Questo è un articolo sulla pubblicità in rete. In particolare sulle inserzioni di Facebook. Il social network è un servizio gratuito che gode di immensa popolarità e che si sostiene solo con le inserzioni pubblicitarie, anche se molti utenti non lo amano e non vorrebbero trovarsi al centro delle sue strategie di marketing.
Ogni volta che scrivo di pubblicità sul web, e in particolare di quella sul social network di Mark Zuckerberg, i lettori mi dicono: “Non so come faccia Facebook a guadagnare: io non clicco mai sui banner pubblicitari”. Su che cosa si basano le speranze di Facebook, se quasi nessuna delle persone che conoscete clicca mai sugli annunci?
La risposta è scontata: i clic non contano. I pubblicitari lo sanno bene. E chi usa Facebook, e perfino i professionisti del web, non sempre lo ammettono. Anche se siete scettici nei confronti del marketing, o non ve ne accorgete, i banner su Facebook funzionano. I messaggi sponsorizzati che compaiono sul feed modificano il vostro comportamento: convincono sia voi sia i vostri amici a comprare alcuni prodotti invece di altri, e questo succede anche se voi non ci cliccate sopra. Non sono congetture: sono dati scientifici, basati su un gran numero di studi di Facebook.
I clic non contano. Le ricerche dimostrano che gli annunci pubblicitari sul social network influenzano gli acquisti, e che i clic non contano. Questi studi raccontano anche la strategia a lungo termine dell’azienda di Mark Zuckerberg. Il mondo della tecnologia è ossessionato dalla guerra tra Facebook e Google, due aziende immense in costante conflitto per conquistare utenti, tecnici e inserzionisti.
Ma gli studi di Facebook dimostrano che il successo di Zuckerberg nella pubblicità non deve per forza danneggiare Google, anzi. Ai banner di Facebook il pubblico reagisce come agli spot in tv. Se in futuro decolleranno, a farne le spese potrebbe essere soprattutto il piccolo schermo. L’anno scorso il social network ha stretto un accordo con la Datalogix, un’azienda che registra le abitudini di consumo di più di cento milioni di famiglie negli Stati Uniti.
Quando andate al supermercato, è molto probabile che consegniate alla cassa una carta fedeltà per ottenere uno sconto sulla spesa. Quando uscite dal negozio, i dati sui vostri acquisti vengono inviati a un server gestito dalla Datalogix. Negli ultimi mesi Facebook e la Datalogix hanno trovato un modo per confrontare i rispettivi dati senza violare la privacy di nessuno: cancellano dai database le informazioni personali e le sostituiscono con dei codici cifrati.
Basta un codice. Il social network può collegare i suoi utenti – identificati solo da un codice – alle cose che comprano nei supermercati. Con queste informazioni, l’azienda ha svolto analisi sugli effetti delle campagne pubblicitarie lanciate sul suo sito. Se per esempio la Procter & Gamble pubblicava un’inserzione su Facebook per il detersivo Tide, Facebook poteva consultare i dati della Datalogix per capire se le persone che avevano visto il banner tendevano a comprare il Tide più spesso che nelle settimane precedenti.
Lo studio dimostra che i banner funzionano. “Delle prime sessanta campagne che abbiamo esaminato, il 70 per cento aveva un ritorno sugli investimenti triplo o anche migliore. Questo significa che il 70 per cento degli inserzionisti ha raggiunto delle vendite tre volte superiori a quello che avevano speso per la pubblicità”, dice Sean Bruich, che si occupa degli standard per i formati pubblicitari di Facebook. Inoltre, metà delle campagne ha raggiunto un ottimo ritorno sugli investimenti: gli inserzionisti hanno incassato cinque volte di più di quanto non avevano investito nella pubblicità sul sito.
Il risultato più interessante è stata l’assoluta mancanza di correlazione tra acquisti e clic. “In media, se si considerano le persone che hanno visto una pubblicità su Facebook e poi hanno acquistato un prodotto, meno dell’1 per cento aveva cliccato sull’inserzione”, spiega Bruich. I clic hanno poca importanza.
Far nascere la domanda. Questo non dovrebbe stupire: quasi tutta la pubblicità funziona così. In genere i messaggi del marketing sono di due tipi: a risposta diretta e di generazione della domanda. La pubblicità diretta dice all’utente: “clicca per visitare questo sito”, oppure “ordina qualcosa da questo catalogo”.
Gli AdWords di Google, i piccoli annunci che compaiono accanto ai risultati di ricerca, sono una forma di messaggio diretto. AdWords permette una misurazione eccellente: gli inserzionisti pagano Google per ogni clic.
È un metodo estremamente efficiente, dato che le inserzioni appaiono quando si sta cercando qualcosa da comprare. E ha fatto di Google l’impresa pubblicitaria più redditizia della storia dell’umanità. Gran parte del mondo della pubblicità però si basa sulla generazione della domanda. Invece che stimolare un’azione immediata, queste inserzioni cercano di instillare un’idea, di presentare un prodotto, di far ricordare un nome, di migliorare l’opinione del pubblico su una certa azienda.
Tranne le televendite, la pubblicità che vedete in tv consiste quasi solo di spot per la generazione della domanda. Questo vale per gli annunci sulle riviste cartacee, alla radio, alle fermate degli autobus e sui cartelloni pubblicitari e per quasi tutti i banner sui siti. I messaggi di generazione della domanda coprono più dell’80 per cento della spesa pubblicitaria.
Da vari anni Facebook si propone come luogo ideale per questa attività, chiamata anche brand advertising. Non solo perché nella promozione dei marchi si investe molto denaro, ma anche perché il social network non è adatto ai messaggi a risposta diretta.
Chi va su Facebook non lo fa con la voglia di comprare qualcosa: l’obiettivo è trovarsi con gli amici, non fare acquisti. Come nessuno si siede davanti a un televisore per trovare nuove cose da comprare. Questo ricorda la nostra fruizione della televisione da un altro punto di vista: per il tempo che gli dedichiamo. Gli utenti trascorrono circa sette ore al mese su Facebook, più che su qualunque altro sito web.
Un sistema più efficace. Le pubblicità di generazione della domanda si sono dimostrate difficili da vendere. Le inserzioni online, infatti, si fondano sulle misurazioni, sulla capacità degli inserzionisti di calcolare la reazione degli utenti. Ai suoi esordi anche la televisione aveva un problema di misurazione. Poi negli anni settanta e ottanta i pubblicitari e gli istituti di analisi di mercato, come la Nielsen, hanno escogitato diversi modi di analizzare le pubblicità in televisione.
Oggi la tecnica chiamata mix modeling permette di misurare con esattezza i profitti che arrivano dagli spot trasmessi in tv. Ora Facebook sta tentando di introdurre nel web gli stessi calcoli. “Vogliamo istituire standard di qualità sulle modalità di pubblicazione delle inserzioni online”, afferma Brad Smallwood, il vicepresidente di Facebook responsabile delle misurazioni e delle analisi. Al centro di questo progetto si colloca la collaborazione con la Datalogix.
Con questo metodo è possibile confrontare le informazioni di Facebook con quelle della distribuzione, rispettando al tempo stesso la privacy degli utenti. In questo modo ogni volta che sul social network di Zuckerberg viene lanciata una campagna pubblicitaria, l’azienda può osservare in che modo gli acquisti dei consumatori sono influenzati dai banner. Un aspetto particolarmente importante è che la Datalogix fornisce a Facebook gruppi di dati molto numerosi, caratterizzati da una potenza statistica sufficiente a trarre conclusioni sostanziali sulla reazione degli utenti alle inserzioni.
“Se una campagna pubblicitaria viene proposta a quaranta milioni di persone, una porzione consistente di questi utenti produce dati che si possono analizzare”, spiega Bruich. “Così si può rispondere tanto per cominciare a domande come: ‘Quante volte gli utenti dovrebbero vedere un banner?’”. Oppure: ‘C’è una differenza tra chi compra molto questo prodotto e chi lo compra poco?’”.
Il punto giusto. Facebook ha già cominciato a migliorare l’efficacia degli annunci pubblicati sul suo sito. Per particolari marche e prodotti esiste un “punto giusto”, il numero di volte in cui un’inserzione deve apparire nel feed di un utente prima che il messaggio perda di efficacia. Cercando di raggiungere quel punto, Facebook ha aumentato del 40 per cento il ritorno sugli investimenti di alcune campagne pubblicitarie.
Questo è un bene sia per Facebook sia per i pubblicitari. Ma neanche per gli utenti si tratta di una brutta notizia. Anzi, potrebbero esserci anche delle notizie positive. Se le ricerche di Facebook dimostrano che le aziende stanno sprecando soldi nel far vedere a certe persone lo stesso annuncio troppe volte, in futuro quei banner si vedranno di meno. E se con voi la pubblicità davvero non funziona, è teoricamente possibile che il sistema di Facebook se ne renda conto e che sul sito non vediate più nessuna inserzione. Ma questo è improbabile.
Magari le pubblicità che vedete non vi piaceranno, e comunque non ci cliccherete sopra. Ma, a vostra insaputa, la pubblicità di Facebook fa presa anche su di voi. Ogni resistenza è inutile.
(Traduzione di Floriana Pagano)
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