Ricorderete le [immagini][1], a gennaio hanno fatto il giro del mondo: decine di migliaia di migranti africani - la maggioranza di quelli presenti sul territorio israeliano - radunati a piazza Rabin, a Tel Aviv, per protestare contro la (non) politica di asilo di Israele. In quei giorni di mobilitazione febbrile i leader del movimento si riunivano ogni sera, a volte fino a notte fonda, per decidere le mosse del giorno seguente. Le riunioni si svolgevano a porte chiuse, e solo cinque persone esterne erano ammesse. Tra loro c’era Elodie.

Proteste davanti a un’ambasciata straniera a Tel Aviv, gennaio 2014. Le foto di questo articolo sono di Elodie Francart, tranne l’ultima.

Elodie era arrivata a settembre per fare uno stage da Amnesty. “Fin dall’inizio ho avuto difficoltà a seguire la loro politica, che imponeva un certo distacco, persino una certa diffidenza, verso i rifugiati. Secondo loro non dovevo andare da sola a incontrare un leader perché poteva essere pericoloso… E dovevo dare lezione di diritti umani ai rifugiati, il colmo del paternalismo. Ho cominciato ad andare a trovare i leader senza avvertire Amnesty. Non approvavano il mio comportamento, ma al tempo stesso si rendevano conto che gli faceva comodo, perché ero l’unica ad aver stabilito un rapporto di fiducia con i leader. Ho interrotto lo stage dopo tre mesi, ma siamo rimasti in contatto”.

Cominciata tra il 2006 e il 2007, l’immigrazione “irregolare” dai paesi dell’Africa subsahariana, in particolare dal Sudan e dall’Eritrea, è rimasta a lungo sospesa in un vuoto giuridico. Fino al 2012, quando la legge anti-infiltrazione, nata in chiave anti-palestinese, è stata estesa a chiunque entrasse illegalmente in territorio israeliano. In base al terzo emendamento, gli infiltrators - compresi i richiedenti asilo – potevano essere puniti con tre anni di detenzione. Nel settembre del 2013 l’Alta corte d’Israele ha bocciato l’emendamento, prontamente sostituto a dicembre dello stesso anno: ora chi viene beccato senza documenti finisce nel centro “aperto” di Holot, nel deserto del Negev, a tre ore e mezza da Tel Aviv, un enorme campo dove in questo momento si trovano 2.300 uomini. Chi vuole può restarci a vita. L’unico modo per uscirne è accettando di salire su un aereo. E chi è fermato alle frontiere o non si presenta al centro aperto dopo aver ricevuto la convocazione è spedito in un centro di detenzione comodamente situato accanto a Holot. Alcuni accademici e avvocati hanno presentato all’Alta corte una [petizione][2] contro il quarto emendamento. I giudici non si sono ancora pronunciati.

Ma torniamo a quel mese di dicembre. L’approvazione del nuovo emendamento ha scatenato le prime proteste nelle comunità di eritrei (circa 35.000 persone) e sudanesi (15.000). “Queste comunità erano organizzate, già da qualche anno, intorno a dei centri culturali nati con il sostegno di alcune ong e associazioni locali”, spiega Elodie. “Per esempio il [Fur Center][3], dove si svolgevano corsi di inglese, feste tradizionali e compleanni, o il [Darfur Friends Association][4], dove si davano anche lezioni di ebraico e di relazioni internazionali”. La cinquanta persone che coordinavano questi centri sono diventate naturalmente i leader delle proteste. “All’inizio le riunioni erano aperte”, ricorda Elodie. “C’erano una decina di esterni, degli attivisti israeliani, una ragazza di Amnesty. Le giornate erano molto intense. Ci si incontrava alle sette di mattina al parco, si preparava l’azione del giorno, gli striscioni e via dicendo, poi c’era l’assemblea popolare, poi aiutavamo le persone a presentare le richieste di asilo. La sera c’era la riunione dei leader, che poteva andare avanti anche tutta la notte. Inizialmente prendevano le decisioni senza votare. L’idea del voto è stata introdotta dalla ragazza di Amnesty per velocizzare le riunioni. La cosa ha creato delle tensioni e molti degli esterni si sono ritirati in segno di protesta. Siamo rimasti in cinque e da quel momento in poi le riunioni si sono svolte a porte chiuse. Ma ormai il movimento stava morendo”.

Tre ragazzi a Holot, gennaio 2014. A sinistra Mohamed, un amico di Elodie. Ha 23 anni, i suoi amici 22. In Israele hanno conosciuto solo la detenzione: sono tra le persone trasferite direttamente dal centro di detenzione a Holot.

Tutto è successo molto in fretta: a dicembre c’è stata una prima marcia di protesta fino a Gerusalemme, all’inizio di gennaio è stato lanciato lo sciopero generale. “Molti rifugiati lavorano nelle cucine dei ristoranti o fanno le pulizie negli alberghi. Sono sottopagati e vivono in condizioni terribili. Ma nella zona sud di Tel Aviv, vicino alla stazione di autobus principale, sono riusciti a ricreare un angolo di Sudan e di Eritrea. Ci sono molti negozi, ristoranti, in particolare lungo Neve Shaanan street, una zona che gli israeliani non frequentano. Bisogna tenere gli occhi aperti, è vero, ma non è pericolosa come si dice”.

Il movimento si è spento con la stessa rapidità con cui era nato: attaccati dall’opinione pubblica, convocati nel centro aperto, sempre più leader hanno lasciato Tel Aviv per andare a Holot. “Non hanno scelta”, osserva Elodie. “E la cosa peggiore è che il sistema funziona: da gennaio hanno accettato di partire tra le 2.500 e le 3.000 persone. Ragazzi come Sadiq al Sadiq, un leader della comunità sudanese, che un mese fa aveva accettato di andare in Uganda, in base a un accordo stretto tra i due paesi: l’Uganda si prende i rifugiati in cambio di armi e addestramenti militari”. Durante lo scalo ad Addis Abeba, Al Sadiq ha scoperto che la sua destinazione finale era il Sudan. Si è opposto, ha contattato i compagni a Tel Aviv, che hanno organizzato delle proteste. Dopo aver dormito una settimana in aeroporto, è stato rimandato in Israele, dove ora è di nuovo detenuto. “E poi c’è Juma, un altro leader, un mio amico, che è stato in carcere in Sudan. Si è presentato al centro aperto due mesi dopo la convocazione. Lo hanno spedito in centro di detenzione. È una persona fragile e ha ceduto subito, accettando di andare in Uganda la settimana scorsa. Con lui siamo ancora in contatto, perché era un leader, aveva molti amici. Ma tanti vengono mandati via e di loro si perdono le tracce”.

Manifestazione di sostegno a Sadiq al Sadiq, Tel Aviv, 6 maggio 2014.

Anche se la comunità eritrea è più numerosa, a Holot ci sono soprattutto sudanesi, “perché è più facile che accettino di partire”. Le autorità israeliane sanno che ai cittadini eritrei è vietato lasciare il loro paese e sottrarsi al servizio nazionale imposto dal regime del presidente Issaias Afeworki. “In pochi accettano di lasciare Israele, hanno troppa paura”. Nelle settimane scorse nel centro di Holot ci sono state alcune rivolte contro il sovraffollamento e la scarsità di cibo. Il 14 giugno i leader che ora si trovano lì hanno rilanciato ufficialmente un movimento di protesta. Non firmeranno più la presenza tre volte al giorno né andranno a lavorare (vengono pagati una miseria per svolgere delle mansioni nel campo). Uno dei leader, Ali Mutasim, sta raccontando la protesta su [Facebook][5].

“Alcuni attivisti israeliani hanno lanciato una raccolta fondi per organizzare ogni sabato un viaggio in autobus fino a Holot”, racconta Elodie. “Portano cibo, dentifricio, sapone, sigarette. Ci sono concerti davanti al centro, feste tradizionali, sacerdoti eritrei che celebrano la messa. Ma come puoi immaginare, dopo il sequestro dei tre adolescenti israeliani, l’attenzione dell’opinione pubblica è rivolta altrove”. A quanto pare le autorità vorrebbero convertire in centro aperto il centro di detenzione che si trova vicino a Holot, “perché lì cominciano a mancare i posti, e perché tanto non c’è una gran differenza: le persone accettano comunque di partire”.

Il piano è semplice. Da quando si è conclusa la costruzione del muro tra il Sinai e Israele, all’inizio del 2013, gli ingressi sul territorio sono praticamente finiti (34 nei primi sei mesi del 2013 contro 9.570 nello stesso periodo nel 2012). Ora che non entra più nessuno, chi è dentro va cacciato (Israele avrebbe firmato la Convenzione di Ginevra nel 1954, ma evidentemente ne dà un’interpretazione tutta sua se da allora ha concesso lo status di rifugiato a poco più di duecento persone). Non ci devono essere africani sul territorio. Verranno tollerati solo i falascià, gli ebrei etiopi, che vanno benissimo per i lavori umili e sottopagati. E se intanto degli etiopi vengono scambiati per sudanesi o eritrei e aggrediti, come mi racconta Elodie, poco male. “Il razzismo in Israele è palese, dichiarato. Vedendomi impegnata a fianco dei rifugiati c’è chi mi ha sputato in faccia, chi ha minacciato di investirmi. Sono sentimenti condivisi dalla stragrande maggioranza degli israeliani”. Questo video del 2013 riassume bene la situazione. Uno dei due autori, David Sheen, è un documentarista che si occupa da anni del tema, anche su [Twitter][6].

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

“L’unica speranza”, ammette Elodie, “è che su pressione della comunità internazionale queste decine di migliaia di persone siano reinsediate altrove. La mentalità degli israeliani non cambierà. Nelle scuole materne di Tel Aviv sono state create delle classi separate per i figli degli immigrati africani. E a Holot i rifugiati vengono chiamati con un numero… un numero, ti rendi conto?”.

Elodie accompagna Hassan, in partenza per Holot con uno dei primi autobus, febbraio 2014 (foto di Tomer Neuberg).

Francesca Spinelli è giornalista e traduttrice. Vive a Bruxelles e collabora con Internazionale. Su Twitter: @ettaspin

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it