali del carattere, dell’estetica e dei valori di Madonna. Cosa ascoltava da bambina? Chi o cosa sognava di diventare? Ascoltava tantissima Motown (Detroit era praticamente dietro casa) e in particolare i Jackson Five (invidiava Michael Jackson, un suo coetaneo che già ce l’aveva fatta), ma attraverso i fratelli (e i suoi zii per via materna) sentiva anche molto rock. La musica e il ballo (soprattutto il ballo) erano una valvola di sfogo per questa bambina italoamericana che passava dalla più profonda introversione a raptus di iperattività motoria e verbale.

Madonna, racconta Gabriel, è diventata Madonna nel 1972 al saggio di danza delle medie della sua scuola pubblica di Rochester. Tutta la famiglia era lì ad applaudirla (il padre Tony Ciccone con la seconda moglie e tutti i suoi fratelli e sorelle). Le luci si spengono e parte Baba O’Riley degli Who; Madonna e la sua compagna Carol Belanger compaiono in minuscoli calzoncini coperte di cuoricini e fiorellini che si erano dipinte addosso con la pittura fosforescente. “Appena si sentiva il basso”, scrive Mary Gabriel, “e Roger Daltrey si lanciava in quell’ode alla giovinezza più dissoluta, i fiori e i cuoricini si muovevano nel buio in una chiara esaltazione di sessualità adolescenziale”. Prima di lei gli altri bambini che si erano esibiti avevano ballato il tip tap o avevano suonato l’armonica: Madonna e la sua amica avevano messo su uno spettacolo basato su un pezzo rock che le faceva muovere e le eccitava. È solo il primo di una serie di spettacoli di Madonna che sarebbero stati raccontati come scandalosi, immorali, volgari ed eccessivi. Lei fu messa in punizione dal padre ma ormai era troppo tardi.

Folgorata da Ziggy Stardust
L’8 ottobre di quello stesso anno, il suo primo anno di liceo, sarebbe scappata di casa per andare a Detroit a vedere lo Ziggy Stardust tour di David Bowie con un’altra amica, un’esperienza che le avrebbe cambiato la vita e, sempre quell’inverno, sarebbe entrata con il maestro di danza nella sua prima discoteca gay, un’altra rivelazione. Madonna non stava solo capendo chi fosse come persona ma stava anche cominciando la sua trasformazione in una pop star, in una provocatrice e soprattutto in una manipolatrice dei desideri di chi la guardava. Aveva quattordici anni ma era già lei.

Il video di American life di Madonna diretto da Jonas Åkerlund, 2003 

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Nel 2003 Madonna ha 45 anni, è madre di due figli ed è sposata con il regista britannico Guy Ritchie e vive più a Londra che negli Stati Uniti . Il marito, che ama sempre meno dividere la sua vita con una popstar, la spinge a provare altre strade e il risultato è Swept away, disastroso remake di Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto di Lina Wertmüller. Sul set è evidente quanto la sua relazione con Ritchie sia malsana e quanto Madonna sia sfinita fisicamente ed emotivamente.

Dopo l’11 settembre
In quei mesi l’artista sta anche lavorando sul suo ritorno nella musica pop. Il suo precedente album di studio, Music, era stato un notevole successo ma nel frattempo c’era stato l’11 settembre e il mondo non sembrava più lo stesso di prima. Madonna comincia a chiedersi che senso possa avere essere un’artista pop in un mondo in guerra e decide che la sua ennesima trasformazione avverrà per sottrazione: levare anziché aggiungere. Per i nuovi pezzi chiama il produttore franco-afghano Mirwais Ahmadzaï con cui aveva lavorato così bene sull’album Music: il suo stile è minimale e mescola elementi acustici a un’elettronica scarna e primitiva. Le produzioni di Mirwais hanno la caratteristica di procedere a singhiozzo, in modo sghembo e imprevedibile e hanno qualcosa di ruvido e di minaccioso che sembra adattarsi bene alla Madonna inquieta e disincantata dei primi anni duemila.

Il primo pezzo su cui lavorano è su commissione: Die another day è il tema dell’omonimo film del franchise di James Bond. Madonna e Mirwais capovolgono le regole consolidate della canzone “alla James Bond” e creano una traccia di funk spigoloso e cubista che esplode dopo un’ingannevole intro di archi. Gli immancabili abbellimenti orchestrali tipici dei temi di James Bond sono usati come se fossero dei riff di tastiera in un pezzo techno. La voce di Madonna è pesantemente deformata dall’autotune, un effetto ancora relativamente poco usato nella musica pop che Mirwais modula con sottigliezza. La canzone parla di controllo, della capacità di salvarsi uscendo da sé, di abbandonare il corpo in situazioni di estremo dolore fisico o di pericolo. “Spezzerò il ciclo”, canta Madonna, “scuoterò il sistema, distruggerò il mio ego e ora chiuderò il mio corpo”. Nel video Madonna viene interrogata, picchiata e sottoposta a waterboarding in una lugubre stanza delle torture (nell’immaginario collettivo Guantánamo è fresca) e ha l’allucinazione di tirare di scherma con un suo doppio. Man mano che esce dal suo corpo e che dissolve il suo io per non cedere agli aguzzini la sua voce si distorce, sempre meno umana e più macchina. Madonna forse morirà, ma non adesso.

Madonna, Die another day, diretto da Traktor, 2003

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Nonostante il video estremamente violento e il pezzo non in linea con l’estetica musicale dei film di James Bond, Die another day è un successo che fa dimenticare anche la legnosa interpretazione di Madonna del personaggio di Verity. Alla fine l’unica cosa che salva Verity è che è l’unica Bond girl nella storia del franchise a non dimostrare alcun interesse sessuale, neanche simulato, per il protagonista.

American life, il nono album di Madonna, prende forma in modo organico: il lavoro con Mirwais è rigoroso e i due sono d’accordo sul suono che avranno le nuove canzoni. American life non sarà un album pop dance ma sarà un album decisamente più cantautoriale. Madonna ha sempre oscillato tra queste due polarità nella sua carriera, tra musica pop da ballare (la sua specialità) e canzoni più articolate e complesse che affrontino temi importanti o che facciano riflettere. Con American life, a 45 anni, si sente pronta a uscire allo scoperto come autrice di musica e di testi. Ricomincia a suonare la chitarra e riempie pagine e pagine di parole e di idee. Mirwais è forse l’unico produttore con cui ha lavorato che la incoraggia in questo senso, a volte anche mal consigliandola. Se c’è una cosa che non si può rinfacciare a Madonna è che non ci provi.

Smontare Madonna
Le nuove canzoni hanno tutte qualcosa in comune: cercano di smontare Madonna, o meglio quello che Madonna era diventata attraverso il lungo processo di costruzione di sé che era cominciato nel 1972, in quella scuola media di Rochester. Il tema di fondo della prima metà di American life è quello della decostruzione del suo personaggio pubblico. Le prime parole che Madonna pronuncia quando parte l’album è “Do I have to change my name?”, devo cambiare nome? American life è un elenco delle cose che Madonna ha ottenuto grazie ai soldi e alla fama che una per una vengono derubricate come ingannevoli, false, fuggevoli o inutili. Non è una questione di dire che i soldi non fanno la felicità: Madonna è stata povera e sa bene che i soldi fanno la felicità eccome. È più una questione di cosa facciamo e come ci trasformiamo per ottenere fama e denaro. Quali sono i meccanismi che ci muovono e quanto è responsabilità nostra? Madonna era stata la “material girl”, simbolo della cupidigia e della spietatezza degli anni ottanta, aveva cavalcato quell’immagine e quel concetto e ci è diventata ricca ma forse, e questo è il dubbio che s’insinua in American life, non era padrona di se stessa come credeva: forse obbediva a un sistema che alla fine l’avrebbe schiacciata. Madonna è sempre stata consapevole di essere un’artista ma anche un prodotto: era l’aspetto di lei che attraeva Andy Warhol quando la conobbe nella New York dei primi anni ottanta. Era consapevole dei meccanismi, del marketing, dell’industria, sapeva quello che faceva. L’unica cosa che non sapeva era perché lo facesse.

Sangue e moda
Il video del singolo American life, diretto dal regista svedese Jonas Åkerlund, si svolge in una sfilata di moda a tema militare: modelle e modelli sfilano su una passerella abbigliati da guerriglieri, seminudi e armati. Come nella sfilata di moda ecclesiastica in Roma di Fellini la scena è tutta in crescendo: i modelli sono vestiti in modo sempre più oltraggioso e sulla passerella compaiono protesi, stampelle, sangue e arti amputati. Su degli schermi compaiono esplosioni e scene di estrema violenza. Il pubblico è divertito e scioccato: Åkerlund incrocia la commedia Zoolander a un classico degli anni ottanta, il video di Two tribes dei Frankie Goes to Hollywood in cui Ronald Reagan e Konstantin Černenko si ammazzano di botte su un ring. Il tutto è estremo, grottesco e splatter, un suicidio commerciale. Il video non uscirà mai perché Madonna stessa decide di ritirarlo all’indomani dell’invasione dell’Iraq. La canzone è anche impossibile da suonare alla radio perché contiene la parola “fuck” e la sezione in cui Madonna rappa (un’idea di Mirwais forse non tra le più ispirate) viene sbeffeggiata dalla critica. La canzone oggi, pur con le sue ingenuità (il rap in cui parla del suo doppio “soy latte” e delle sue tate e cameriere in effetti è abbastanza ridicolo), suona bene e suona onesta: il suono di Mirwais è acidissimo, la chitarra acustica è usata quasi come un loop di percussioni e la voce di Madonna ha una sua urgenza quando canta: “Ho cercato di tenermi al passo, ho cercato di rimanere in cima, ho cercato di recitare la mia parte ma in qualche modo ho dimenticato perché stessi facendo tutto questo”.

Los Angeles contro New York
Hollywood mescola elementi di pop acustico e di electroclash e ancora una volta Mirwais fa un lavoro eccellente. La canzone parla, in maniera un po’ obliqua, di quanto Madonna abbia sempre odiato lo stile di vita legato alla capitale del cinema. Lei è sempre stata una creatura di New York e Los Angeles le è sempre sembrata una città di zombi, una città “for people who sleeps”, gente che dorme, come avrebbe cantato tre anni dopo in I love New York. Hollywood è una critica alla cultura della celebrità dei primi anni duemila che, è bene ricordarlo, era ancora alimentata da giornali cartacei, da certi blog (ricordate Perez Hilton?) e da network televisivi. Si era ancora all’alba della reality tv e dei social network e non esisteva ancora YouTube ma le scorribande alcoliche di Paris Hilton, Lindsay Lohan e Britney Spears erano paparazzate e scodellate al pubblico praticamente in tempo reale. “C’è qualcosa nell’aria a Hollywood”, canta Madonna “E io ho perso la mia reputazione, buona e cattiva…”.

In I’m so stupid Madonna completa la sua opera di smontaggio di sé: “Vivevo in un sogno confuso, e volevo essere come tutta la bella gente… era tutta solo avidità e non mi proteggerà adesso… vivevo in una bolla piccola piccola e volevo essere come la bella gente”. I social media erano agli inizi ma Madonna, che era una delle star più famose del mondo, denunciava un malessere che di lì a pochi anni avrebbe colpito un’intera generazione di influencer, TikToker e creatori di contenuti: la smania di esserci sempre, di apparire, di essere apprezzati, di essere famosi, di essere belli. A qualunque costo.

Nella seconda parte dell’album Madonna svela sempre di più l’intento cantautoriale del suo progetto: X-Static process è una canzone musicalmente semplicissima che però mostra un’autrice capace di raccontare con onestà un percorso di scoperta di sé. Secondo Mary Gabriel è il pezzo migliore dell’album, che mostra senza vergogna le difficoltà personali e artistiche che stava attraversando. Un altro pezzo importante di American life è Mother and father, in cui Madonna affronta la rabbia che aveva accumulato verso il padre dopo la morte della madre. Il testo è trasparente, disarmante nella sua ovvietà: “Mia madre è morta quando avevo cinque anni e non facevo che piangere… mio padre andava a lavorare e io pensavo che fosse uno stronzo e non sapevo che anche il suo cuore era a pezzi… ho giurato che non avrei mai avuto bisogno di nessun altro nella vita e ho trasformato il mio cuore in una gabbia”. “Sigmund Freud, analizzati questo…”, dice Madonna durante un breakdown di Die another day. Qui non c’è bisogno di Freud, è già tutto chiarissimo. E sono stato stupito quando ho ritrovato Mother and father nella scaletta del suo ultimo tour, che celebra quarant’anni di carriera. In una scaletta fatta solo di grandi successi è l’unico pezzo che non solo non era un singolo ma veniva da un album che lei considerava maturo e politico e che né il pubblico né la critica mostrarono di apprezzare troppo.

La longevità di un artista pop, un concetto che può sembrare contraddittorio se si ha un’idea del pop come musica volatile, è data dai suoi successi certo ma anche dai suoi insuccessi. American life è stato un fiasco che ha permesso a Madonna di espandersi, di evolversi e di durare per altri vent’anni.

Madonna
American life
Maverick/Warner Bros., 2003

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