Cento anni fa, il 31 ottobre del 1924, nasceva a Milano Enrico Baj, maestro della neoavanguardia e sensibilissimo sismografo, fino al 2003, anno della sua morte, degli aspetti più grotteschi della società dei consumi e del capitalismo. La sua città gli dedica una retrospettiva, Baj chez Baj, a cura di Chiara Gatti e Roberta Cerini Baj, nella sala delle cariatidi di palazzo Reale. A pochi metri, una coincidenza che all’artista non sarebbe sfuggita, da un’affollatissima mostra dedicata a una delle sue massime ispirazioni, Pablo Picasso.
Per Enrico Baj tornare nella sala delle cariatidi è un po’ come tornare a casa: proprio qui nel maggio 1972 avrebbe dovuto esporre una delle sue opere più spettacolari e ambiziose, I funerali dell’anarchico Pinelli. La grande tavola polimaterica è dedicata alla morte, avvenuta il 15 dicembre 1969, del partigiano e anarchico Giuseppe Pinelli precipitato dalla finestra della questura di Milano dopo 48 ore di fermo e di interrogatorio per accertamenti sulla strage di piazza Fontana. Un attentato a cui, è stato dimostrato, era estraneo. La mattina del giorno dell’inaugurazione dell’opera di Baj, il 17 maggio 1972, fu ucciso in un attentato terroristico Luigi Calabresi, commissario capo dell’ufficio politico della questura di Milano, accusato da una parte dell’opinione pubblica di aver causato la morte di Pinelli. Cominciavano gli anni di piombo e l’opera di Baj, già montata nella sala delle cariatidi, non fu più inaugurata e nessuno poté vederla fino al 2000, quando fu riallestita nella galleria milanese Giò Marconi. Solo nel 2012 fu finalmente esposta nella sala delle cariatidi e oggi ci torna come perno centrale di una ricca mostra retrospettiva.
I funerali dell’anarchico Pinelli più che le sue esequie racconta il momento della sua morte. Vediamo il corpo dell’uomo che precipita dall’alto circondato da due ali di folla: a sinistra il popolo, con una bandiera anarchica che sventola e a destra i generali (un motivo che ricorre nell’arte di Baj), con le loro medaglie al petto e armati di manganello. Il 1972 era anche l’anno dei Funerali di Togliatti di Renato Guttuso e il lavoro di Baj oggi ci sembra una risposta profondamente anarchica all’ortodossia e al neorealismo socialista del pittore siciliano.
L’opera di Baj non è però solo uno sberleffo: vederla montata in tutta la sua grandezza nella sala per cui è stata pensata è emozionante. Se Guttuso è ancora realista con il suo chiaroscuro deciso e fiduciosamente modernista nella sua creazione di un pantheon comunista raccolto intorno al feretro di Palmiro Togliatti (nel quadro compaiono ben riconoscibili Lenin, Stalin, Enrico Berlinguer, Angela Davis e Antonio Gramsci), Baj è già postmoderno e sfugge a qualunque tentazione di realismo (socialista e non), facendo quello che oggi chiameremmo una riappropriazione, o forse un mashup, di Guernica di Picasso. La grande tela picassiana fu dipinta nel 1937 per denunciare il bombardamento da parte delle truppe fasciste di Francisco Franco (insieme agli alleati tedeschi e italiani) della cittadina basca di Guernica, ancora fedele alla repubblica: fu una delle pagine più sanguinose della guerra civile spagnola. Nel 1953 Guernica fu esposta a Milano, proprio nella sala delle cariatidi di palazzo Reale, per volontà di Picasso, che vedeva nel grande salone che portava ancora i segni dei bombardamenti la sua sede ideale. Per gli artisti milanesi e italiani fu la rivelazione di un’arte moderna che poteva essere fortemente politica senza per forza risultare didascalica o declamatoria. Guernica era la nuova pittura di storia.
Quando Baj decide di affrontare il tema della morte dell’anarchico Pinelli sa che a modo suo sta facendo pittura di storia e sa che dovrà per forza tenere conto di Guernica e decide quindi di usare Picasso come un canovaccio da cui partire. Le figure dei Funerali dell’anarchico Pinelli sono citazioni dirette delle figure picassiane, ma sono trasformate in sculture bidimensionali, in sagome di legno dipinto sistemate nello spazio come in un grande presepe anarchico. Le lacrime, che in Picasso sono disegnate, qui sono frammenti di vetro applicati sul legno, ci sono anche pezzi di stoffa, passamanerie, nappe, rafia e coccarde. Il livello della strada, quello su cui sta per schiantarsi il corpo di Pinelli, è coperto da una foresta di scampoli di merceria e di rifiuti.
Ci sono tre livelli nell’opera di Baj: il cielo, rappresentato da una lampadina presa di peso da Guernica, nel posto in cui nei polittici quattrocenteschi di solito è posizionata la colomba dello spirito santo, la terra con la folla che si apre e si divide (anche politicamente) davanti alla caduta di questo anarchico Lucifero e il nulla della società dei consumi che tutto inghiotte e restituisce sotto forma di scarto e rifiuto. Pinelli è un angelo caduto che sta per schiantarsi su una discarica.
Guardando I funerali dell’anarchico Pinelli non si può non pensare a un’altra tela che Picasso conosceva bene e che aveva citato più volte nel suo lavoro: La sepoltura del conte di Orgaz del Greco (1586) in cui è evidente la separazione in tre piani distinti: il cielo a cui sale l’anima del condottiero spagnolo, la società dei dignitari che lo stanno seppellendo e la terra nera e muta che ne accoglie il corpo. Enrico Baj ne fa quasi una caricatura atea: quello che nel Greco è un cielo mistico, uno squarcio di luce popolato di angeli e figure sacre, in Baj è una misera lampadina nuda che pende da un filo e abbaglia una folla inebetita che cerca di afferrarla, i nobili in gorgiera di pizzo e abiti di velluto del Greco qui sono una folla polarizzata e atterrita che assiste al martirio di un partigiano e la terra è disseminata di scarti della società dei consumi.
I funerali dell’anarchico Pinelli di Baj riesce a essere pittura di storia e racconto condiviso, come certe viae crucis lombarde, in cui si mescolano scultura sacra e sensibilità popolare: è il precipitato artistico di una Milano bene inserita nelle neoavanguardie internazionali, ma anche attenta alla condivisione di istanze politiche e sociali; volendo è un’altra faccia del lavoro che Dario Fo e Franca Rame stavano facendo con la lingua e con il teatro in quegli anni.
La grande tavola dedicata all’anarchico Pinelli è il pezzo centrale di una mostra che gli si snoda tutto intorno e che segue l’evoluzione della poetica e della pratica artistica di Baj: si va dai primi ultracorpi dell’inizio degli anni cinquanta, creature gelatinose e appena abbozzate a metà tra l’art brut di Dubuffet e la pittura gestuale, fino alle macchine più o meno umanoidi realizzate con il meccano degli anni sessanta. Ci sono i generali, evoluzione tronfia e pettoruta degli ultracorpi, che non possono non aver ispirato i cattivi del film d’animazione Yellow submarine dei Beatles (1968), e le controparti femminili, le dame, con le loro bocche ottenute da vecchie prese elettriche e tutte infiocchettate con merletti, bottoni e nappe: caricature di una borghesia grassa, corrotta e fascistoide.
Baj chez Baj ci restituisce il mondo immaginifico di un artista che, nonostante la sua eccentricità, era al centro della ricerca artistica internazionale del dopoguerra: nel 1952 a Bruxelles, in Belgio, stilò il Manifesto della pittura nucleare, lavorò con Piero Manzoni e Yves Klein, conobbe e frequentò Jean Dubuffet, Marcel Duchamp, Max Ernst e André Breton. Baj ha creato una serie di figure, di totem e di maschere che ci parlano ancora, anzi forse ci parlano più che mai oggi, in tempi in cui l’immaginazione potrebbe essere l’unico mezzo per uscire dall’immobilità in cui siamo impantanati.
Baj chez Baj è allestita nelle sale di palazzo Reale, a Milano. Ed è aperta fino al 9 febbraio 2025. Il catalogo è edito da Electa.
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