“Vorrei essere Johnny Mathis”, scriveva il regista John Waters nel suo libro Role models, dedicato agli artisti (e non solo) che più lo avevano influenzato nella vita. “Così mainstream. Così popolare. Così privo d’ironia eppure perfetto. Ancora un ragazzo a più di settant’anni, con una voce che ancora oggi fa venire voglia a tutta l’America di pomiciare. Paradisiaca, calda. Sì, lo dico ad alta voce: meravigliosa, meravigliosa”.
Waters, il papa del trash e il papà artistico della drag queen Divine, l’uomo più lontano possibile dal mainstream, adora Johnny Mathis, l’artista simbolo degli Stati Uniti degli anni cinquanta, l’uomo che ha continuato per decenni a fare il crooner, romantico e soavemente tenorile, in una bolla di vetro, come se fuori il rock’n’roll non fosse mai esistito. Un nero talmente chiaro, sognante e inoffensivo da far dimenticare all’americano medio di essere nero. Un nero repubblicano, per di più. Amico intimo di Nancy e Ronald Reagan negli anni ottanta, gay nascosto per la maggior parte della propria vita e (solo apparentemente) impermeabile a qualunque tipo di modernità; Mathis era stato anche l’ispirazione per il vendicativo e capriccioso personaggio di Shy Baldwin nella seconda stagione della serie La fantastica signora Maisel.
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Johnny Mathis, che oggi ha 88 anni, è uno dei grandi intrattenitori della storia dello spettacolo statunitense. John Waters non esagera quando dice che ha una voce paradisiaca, calda e meravigliosa. Mathis è l’eterno fanciullo, senza razza e (quasi) senza sesso che ha stregato gli adolescenti statunitensi degli anni cinquanta con il suo sguardo da cerbiatto, il fisico atletico ed elegante (era stato campione di salto in alto e ottimo giocatore di pallacanestro) e una voce di tenore leggero, piccola ma intonatissima, morbida come il burro. Mathis è interprete squisito di un easy listening che è easy solo perché sembra facile ma in realtà nasconde artificio, disciplina e intelligenza. Sentire un vecchio disco di Johnny Mathis vuol dire sentire il suono della perfezione del pop vocale e farsi accarezzare da quell’arte ambigua e meravigliosa di cui Michael Jackson è stato forse l’ultimo grande interprete.
Si parla tanto delle regine del Natale: Mariah Carey e, più di recente, Brenda Lee che ha sorpreso tutti arrivando prima in classifica nel 2023 con Rock around the Christmas tree, un pezzo di 65 anni prima; ma se il Natale ha un re, quel re non può essere che Johnny Mathis. Frank Sinatra, Elvis Presley, Ella Fitzgerald e Louis Armstrong, lo stesso Bing Crosby, non possono essere veri re del Natale. Hanno realizzato album natalizi splendidi ma erano troppo moderni, troppo attenti a fare qualcosa di nuovo. E poi erano troppo umani. Solo Johnny Mathis, un artista che trascendeva ogni idea di razza, genere e classe sociale, poteva cantare davvero il Natale, sposarne il lato religioso e spirituale e quello edonistico e sensuale. Con quella voce, come nota giustamente John Waters, così priva di quell’ironia che è la prima nemica dello spirito natalizio.
Merry Christmas esce nel 1958 ed è il sesto album di Johnny Mathis. Lui era già era molto famoso per hit come Wonderful! Wonderful!,Chances are e la straordinaria Wild is the wind che David Bowie conobbe attraverso la versione di Nina Simone e fece sua nell’album Station to station nel 1976. Nella copertina lui compare sorridente, in tuta da sci, in un finto paesaggio innevato. È l’estetica borghese e rassicurante di Last Christmas degli Wham! ma venticinque anni prima e senza il dramma di un cuore spezzato da dare a qualcuno di più meritevole l’anno seguente.
Nel mondo di Johnny Mathis a Natale ogni infelicità e ogni malinconia vengono rimosse dal tintinnio delle campanelle a dallo scalpiccìo di scarpe frettolose per le ultime compere. Quello di Johnny Mathis è un Natale-prodotto e lui sembra uscito da un catalogo dei grandi magazzini Macy’s con la sua tuta da sci rossa e un sorriso smagliante che sembra dirci che non esiste Natale senza consumi e che soprattutto va bene così.
Il lusso degli anni cinquanta
La copertina dell’album è solo la carta che nasconde un regalo di gran classe; non è il solito gingillo bagnato nell’argento a cui siamo abituati oggi, nell’epoca dell’affordable luxury (il finto lusso per tutti), ma un vero brillante, così splendido da far andare di traverso il caffè alla Audrey Hepburn di Colazione da Tiffany. Tutto in Merry Christmas parla di una superproduzione della Columbia dei bei tempi andati. Anzitutto la ricca orchestra del canadese Percy Faith (1908-1979), maestro dell’easy listening e anello di congiunzione tra gli anni ruggenti dello swing e l’epoca d’oro del pop del dopoguerra.
Faith ha contribuito a rendere le grandi orchestre americane meno dipendenti dalle loro festose e rumorose sezioni di ottoni e sempre più inclini ad appoggiarsi su ampie parti per archi. Il pop statunitense della seconda metà degli anni cinquanta è un prodotto di lusso, una fuoriserie con gli interni in pelle, un caminetto elettrico di design che si accende con un interruttore, una cucina da sogno in cui tutto è cromato, lucido e automatizzato.
L’album si apre con la classica (tutte le canzoni di Merry Christmas sono dei classici) Winter wonderland. La canzone originale, scritta nel 1934, parla di una giovane coppia che si promette amore eterno passeggiando in un paesaggio innevato e non era propriamente una canzone di Natale. Nel 1947 fu trasformata in una canzone che parla di bambini che giocano sulla neve e Johnny Mathis ha la brillante idea di unire i due concetti.
La sua Winter wonderland è sia una canzone d’amore sia una giocosa canzone di Natale: da accorto teen idol Mathis tratta l’amore tra due persone come se fosse un giocattolo in mostra in una vetrina luccicante, tra bastoni di zucchero e turbini di neve di polistirolo. Il suo amore natalizio è bambinesco e innocente. E rigorosamente asessuato. Tra le versioni più bizzarre di Winter wonderland ne esiste una dei Cocteau Twins che ne sottolinea quell’aspetto segretamente inquietante che Johnny Mathis aveva involontariamente suggerito.
Johnny Mathis ha talmente tante frecce al suo arco che non si preoccupa di sparare The Christmas song (nota anche come Chestnuts roasting on an open fire) come secondo pezzo della prima facciata. La canzone è un totem del Natale: scritta nel 1945 da Robert Wells e Mel Tormé, fu portata al successo da Nat King Cole. Difficile pensare a un’interpretazione più perfetta di quella del “Re” ma Johnny Mathis osa sfidare l’eccellenza e accarezza la canzone con la sua voce vellutata; ancora una volta la infantilizza ma lo fa con una grazia a cui è impossibile resistere. L’orchestra sembra relegata a puro sottofondo tanto la voce di Mathis è preponderante e sembra sussurrarci nell’orecchio, anche quando si libra in alto, mai in falsetto, ma sempre in un registro perfetto che dal tenore leggero accarezza appena il contralto. La voce di Mathis è davvero un miracolo.
Desessualizzare Elvis Presley
Sleigh ride, leggerissimo standard natalizio del 1948, è un puro pezzo di bravura: Mathis qui stupisce solo con il suo fraseggio perfetto e con la sua dizione immacolata. È quasi un intermezzo per portarci alla sua versione di Blue Christmas, pezzo country del 1948 che parla di un cuore spezzato per Natale e fu reso famoso da Elvis Presley nel 1957. L’astuzia di Johnny Mathis nel riprendere un pezzo recente del re del rock’n’roll desessualizzandolo e ingentilendolo ha qualcosa di diabolico.
La sua Blue Christmas è tutt’altro che blue, è d’oro e d’argento e si scioglie come la cera delle candele in una notte profumata di vischio e di bucce di mandarino. La tristezza della canzone è trasfigurata in un quadretto da cartolina natalizia: nulla resiste al tocco magico di questo genio del Natale. Anche I’ll be home for Christmas, lettera di un soldato al fronte che promette alla famiglia di tornare a casa per le feste, viene trasformata in una favola fantastica.
Bing Crosby, suo interprete originale nel 1943, la rendeva credibile con la sua voce calda e maschile. Mathis usa un registro più basso del solito ma più che un soldato al fronte sembra un angelo che commenta qualcosa che vede dall’alto dei cieli, sopratutto nella lunga cadenza finale. Mathis sfida Bing Crosby anche nella canzone seguente, la notissima White Christmas. Il timbro più scuro con cui canta riesce a non essere mai completamente maschile o adulto: è sempre in bilico tra il mondo dei grandi e quello di un’infanzia romanzesca e sognata, come quella di Peter Pan. Michael Jackson era appena nato, proprio nell’estate di quel 1958 in cui Johnny Mathis incideva il suo primo album di Natale.
Poppizzare il Natale
Il lato B si apre con il primo canto di natale propriamente detto, O Holy night, la cui musica fu scritta nel 1847 dal compositore francese Adolphe Adam. È inutile dire che Johnny Mathis ha gioco facile nel “poppizzarla”: canta la melodia esattamente come è scritta, solo glissando sui passaggi più lunghi e sempre con un’intonazione che ha del soprannaturale. E non esagera mai, neanche nella cadenza in cui l’orchestra brevemente si ferma per lasciare spazio solo alla sua voce. Forse è proprio qui, quando canta “O night divine”, che la sua voce sembra più angelica e disincarnata.
Sono effetti facili e grondanti sentimentalismo? Sicuramente. Ma non conosco nessuno che sappia usarli con tanta parsimonia e accortezza, senza una sbavatura. In What Child is this, altro classico natalizio che riprende l’antica melodia inglese di Greensleeves, Mathis è accompagnato da un coro e anche qui la sua voce parte bassa e poi spicca il volo, insieme al coro in cui, solo alla fine, entrano le voci di soprani e contralti.
Con Silver bells, scritta nel 1950 per il film Il ratto delle zitelle (ebbene sì, era questo il titolo italiano di The lemon drop kid con Bob Hope), Johnny Mathis torna a terra, sui marciapiedi affollati di una metropoli alla viglia di Natale. Ma è solo un diversivo: è sul finale che Mathis ci aspetta al varco: se finora non abbiamo pianto, lui vuole le nostre lacrime. La sua Silent night comincia con un coro a bocca chiusa e poi parte lui, che sembra nato per cantarla, in egual misura chierichetto e primadonna. La sua voce, fin dalla prima strofa sembra galleggiare sulla melodia, come levitando. Non ci sono facili trucchi se non l’eccellenza di un interprete che i trucchi li conosce tutti ma non ce li farà mai vedere. Forse è proprio questo che mi commuove quando la sento: questa dedizione certosina all’artificio e questo mettersi completamente al servizio della melodia.
Merry Christmas di Johnny Mathis è forse l’album di Natale perfetto. Sfiora il kitsch senza mai caderci dentro, come le decorazioni di Natale di certi grandi alberghi. Nella sua lunghissima carriera Johnny Mathis ha inciso altri cinque album di Natale, alcuni dei quali di grande successo, ma nessuno sfiora la perfezione fuori dal tempo e dalle mode di Merry Christmas. Perché con la musica di Natale non si scherza.
Johnny Mathis
Merry Christmas
Columbia, 1958
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