White noise, il film di Noah Baumbach che ha aperto Concorso e festival, è una bomba. Ed è un film coraggioso sotto molti aspetti. Per i temi, per il suo anticonformismo, per il suo stile visivo e narrativo. Adattando l’omonimo romanzo di uno scrittore celebrato come Don DeLillo, Baumbach torna al Lido, dopo Storia di un matrimonio (2019), con un’opera cinematografica libera e ariosa, dalle inquadrature eleganti, dai movimenti di macchina continui e spesso aerei ai quali si sommano sequenze di montaggio alternato secche quanto dirompenti.
Interprete protagonista è Adam Driver, perfettamente calato nel suo personaggio, un professore universitario e conferenziere esperto di Adolf Hitler e delle sue inquietanti fissazioni estetiche.
Tra il gusto ludico per la catastrofe continua e per l’estetica dell’incidente che vediamo all’opera da decenni nei film d’azione statunitensi e l’estetica incendiaria intesa in senso sia figurato sia letterale del leader nazista, si crea pian piano un nesso che è quasi un’esegesi semantica espressa visivamente, sulla quale s’inserisce la magnifica allocuzione e gestualità teatrale del personaggio interpretato da Driver, anch’esso ripreso grazie a del gran cinema in movimento emancipando ancora una volta l’adattamento cinematografico dalla originaria matrice letteraria.
Tensione interiore sociale
Un grave incidente sconvolge una cittadina e il regista riprende il panico che segue alla fuga degli abitanti con una forma astratta e allusiva che per certi aspetti trova una prossimità con il bellissimo Nope di Jordan Peele il quale, come nel cinema di Jacques Tourneur (Ho camminato con uno zombie, Il bacio della pantera, L’uomo leopardo), invece che mostrare l’evidenza come tanto horror e fantascienza cinematografica di oggi, suggerisce e suggestiona passando così dall’astratto al concreto, da Incontri ravvicinati del terzo tipo di Spielberg a Signs di M. Night Shyamalan, dall’horror alla fantascienza, senza soluzione di continuità, come in osmosi, come fosse un organismo unico, non fermandosi a fare un catalogo di riferimenti cinefili ma astraendo e rielaborando quest’ultimi.
Ma qui non siamo nell’immersione nel silenzio di Nope: le pur importanti oasi di silenzio sono circondate dalla desertificazione crescente dell’umano sentire provocato dal gran chiasso, dal fragore, dalla concitazione continua e inarrestabile, ammaccando, rompendo o sfasciando sempre tutto al passaggio quando ci si ritiene legittimati per definizione dall’aver la ragione dalla propria parte o le giuste ragioni di causa maggiore che consentono, secondo tale logica, di non aver riguardo alcuno verso nessuno.
Una tensione interiore sociale favorita da una paranoia congenita e pervasiva – tematica chiave nel romanzo di DeLillo – che infine esplode nella dimensione intima come in quella collettiva. Mentre l’ossessione per le malattie e le medicine – anche se sottotraccia il film elabora chiaramente il tema della pandemia e del covid– invece che essere sintomo di salutismo pare una sindrome patologica che si tenta di curare generando altra malattia. Senza contare Ufo e predicatori religiosi che cominciano a essere contigui alla politica del Partito repubblicano proprio con la presidenza Reagan, gli anni in cui DeLillo pubblicò il suo romanzo.
Tutto questo conferisce alla satira in versione metafisica di White noise un’altra dimensione, malgrado l’immersione nel vuoto e nella vacuità veicolata dalle linee preordinate e ipercolorate dei supermercati che sembrano trasfigurare la pop art in chiave concettuale saldando il tutto con il chiasso, il rumore onnipresente, malattia endemica della società statunitense. “Voi bianchi fate sempre molto rumore per nulla”, dice un guerrigliero indigeno al capitano Koinsky dell’esercito britannico in Vanghe dancale, graphic novel di Hugo Pratt che risale al 1981, quindi non poi molto anteriore al romanzo di DeLillo. E nel nulla di una civiltà che si dissolve nell’inconsistenza da un lato, e nella catastrofe ridotta a gioco-estetico dall’altro, sembra essere la nostra fine. Ricominciare perennemente da questo nulla come se niente fosse fino alla catastrofe prossima ventura. Sia, o meno, l’apocalisse definitiva. Ma sempre di morte e di paura della stessa si tratta, tema fondante del film come del romanzo.
Più classico – anche se in fin dei conti è un classicismo più apparente che altro – e anch’esso elegante sotto vari aspetti (regia, fotografia, montaggio) è Tár dello statunitense Todd Field che firma il suo terzo lungometraggio. Strana fino al punto da essere piacevolmente straniante questa elegante incursione nel mondo della musica classica in contesto moderno, è ambientata in buona parte negli spazi ampi ma freddi di Berlino e retta da una straordinaria Cate Blanchett qui in una delle migliori interpretazioni della sua carriera. Complesso e raffinato nella costruzione dei dialoghi – compresi i tanti riferiti alla musica classica o più genericamente all’arte – come anche nella costruzione di situazioni e psicologie, il film fotografa un ambiente che esclude gli uomini pur senza adeguarsi pienamente alla filosofia gender, veicolando una sorta di riflessione a due facce sulla questione.
La Blanchett, che interpreta qui una direttrice d’orchestra totalmente assorbita dalla sua vocazione, si muove in un mondo di donne: la sua compagna, le sue allieve, la sua bambina. Gli uomini fanno delle comparsate in quanto collaboratori gay oppure perché giovani studenti ossessionati dal politicamente corretto, una questione peraltro che ritroviamo parodiata in The kingdom exodus (fuori concorso) di Lars Von Trier, sorta di splendido seguito di The kingdom che sarà distribuito in sala da Movies inspired, dove il regista si prende gioco davvero di tutto a cominciare da se stesso non perdendo però mai di profondità.
In Tár invece la questione è più seria. Come il ragazzo nero che fa infuriare la Blanchett all’inizio perché non considera musicalmente Bach per via della prole numerosa generata dal musicista tedesco da lui letta come una prova del suo maschilismo. Ma il film tra le molte cose sembra dirci che è il ruolo, la situazione, il contesto sociale o storico, il fatto di detenere un potere sugli altri, a creare certe situazioni, siano ambigue, criticabili o da contestualizzare, non il genere.
La falsa cronaca di una manciata di verità – Bardo (o falsa crónica de unas cuantas verdades) il titolo originale– di Alejandro Iñárritu vuol essere un viaggio-confessione introspettivo quasi spazio-temporale che si coniuga a una disamina-confessione sul folle stato del pianeta creando una serie impressionante di quadri e di idee visive di grande originalità oltre ad alcune sequenze di notevole suggestione o impatto che meritano di esser viste. Difficile anche non salutare il coraggio sperimentale in un film per il grande pubblico. E nondimeno l’empatia e la profondità nella costruzione dei caratteri dei personaggi e delle situazioni non riescono a fiorire compiutamente in un film segnato come sempre nel cinema del regista messicano dalla metafora esibita e dalla ridondanza virtuosistica.
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