Oggi il mondo arabo è alle prese con le rivalità tra i paesi del golfo, le loro trame di palazzo, i rimescolamenti politici e il tentativo di sottrarsi all’influenza degli Stati Uniti e delle altre potenze regionali e internazionali. Il petrolio, inoltre, sembra l’unica questione di rilievo per questa fetta di mondo, quando in realtà nasconde feroci lotte di potere e serve a rimuovere le reali tragedie che tuttora devastano il Medio Oriente.

Al vertice di Riyadh tra gli Stati Uniti e alcuni paesi arabi e musulmani la questione palestinese non è stata nemmeno sfiorata. E se la Palestina è assente significa che è presente Israele, cioè la causa concreta dell’assenza della Palestina.

Posso capire che di fronte alle terribili tragedie vissute dalla Siria, dallo Yemen e dall’Iraq molti arabi non pensino più alla Palestina come a una priorità, ma trovo ingiustificabile che la nostra più grande causa sia diventata un pretesto per sostenere l’economia americana comprando armi per centinaia di milioni di dollari, proprio mentre nello Yemen i bambini muoiono di colera e la Siria è stata trasformata in una distesa di rovine.

Una questione tristemente superata
Certo, se osiamo chiedere dove si colloca la Palestina in questi nuovi equilibri ci rinfacciano di difendere vecchie idee e sostengono che oggi la questione è superata.

Anche se a malincuore, devo ammettere che è così. Smettere di parlarne, tuttavia, non vuol dire fare spazio a questioni più urgenti per il mondo arabo (come la Siria, l’Iraq o il bisogno di democrazia) che rimangono ugualmente in secondo piano. Questo perché il fatto stesso di non citare la Palestina (come è successo al vertice di Riyadh) è parte integrante di una politica interessata soltanto a giochi di potere (tra dinastie oppure con altre potenze come l’Iran) che non riguardano i reali problemi dei cittadini arabi.

Non metto in dubbio la gravità di quello che sta succedendo nel golfo, le rivalità interne alle monarchie del petrolio non sono una messa in scena, ma voglio capire qual è il nodo del discorso.

Forse l’assenza della Palestina nasconde quella dei popoli del Medio Oriente e la loro esclusione dalla politica

Ritorno allora all’assenza della Palestina, e non lo faccio per ragioni ideologiche o per nostalgia di un’epoca passata. Piuttosto mi interessa sapere cosa c’è sotto la cessione dell’Egitto all’Arabia Saudita delle isole di Tiran e Sanafir o com’è possibile che Mohammad Dahlan (ex militante e leader di Fatah) sia riapparso sulla scena politica palestinese come nuovo amico di Hamas proprio mentre la città di Jenin ha deciso di avviare una serie di tagli ai sussidi per le famiglie dei palestinesi caduti durante la lotta armata e dei prigionieri, in quanto considerati terroristi. Vorrei anche chiarire i motivi della nuova posizione francese su Bashar al Assad e le sue conseguenze sul conflitto che coinvolge la Siria e l’intera regione.

Forse dietro l’assenza della Palestina si cela quella dei popoli del Medio Oriente e la loro esclusione dalla politica in un’epoca in cui i loro paesi sono trasformati in un campo di battaglia tra forze regionali e internazionali. La Palestina è l’ultimo emblema del mondo arabo, dove i cittadini sono rimasti senza riferimenti dopo il fallimento delle rivolte contro le dittature. Gli arabi si devono dunque rassegnare? Devono accettare l’idea che i loro sacrifici siano privi di senso?

Una rilettura approfondita
Andando controcorrente, penso che il crollo totale del mondo arabo non avverrà per colpa di queste rivolte, che hanno scosso la realtà politica dalle fondamenta, ma proprio a causa del loro insuccesso. Le rivoluzioni arabe sono state il primo serio tentativo di uscire dall’impasse della dittatura, ma la catastrofe è cominciata quando il movimento popolare che ha travolto le piazze non è riuscito a rendere concreto un orizzonte alternativo.

La tragedia risiede in questo fallimento, che chiede una rilettura profonda. Con l’insuccesso delle rivolte, infatti, il mondo arabo ha perso voce in capitolo e si è trasformato in un campo per i giochi delle potenze straniere.

Ho detto che resta l’emblema della Palestina, ma mi sbaglio. La Palestina resiste in linea di principio, ma di fatto è stata spazzata via dalle lotte di potere e soffocata dall’illusione della pace. Tutto ciò permette alla leadership palestinese di agire senza controllo politico o etico. Questa leadership ha cancellato la resistenza all’occupazione, non difende il diritto a restare e ha decretato la fine dell’autonomia decisionale della nazione palestinese, in base alla quale il movimento nazionale palestinese aveva potuto ricostruire sé stesso.

Non so come si possa dire che ci sia spazio per la discussione politica al tempo della morte della politica. La quale, è vero, non muore mai, cambia solo forma, elimina e sostituisce le sue pedine. La beffa avviene quando la maggioranza dei cittadini e degli intellettuali si ritrova fuori gioco, perché non sono più una parte attiva ma sono diventati il terreno stesso del conflitto. Quando muore la politica il discorso politico ha bisogno urgente di rinnovarsi e definire nuovi orizzonti.

Il mondo arabo sta per voltare l’ultima pagina di un’epoca cominciata con la guerra dei sei giorni

In questo senso, le politiche dei paesi arabi sono morte. Ciò che resta sono le cospirazioni di palazzo e le condizioni dettate dalle potenze regionali e internazionali.

Preoccupati dal presente non riusciamo a focalizzare il problema principale: ci troviamo in una fase terminale. Il mondo arabo sta per voltare l’ultima pagina di un’epoca cominciata con la sconfitta del 5 giugno 1967 e proseguita con la guerra del Kippur nell’ottobre 1973, l’imporsi dell’egemonia del petrolio e l’emergere di piccoli dittatori che hanno cercato di imitare Nasser. Un’epoca in cui sono scoppiate le prime guerre civili e in cui la resistenza palestinese è diventata portavoce della volontà di restare e della tenacia araba contro le dittature.

Questa fase si è chiusa portando via i suoi leader e chi vi si è opposto. Oggi, mentre viene consegnata alla storia, non assistiamo ad altro che a un rimescolamento delle carte e il rumore che ci circonda è il suono stridente della sua lunga e dolorosa agonia.

Quando una fase si conclude ogni discorso sull’impegno politico diretto è privo di senso. Dobbiamo riformulare i significati e disegnare un nuovo orizzonte partendo dai margini che ci sono rimasti al fine di creare una cultura radicale che scaturisca dall’esperienza del dolore e della perdita. È questo oggi il compito della letteratura e della cultura.

E dall’impegno in prima persona sembrano trapelare le condizioni necessarie per la nascita di un nuovo impianto politico. È ciò che ci ha insegnato Basel al Araj quando ha affrontato da solo la morte, e ci ha ricordato che possiamo far rinascere la nostra lingua e la nostra cultura a patto di essere pronti a pagarne il prezzo.

(Traduzione di Giacomo Longhi)

Questo articolo è stato pubblicato su Al Quds al Arabi.

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