Elemental, l’ultimo film della Pixar, è talmente noioso e insignificante da far pensare che la società di animazione, un tempo sulla cresta dell’onda, abbia toccato un nuovo punto basso nella sua parabola. È un risultato ancor più impressionante se consideriamo che la Pixar era già da tempo lontana dai suoi giorni di gloria, dopo aver rincorso per anni la Disney in un vortice di spese folli e aver rovinato la propria reputazione con una serie di sequel scadenti, una cinica ossessione per il merchandising e una mentalità votata unicamente al profitto.
Personalmente non sono mai stata un’ammiratrice dello stile Pixar – troppa nostalgia “disneyficata” e ideologicamente compromessa, troppa brodaglia sentimentale a soffocare il lavoro di animatori di talento – ma non posso certo negare le qualità di Toy story (1995), The incredibles (2004) Ratatouille (2007) e Coco (2017).
Invece Elemental, diretto da Peter Sohn (The good dinosaur), è scandalosamente banale. Guardandolo si ha l’impressione che Sohn abbia basato l’intero film sulla propria esperienza di figlio di immigrati coreani che gestivano un negozio nel Bronx negli anni settanta. Ma anche considerando questa lettura, è impossibile non accorgersi che la narrazione di Elemental non è altro che l’ennesima variazione sul tema di Inside out (2015), film della Pixar in cui le emozioni basilari dell’essere umano – Gioia, Tristezza, Paura, Disgusto e Rabbia – erano presentate sotto forma di personaggi. In Inside out i protagonisti gestiscono attraverso console tecnologiche la vita emotiva di una ragazzina all’interno del complesso sistema sociale della sua esistenza.
Nella versione riproposta da Elemental, gli elementi naturali – Fuoco, Acqua, Terra e Aria – sono antropomorfizzati e vivono in armonia a Element City. Gli esseri del Fuoco sono i nuovi immigrati e non sono pienamente accettati in società, specialmente dalla ricca classe dell’Acqua.
Non poteva certo mancare la storia d’amore inter-classista tra la coraggiosa Ember Lumen (Leah Lewis) e il lugubre Wade Ripple (Mamoudou Athie). Il grande problema di Ember è il padre Bernie (Ronnie del Carmen), che con grande fatica si è fatto strada dopo aver lasciato il suo surriscaldato paese d’origine e aver aperto un negozio nel difficile quartiere operaio di Element City. Il sogno di Bernie è che Ember prenda il suo posto al negozio, ma nonostante tutti gli sforzi della ragazza non sembra mai soddisfatto.
Ember ha l’abitudine di scatenare inavvertitamente il caos quando la rabbia la travolge, appiccando involontari incendi. A un certo punto scopriamo che gli sfoghi di Ember sono dovuti al fatto che la vita da commerciante non fa per lei. Il suo destino è creare opere d’arte di vetro, incanalando il suo potere di concentrare il calore. Saranno Wade e la sua ricca famiglia della classe Acqua, grazie ai loro contatti ad alti livelli, a regalarle l’occasione di svolgere un tirocinio presso un raffinato vetraio.
La narrazione normalizza il lavoro come fulcro di ogni esperienza di vita, come se fosse l’unica occupazione di tutti gli esseri viventi.
In Elemental la generale mancanza di fantasia rende goffi e didattici questi pesanti temi ideologici. I personaggi sono meno coinvolgenti rispetto ad altri film della Pixar, e gli effetti speciali emozionanti sono del tutto assenti. La sceneggiatura non è particolarmente divertente né commovente, e lo spettatore non può fare a meno di notare quanto la trama sia inadeguata per un film animato. Cosa c’entrano Fuoco, Acqua, Terra e Aria con l’ennesima storia di duro lavoro e avanzamento professionale?
I film della Pixar raccontano spesso la vita dei personaggi in sistemi sociali complessi simili alle comunità umane (soprattutto a quelle urbane), dunque è probabile che i responsabili della trama abbiano virato automaticamente verso questo genere di storia. Il problema è che la narrazione non solo è estenuantemente intricata, ma normalizza per l’ennesima volta il lavoro come fulcro di ogni esperienza di vita, come se fosse l’unica occupazione di tutti gli esseri viventi.
Questa tendenza è cominciata nel 1995 con Toy story, in cui l’impegno dei giocattoli per fare felici i bambini umani si traduceva in riunioni di stampo aziendale gestite da dirigenti stressati, con tanto di cartellette per gli appunti e lavate di capo dei dipendenti incapaci di raggiungere i risultati richiesti. In Monsters and co. tutti i mostri lavoravano in una fabbrica nel tentativo di raggiungere il massimo dell’efficacia come “spaventatori” terrorizzando i bambini la notte, perché le loro urla alimentavano la città di Monstropolis.
Amo Ratatouille, diretto da Brad Bird (è il film della Pixar che preferisco), ma devo ammettere che anche in quel caso si parla solo di lavoro e risultati professionali. In Ratatouille non basta che Remy il ratto (Patton Oswalt) superi i forti pregiudizi cercando di diventare uno chef a Parigi: deve per forza diventare uno dei migliori, possedere un ristorante e costruirsi una grande fama. I personaggi umani, Alfredo Linguini (Lou Romano) e Colette Tatou (Janeane Garofalo), devono necessariamente trovare un’occupazione adeguata ai loro talenti. Alfredo non sa cucinare, quindi diventa cameriere nel nuovo ristorante di Rey, mentre Colette è assunta come sous-chef.
Il critico culinario Anton Ego (Peter O’Toole) è ritratto come “cattivo” perché i critici non lavorano, si limitano a giudicare il lavoro degli altri, e si redime solo quando viene conquistato dalla brillante fantasia culinaria di Remy e decide di impegnarsi al massimo per assecondarne il talento. Così Anton investe nel nuovo ristorante di Remy, sia come opportunità imprenditoriale sia come riconoscimento del meritevole lavoro svolto ai livelli più alti.
Propaganda Pixar? In effetti una trama di questo tipo è degna della scrittrice fanatica di destra Ayn Rand.
Naturalmente la Pixar ha ereditato l’ossessione per il lavoro dalla Disney. Nei film della Disney, impregnati dell’etica del lavoro protestante di zio Walt, nemico giurato dei sindacati e dei suoi dipendenti, non lavorare fino allo stremo è moralmente deplorevole, anche nei casi in cui i personaggi vivono in paradisi dove il clima è perfetto, il cibo cade dagli alberi e non c’è alcun motivo valido per lavorare. C’è un legame evidente tra Lo stretto indispensabile nel Libro della giungla (1967) e Hakuna Matata nel Re Leone (1994). In entrambi i casi il giovane protagonista è temporaneamente conquistato dalla pigrizia del compagno di turno deciso ad allontanarlo dalle proprie responsabilità, che di solito consistono in attività sfiancanti e rischiosissime.
Se pensate che l’approccio Disney/Pixar sia l’unico possibile per un film d’animazione, pensate agli irresistibili cartoni di Bugs Bunny che venivano trasmessi nelle sale prima dei film tra gli anni trenta e cinquanta. Ricordate come cominciavano? Con il coniglio che si rilassava nella sua tana sgranocchiando una carota o passeggiava nel verde cantando una canzone, prima che il cacciatore Elmer Fudd o qualche altro malfattore arrivasse a disturbalo o a minacciarlo. A quel punto Bugs combatteva per difendere la libertà di starsene senza fare niente e godersi la natura.
La vita non è soltanto lavoro. Peccato che qualcuno si sia dimenticato di dirlo ai creatori di Pixar.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Questo articolo è stato pubblicato dalla rivista statunitense Jacobin.
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